I SEGNI DEL TEMPO
Collana di Saggistica
Pipo Nasca
Commentario
Edizione 2023 © Associazione Akkuaria
Via Dalmazia 6 – 95127 Catania – cell. 3394001417
www.akkuarialibri.com – info@akkuarialibri.com
ISBN
1a Edizione Luglio 2023
COMMENTARIO
di
Pippo Nasca
Recensioni di testi letterari
Edizioni Akkuaria
Il commentario di Pippo Nasca altro non è che una raccolta
di giudizi letterari che lo stesso ha durante il suo spigolare tra i
libri degli Autori di Akkuaria e di Autori che hanno partecipato
ai premi letterari promossi da Akkuaria per la sezione editi. Un
insieme di pensieri che hanno occupato di volta in volta la sua
mente, ma il suo non è un lavoro di poco conto poiché si è
occupato di autori emergenti e anche di personaggi notissimi
che nulla aggiungono al sapere universale.
IN LETTURA VERSO IL MIO MONDO
Prefazione di
Grazia Maria Scardaci
“I “chiunque” erano i giovani come me, senza ancora arte
né parte, studenti squattrinati che a gruppi di dieci o dodici
riuscivano a mettere insieme la cifra occorrente per l’affitto
stagionale di una cabina”
Immersa in una solitaria lettura incontro il mio mondo, la
mia città nel senso e nel verso perduto.
Fra immagini sovrapposte e rapide pennellate si muove
Giuseppe Nasca con precisione e talento, descrive per
immagini le sue intrappolate impressioni in ricordi nitidi e
interessanti passaggi e vive le estati dei poveri con le attese
dell’ascensore sociale, condizione di speranza e di cambiamento
possibile, atteso, proponibile.
Autore prolifico e vario, esplora la condizione di latenza
della sicilianità nei territori storici, mitici, epocali, definendone
i tratti autentici della sintesi che noi tutti, oggi, rappresentiamo.
L’aggancio narrativo è sapientemente orientato alla consapevolezza
di dare comprensione esatta e totale del testo, parla
esattamente al lettore ideale in chiave formativa e culturalmente
adeguata.
Parla al lettore perché esso stesso è un lettore.
Vive il mito e la vicenda prima di trasporla, così il Monte
Mojo diviene visivo e Angelina e Alfieddu respirano da morti
nelle nostre pagine.
Un talento straordinario speso con gentilezza e competenza
investendo, in politematica contemplazione, il mito attraverso
la nostra pelle.
Un lettore riconosce sempre la scrittura di un altro lettore,
ne diventa complice e supplice, autorizza il lettore-scrittore a
parlargli con il trasporto della sua stessa capacità narrativa.
Giuseppe Nasca, un lettore abilissimo e talentuoso, sussurro
di una letteratura mondiale che, dalle “vene ingrossate della
mano” del trascrittore narrativo si fregia e arricchisce la sua
stessa arte.
Una vita ad alta velocità fra l’impiego alle Ferrovie di Stato,
la dote costruttiva dell’arte narrativa e un cammino poetico
immenso, vitale, assertivo di un mondo interiore ricco e
generoso in interdipendenza “We'll never leave each other!”.
Plastica la fantasia che l’ha mosso in molti scritti fino ad
immaginarsi trapassato ma presente in Cronaca di un
trapasso, una sorta di Mattia Pascal deceduto sul serio e
“affacciato” sull’uscio dell’Eterno a spettegolare sulle presenze
o assenze al funesto rito.
Ironica scommessa con il mondo dei viventi fra vite e
dimensioni integrali e “Cavaleri di nenti” che ricalcano un
esperimento filmografico, successivo al testo, di grandissimo
successo in Amabili resti di Peter Jackson su reinterpretazione
del libro The lovely bones di Alice Sebold.
Monumentale chiave scientificamente distica: «A quanto
pare, sono morto, anche se mi sento vivo e vegeto» la
confusione degli stati di coscienza, l’idea dei poltergeist
pluridimensionali che un solo lettore, che è anche uno scrittore,
può serenamente generare.
Giuseppe nelle pause formative ha trovato casa, elaborando
un dominio controllato della condizione letteraria primaria,
ascrive all’attesa il momento della creazione mediata, incredibilmente
ricco il suo cammino, assolutamente unica la sua
presenza fra le reti culturali della nostra città, dei territori
culturali che viviamo accresciuti grazie al suo intatto desiderio
di donarsi.
“Finalmente il treno riprese la corsa” direbbe il mio caro
Zavattini ma, a mio dire, credo che la corsa non sia mai
terminata per Giuseppe Nasca, la sua immersione fra il bello e
il narrato è divenuto solido emblema della sua cifra stilistica.
In Yoshe Kalb di Israel J. Singer si chiede a Yoshe “Chi
sei?” e lui risoluto risponde “Sono una pietra”, un passaggio
che ha reso partecipe il lettore parte dello scritto,
immortalandone i significati nei significanti.
Una creazione letteraria dello scrittore Singer al processo
adattativo innescato nel lettore, cercando le domande per avere
risposte.
Nell’intelligente creazione di Giuseppe Nasca vedo la
domanda che risolve l’enigma del lettore, consapevolezza
autentica e compartecipazione all’idea creativa.
Giuseppe crea, racconta, ipotizza con i catanesi la nostra
stessa catanesità.
Leggetelo per coglierne le risposte.
Buona Lettura!
Grazia Maria Scardaci
COMMENTI ALLE OPERE
DI VERA AMBRA
LA POLVERE E IL VENTO
Quando si parla di vicende amorose, la nostra mente rievoca
in maniera assoluta i grandi drammi d’amore senza fine e la
nostra fantasia si colora di fantasmi talvolta diafani, talvolta
profondamente erotici, di personaggi che poeti, scrittori e artisti
di tutti i tempi hanno saputo creare.
Ed è così che le figure di Beatrice, di dantesca memoria, e
quella di Laura, amata dal Petrarca o di Fiammetta, amante del
Boccaccio, prendono consistenza della nostra fantasia insieme
alle vicende rosa più recenti di Liala o delle nostre canzoni
sentimentalmente struggenti oppure dei grandi drammi del
passato in cui nemmeno la morte riesce a sedare l’intimo ed
eterno contatto tra due esseri innamorati.
Tutto questo non emerge nelle poesie di questo volumetto di
Vera Ambra, dove prendono consistenza quelle improvvise
vicende amorose, vissute intensamente nello spazio del loro
realizzarsi e che rimangono nascoste, anzi dimenticate, sotto la
coltre della polvere accumulata dal vento della vita.
Queste vicende sono delle vere meteore che l’infinito
accoglie nel loro intimo profondo e ricordare la loro luce
eclatante non manifesta nostalgia, ma profuso godimento
contemplativo di gioie vissute senza remore, senza rimpianti e
senza speranze del loro ripetersi e che restano, comunque,
perennemente presenti.
È la descrizione dell’amore “mordi e fuggi”, da lasciare
sopito nell’animo e da farlo apparire a tratti per gli attimi di
piacere intensamente vissuti in un alone d’atarassia completa.
Ed è così che Non c’è nulla del mio passato che non sia
presente, oppure che Le tempeste passano Poi ritorna il sereno
poiché La Voce di mondi lontani sono labbra di melodia e
l’amore è quello del “Marinaio dei Venti”… mentre Con le
briciole di noia mi sazio al profumo delle arance e aspetto che
la poesia mi rivesta il cuore.
Immagini, queste, che è possibile riscontrare nel libro,
insieme ad altre, che rilevano metaforicamente il valore di
esperienze avvenute quasi per caso e che restano comunque
piacevolmente presenti nel ricordo, sotto la coltre della polvere
rimossa dal vento.
Lo stile è sempre quello ispirato all’ermetismo poetico,
privo di punteggiatura, che illustra immagini evocative ampiamente
significative, nonostante le astrazioni metafisiche che in
ogni caso non debordano nel concettoso e anzi arricchiscono i
versi di fantasia allegorica.
PUDORE
Dopo aver letto le poesie di questo libro di Vera Ambra,
stupito, incerto e perplesso, mi sono chiesto se avessi finito di
leggere un trattato di filosofia esternata in versi oppure un
diario poetico con contenuti ermetici di non facile comprensione.
Questo perché la quasi totalità delle immagini, costruite con
ricercatezza, mi hanno sottoposto a profonde riflessioni ricche
di risvolti psicologici che, talvolta, mi hanno fatto smarrire
l’orientamento di valutazione.
È stato spontaneo chiedermi se tutte queste poesie, tutte
queste immagini evocate, tutte queste parole ricercate avessero
tra di loro un nesso logico e una finalità conclusiva.
Apparentemente mi sembrava che tale legame non esistesse,
in quanto ogni singola poesia può benissimo esistere da sola e
non è collegata a quella precedente né a quella successiva, ma
esaminando la tonalità di ognuna di esse ho scoperto il filo
conduttore che le lega.
Non si tratta, dunque, di una raccolta antologica di poesie
ma di un vero racconto esternato con poesie di diversa tonalità
di immagini ed esattamente di un diario, di un lungo tratto della
vita dell’autrice in un crescendo di emozioni ottenute con l’aiuto
di descrizioni poetiche e fantastiche apparentemente non
pertinenti ma esemplificative.
Un vero diario, dunque, che annota e descrive degli stati
d’animo e delle emozioni di una donna dall’inizio della sua vita
sentimentale alla maturità attraverso le singole vicissitudini di
una vita.
Ed ecco che si passa dal sentimento, che è accompagnato
dal pudore, del passaggio dallo stato di bambina a quello di
adolescente, della scoperta del desiderio dell’amore, della
felicità coniugale, dell’affetto per i figli, della delusione, dell’abbandono
e della ritrovata forza per superare ogni negatività.
Così ogni singola poesia diventa un piccolo tratto di sensazione
nuova, un pezzetto di esperienza emotiva, un fiocco di
quel nastro annodato che è la vita e il tutto descritto attraverso
immagini talvolta ermetiche che, però, hanno la tonalità adeguata,
come le note emesse da uno strumento musicale
“Alzati ragazzina e vesti la strada con abiti d’amore”
“ … mi nutristi di silenzi
spogliati di parole”
“… è traccia di pensiero
l’inesplorata curva
del pudore”
“e brividi di paura
bussano al grembo”
“possedere e perdere
schiava e padrona
seducendo l’innocenza
con l’ardita carezza”
“… un ago di veleno
rientra e colpisce”
“… alito di vento
spirato di mare
sul braccio di noia …”
“I cimeli della ragione scelsero per me la via …”
“Respirerò il profumo dei fiori anche di carta
… respirerò il profumo della mia fantasia”.
La conclusione del libro con l’ultimo verso dell’ultima
poesia che cita il profumo della fantasia, mi richiama alla
memoria il cogito ergo sum di Cartesio, dove al “pensare” si
sostituisce il “poetare con fantasia”. Come dire: “esercito la
fantasia poetica, dunque esisto”. Poiché, infine, questo mi
sembra il messaggio di tutta l’opera, cioè il trionfare della vita
e del desiderio di viverla facendo ricorso alla fantasia poetica,
nonostante le avversità nefaste incontrate.
Questo messaggio, silenziosamente emergente, dà il senso
di universalità a quello che potrebbe considerarsi una esperienza
personale raccontata in versi, i quali, proprio per questo
motivo, hanno un sapore d’ubiquità comune a tutte le donne
È questa, a mio avviso, un’opera poetica diversa e più incisiva
delle altre della stessa autrice, proprio per questa indagine
psicologica che la porta non solo a esercitare la sbrigliata
fantasia di sempre, ma a formulare una teoria basata sul
superamento delle delusioni e valida per tutte le donne, che
vengono così esortate a non subire le angherie dell’altro sesso e
a reagire attingendo in se stesse gli elementi di difesa.
Per tutto quanto ho considerato, infine, ho sciolto ogni mio
dubbio e incertezza: il PUDORE di Vera Ambra è un’estrinsecazione
poetica dell’eroismo della figura femminile esaminata
in ogni suo aspetto della vita e un invito alle altre donne di
imitarla nel superare le varie difficoltà esistenziali nei rapporti
con l’altro sesso, compreso lo stesso pudore che occhieggia in
ogni sua azione.
DIGNITÀ CALPESTATA
Il tema di questo monologo poetico di Vera Ambra, è quello
della violenza nei confronti delle donne. Ma non bastava all’autrice
descrivere la violenza fisica che, anzi, viene del tutto
ignorata, essendo continuamente offerta sotto i nostri occhi a
tutte le ore dalla TV. A Lei necessitava evidenziare la violenza
morale, di cui i nostri mass-media nemmeno si preoccupano di
evidenziare, a cui viene sottoposta la donna, nostante la vittoria
giuridica sulla cruda realtà della violenza.
A Lei non basta che venga evidenziata e punita la violenza
fisica nei confronti di un essere da difendere e amare, ma
necessità evidenziare un altro tipo di violenza morale di cui
nostri mass-media non parlano e che è del tutto ignorata.
In questo monologo poetico di Vera Ambra, dove il gusto
della vittoria della libertà, viene irrorato con il veleno accumulato
in secoli di avvilimento morale, emerge in modo molto
drammatico la realtà della condizione in cui si è venuta a
trovare la donna nel secolo scorso.
Ella, la donna, ha finalmente vinto la sua battaglia, che è
quella della parità di diritti nei confronti degli uomini, è
riuscita a far condannare chi di lei ha abusato, a ottenere la
separazione legale, il divorzio, il prorio ripudio, ma sente
improvvisamente attorno a sé il vuoto creato in una situazione
non prevista o sufficientemente valutata e che colpisce principalmente
i suoi sentimenti di madre e di donna.
Ella è riuscita, qualunque possa essere stata la causa della
fine del rapporto matrimoniale, ad affermare la sua personalità
di donna, dei suoi diritti alla scelta di vita più confacente al suo
nuovo modo di pensare, ma, nello stesso tempo, prova l’amarezza
scomoda della posizione raggiunta, quella di donna
“separata”, obesa dalla incombenza di tirare su l’educazione
dei figli frutto di quel rapporto andato a male e dal modo di
pensare ancora vigente intorno a sé.
Ella è finalmente libera da una schiavitù non desiderata e
forse diversamente sognata, ma è scivolata nella posizione di
“donna separata”, da tenere a debita distanza dalle amiche per
tema di essere cornificate, da diventare oggetto di mire non
certo fraterne da parte di altri uomini sempre pronti a cogliere
l’occasione per un’avventura ritenuta facile.
È la classica vittoria di Pirro da millantare, ma da lasciare la
bocca amara per il veleno che ha suscitato intorno.
Non era certo una posizione aurea quella di separata con tre
bocche anche da sfamare nello scorso secolo.
Forse non lo è ancora anche in questo secolo.
La dura realtà da affrontare non è tanto l’essere restata sola,
la delusione per un rapporto diversamente concepito, le
difficoltà spuntate ad ogni angolo della via, ma il senso di
vuoto che si è venuto a creare intorno, il silenzio che ti opprime
e che non riesce a tacere nonostante i tentativi per superarlo.
Ecco che accanto alla violenza fisica contro le donne, fa
capolino, trionfante, la violenza morale, quella dall’abbandono,
dall’annientamento dei propri sentimenti, che non possono
essere cancellati nemmeno dai ricordi più belli e più intimi.
Da questa attenta analisi del monologo poetico, emerge
chiaramente il bisogno che non è solamente da vincere e da
eliminare la violenza fisica, che riesce a essere evidenziata
attraverso i mass-media, ma anche e sopratutto quella morale
della donna “separata”, che silenziosamente avvince e distrugge
la personalità della donna che viene a trovarsi in tale
situazione.
Il monologo, anche se poeticamente trattato dalla sapiente
penna di Vera, riesce ad esprimere in maniera cruda e reale
questo tipo di violenza morale che la donna subisce in maniera
silente, ma gravemente lesiva.
AL GIUNGERE DELLA NAVE
Ed è così che leggendo questo libro, omaggio a Kahlil
Gibran, ho scoperto la predisposizione all’indagine filosofica di
Vera Ambra!
Una sorpresa veramente, anche se emerge dallo scritto la
tendenza all’esposizione poetica dei concetti, che scendono in
profondità nei meandri del ragionamento.
Sostanzialmente l’argomento del libro è quello di esporre il
pensiero di Kahlil Gibran, oscillante tra la cultura della
religione Bahà-i, d’origine araba, e la controcultura americana
della New Age.
Prima di affrontare la varietà dei temi affrontati, è bene,
conoscere chi fosse Gibran e cosa fosse la religione Baha-i,
nonché la new age.
Khalil Gibran, è il nome americanizzato di un poeta, pittore
e aforista libanese, naturalizzato negli USA. In seguito alle
alterne vicende del padre, tra l’altro finito in galera per
malversazione finanziaria, emigrò insieme alla madre Kalima a
New York. Scolarizzato in arabo, successivamente apprese la
lingua inglese, che adottò come base per i suoi scritti,
attingendo comunque alla sua educazione primigenia. Di
religione cristiano-maronita, venne influenzato dal pensiero
filosofico di Abdul-Bahà, al quale lo stesso Gesù Cristo sembra
abbia attinto largamente nei suoi insegnamenti. Fu questa la
base della contro-cultura americana del suo pensiero, dando
luogo all’adesione ai principi della New Age, in cui convivono
sentimenti religiosi misti ad atavici laicismi.
Egli, quindi, dopo aver abbandonato la scrittura araba, si
votò non solo nella forma, ma anche nelle idee, a questo tipo di
cultura innovativa sviluppatasi intorno agli anni sessanta.
Ebbene, inconsapevolmente, Vera Ambra, culturalmente
immersa nella New Age, nei suoi primi approcci letterari
giovanili scoprì un modo di sentire parallelo a quello di Gibran.
Forse sorpresa, forse ammirata, forse pienamente convinta
del processo intellettivo dello scrittore arabo-americano, lei,
dopo aver letto il testo poetico IL PROFETA del poeta e averlo
raccordato alle sue prime poesie giovanili, dette di piglio alla
penna mettendo sulla carta un misto tra il pensiero del poeta e
il suo, creando una continuità causale quasi naturale tra i due
modi di sentire.
Ed è così che sull’onda della celebre massima di Gibran
(Metà di quel che dico non ha senso; ma lo dico perché l’altra
metà possa giungere a te), la nostra scrittrice sale sulla nave del
pensiero, attraversa il mare e infine giunge al porto delle sue
conclusioni, che ammettono una supposta verità per affermarne
l’opposta in una sintesi concettuale logica e lapalissiana.
“Senza dolore non si è vivi nell’amore, Senza amore non si
è forti nel dolore.”
“La terra ama sentire i vostri piedi nudi e il vento gonfiarsi
con i vostri capelli.”
“E chi volesse frustare l’offensore scruti nello spirito
l’offeso.”
“La pietra angolare del tempio non è più alta della pietra
più bassa delle sue fondamenta.”
“Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero
cantare.”
“E benché nel vostro inverno neghiate la vostra primavera,
la primavera che è in voi sorride intatta e assopita”
Potrei continuare a citare altri passi del libro, ma limiterei il
ragionamento logico e poetico di ogni singolo concetto, espresso
in modo semplice e scorrevole.
Talvolta sfugge il significato tra la prima metà e la seconda
del concetto espresso, talmente è sottile il ragionamento e la
sua conclusione, ma un’attenta rilettura scioglie subito
l’arcano.
Naturalmente viene da chiedersi se l’opera possa catalogarsi
tra quelle poetiche o quelle saggistiche.
Io sono del parere che sia insieme poesia e saggio oppure
saggio e poesia senza sapere quale sia effettivamente la prima o
la seconda metà, poiché le due realtà sono così intrinsecamente
connesse da non poter distinguere addirittura tra ragionamento
e poesia.
Del resto, anche le opere del Gibran hanno la stessa valenza
dubitativa, che è alla base della sua arte, tra il vecchio e il
nuovo modo di sentire.
PEGASEIUM NECTAR
Già il titolo del libro di Vera Ambra, che richiama alla
memoria il nettare e il mitico cavallo alato Pegaso, predispone
ad un lettura dolce, gioiosa e fantasiosa e tale si rileva fin dalla
premessa:
Più sottile d’un fil di fumo
diventammo nuvola
diventammo goccia
e scoprimmo d’esser acqua
sol quando ci abbracciammo al fuoco.
Su questo tema si svolge tutto il contenuto espresso con i
soliti versi di diverso calibro sillabico ed effetti tonici, che
ignorano la punteggiatura, tranne qualche sporadico punto,
giusto per separare un concetto da un altro che segue.
È da dire, in proposito, che la punteggiatura diventa
superflua, poiché la sua funzione viene assorbita dall’ampiezza
di ogni singolo verso, magistralmente posto.
Aggiungo che tale soluzione dà un tono più sbarazzino e
moderno a tutta l’opera, che si adatta moltissimo all’argomento
trattato, infarcito di immagini veramente fantastiche che però
poggiano solidamente su una realtà tangibile e coreografica.
Il contenuto del poemetto è un racconto, anzi, un quadro che
graficamente illustra le sensazioni di due amanti nello spazio di
una notte, destinato a ripetersi finché la forza dell’amore lo
consente.
Esso procede per immagini traslate in un mondo parallelo di
sensazioni veramente naviganti sulle ali di Pegaso e degno di
voli pindarici che lascia meravigliosamente stupefatti per la
ricchezza di orpelli poetici attentamente studiati.
Nulla è fuori posto. Ogni immagine pindarica coincide con
la realtà effettiva dell’avvenimento erotico, descritto fin
dall’approccio iniziale a quello finale con dovizia di particolari
e di dettagli rigorosamente esaltati.
Dai versi, ora dell’uno, ora dell’altra, emergono le varie
tappe di tutto l’avvenimento che si consuma nell’arco di una
notte.
Il corteggiamento iniziale con l’ansia dell’attesa teso a
superare incertezze e remore, mostra la lucentezza delle stelle e
della luna che brillano nel buio della notte e chiama in causa
anche una semplice nuvola
“che d’estate ristorandosi al calore
aspetta che in terra faccia ritorno”
Ed ecco l’esortazione incoraggiante di lui:
“Nega la tua esistenza e lasciati andare”,
cui corrisponde la risposta rassicurante di lei:
“Non è la vita – principio d’ogni cosa –
a straziarsi nella morsa dell’attesa?”
Non manca la paura dell’approccio da parte di lei:
“Sono fragile foglia se mi sfiori
con mani impazienti”
“ Indossami come una calza
… caso mai una calza vesti e non denuda.
Ma ecco che con l’inizio dei preliminari lo scenario si
allarga e viene descritto fantasticamente nei minimi particolari
senza per altro incedere nel turpiloquio.
I versi e le immagini scivolano e si attardano nella
descrizioni degli eterei gesti delle scene, descritti come
fondamentali e necessari, e infine giunge lo spasmo finale con i
limiti imposti della natura che nell’attesa della ripresa costringe
lui al riposo e lei all’autoerotismo per prolungare… gli scalpiti
di Pegaso.
Non mancano i riferimenti al sinuoso mondo erotico del
mito, scomodando finanche gli spasmi del mitico Sisifo, la
lunga attesa di Penelope, le potenzialità di Giove, il fantastico
riferimento al tridente di Nettuno che supera di gran lunga la
pur efficiente unica spada del guerriero Marte, l’immagine del
dardo scoccato, che ritorna all’arco nel suo andirivieni di
tensione, e l’ironico riferimento al marinaio Ulisse, che
accecato dalla furia delle onde riesce ad entrare in porto con…
un solo remo.
Infine, con lo sparire della notte e delle sue penombre
nell’albeggiare del giorno la stasi regna, foriera di vita, ma di
un riferimento alla leggerezza malinconica dell’essere espressa
dalla figura finale del cigno, l’uccello dal lungo collo, che,
però, non si è mai sentito cantare. Bello, maestoso, ma
irraggiungibile nelle sue prestazioni… canore.
Mi è piaciuto e non poco il mancato riferimento a Venere,
Dea per eccellenza dell’amore, sostituita dalla figura più
completa di Giunone, che dal suo seno amoroso di moglie ha
fatto scaturire più volte la vita. È chiaro il connubio mitico che
esiste tra l’amore e il dare la vita, espresso dalla figura della
moglie di Giove e ignota in Venere. Così il rapporto amoroso
non resta relegato a semplice atto erotico a se stante, ma
assume la funzionalità che la provvida natura gli ha assegnato.
È questo uno spiraglio sottile di spiritualità che si insinua
nel mondo di edonismo descritto senza freno, poiché, chiaramente,
l’opera è distante le mille miglia dalle espressioni
amorose del dolce stil novo di Dante e Petrarca, dei sospiri
romantici del Leopardi e delle aspirazioni religiose del
Manzoni, nonché delle elucubrazioni funeree del decadentismo
o delle leziosità eteree e sognanti di Liala.
Siamo in presenza di un’opera che si inserisce sopra tutto
nel solco dell’edonismo erotico e sensuale, nato in verità in
tempi remoti, ma attualmente alimentato dalla moderna visione
della donna, non più schiava d’atavici tabù, ma libera
d’accedere, a parità con l’uomo, alle fonti del piacere.
Un plauso va all’autrice Vera Ambra per la delicatezza di
espressione veramente singolare e fuori dal comune, che ha
pure corrotto una valente conoscitrice della lingua spagnola, la
quale si è peritata di tradurre in questa lingua i suoi caldi e
conturbanti versi.
Per chi non lo sapesse la Signora Fàtima Rocio Peralta
Garcia ha editato la traducion en espagnol de PEGASIUM
NECTAR de Vera Ambra”.
In premessa ella dichiara esplicitamente che la traduzione di
queste poesie le hanno dato la sensazione di essere una ninfa
dell’olimpo e di aver scoperto in questi versi un mondo nuovo.
Conclude la sua introduzione con queste lusinghiere parole:
Resumendo en breve puedo decir que la obra de Vera
Ambra es …
Un delirio de palabras
ambrosìa en los labios
piel amante del Olimpo
amalgama de pasiones.
Ecco, dunque che la nostra Autrice, cavalcando Pegaso nelle
sue alate evoluzioni, sorvola gli Appennini, le Alpi, i Pirenei e
anche l’azzurro mare nostrum latino e raggiunge la Spagna per
allietare anche lì chi legge questo gioioso libretto di poesie.
IL GABBIANO E LA LUNA
Un libro veramente interessante che ha per argomento il
rapporto di coppia tra due persone che si sono amati, lasciati,
riamati ed abbandonati, anche se il ricordo non può essere
cancellato ma senza il benché minimo rimorso.
Penso che anche questo libro molto probabilmente è la
cronaca di un primo amore, che ha finito per segnare una tappa
di vita vissuta, che ancora oggi si ripete tra gli esseri viventi e
che forse continuerà a persistere nelle future generazioni,
nonostante l’evoluzione ed il cambiamento dei soggetti.
Il gabbiano e la luna sono i simboli di questa storia che
appare abbastanza singolare per la esplicita forza e il coraggio
dimostrato da una donna che liberamente racconta, assaporandone
il gusto dolce e amaro, la sua passione e il fuoco
provato in quella relazione che purtroppo è finita e di cui ne
accetta la fine. E non solo questo, ma anche la forza di
giustificare il narcisismo di lui in quel rapporto in cui ella è
servita di riflesso ad una passione di gran lunga più grande:
l’amore per se stesso. La passione di lei è così forte che non
solo giustifica il narcisismo spietato di lui, ma cerca anche lei
di trovare nello specchio della sua anima la stessa immagine di
autostima, esponendo senza alcun pudore tutto ciò che ha
provato e desidera ancora provare.
A giustificazione del mio dire sostengo che ai tempi attuali
un siffatto comportamento muliebre non costituisce una novità
grazie all’evoluzione della parità tra i sessi, ma al tempo in cui
il libro fu scritto era ancora in auge la riservatezza dei
sentimenti femminili, retaggio di un tempo che fu.
La luna, dal ruolo di muta osservatrice che il romanticismo
le ha cucito, è passata a quello di imitatrice delle evoluzioni
piuttosto corsare del gabbiano; lo imita in tutto, compresa la
libera esposizione dei suoi sentimenti e dei suoi desideri
riuscendo a esprimere con intensità l’afflato poetico che
circonda il loro rapporto.
I versi, ora brevi, ora più intensi al variare dei concetti,
seguono una logica poetica che denota una padronanza
linguistica non comune e anche gli stessi riferimenti al mondo
classico, usati con perizia, non appesantiscono la loro lettura.
I termini usati non distolgono l’attenzione del lettore dal
tema che l’autrice si è prefisso di esporre.
La scelta di un simbolismo legato ad un uccello predatore
del mare e al pallido astro lunare osservatore delle sue libere
scorrerie è stato geniale dal punto di vista poetico ed
espressivo.
Il risvolto morale è che il gabbiano impari ad apprendere
che la luna ha cessato di essere la muta e accondiscendente
osservatrice che il Leopardi le aveva assegnato e che essa è
capace di imitarlo e di suscitare anche le alte maree
INSABEL
Penso che, molto probabilmente il titolo di questo romanzo
di vera Ambra sia stato scelto dall’autrice per civetteria e in
omaggio alla sua posizione di donna.
Ritengo che il titolo più appropriato sarebbe stato “Insabel e
Fausto”. In effetti siamo in presenza di un racconto d’amore
che riguarda entrambi.
Infatti nel libro, non sono descritti semplicemente le sensazioni
di Insabel, perdutamente innamorata del suo Fausto, ma
anche quelle di quest’ultimo.
Non è quindi un romanzo a senso unico, nato per esprimere
solamente il mondo femminile che ruota intorno al concetto
dell’amore, piedistallo eburneo della solita eroina dei tempi
moderni libera di scelte e quant’altro in materia di sentimenti e
di sesso.
I protagonisti sono due e non una solamente, anche se unico
è il sentimento che li lega.
Sono parimenti descritti i sentimenti, le voluttà sessuali, le
sofferenze, le grida represse delle loro anime e dei loro corpi,
senza alcuna limitazione di sorta, così come sono descritti
parimenti l’incertezza e la timidezza del loro primo incontro,
non che le esperienze comuni presenti e passate.
Ecco che tutto il romanzo nel suo svolgersi, sembra
assumere la funzione del classico manuale dell’amore perfetto,
dove minuziosamente e con molta arte poetica vengono
descritte le varie fasi, dall’inizio alla fine di tutta la vicenda,
accarezzando gradevolmente, stuzzicandola, la fantasia di chi
legge.
Quasi per dire al lettore: ecco! Se due esseri provano
entrambi quello che descrivo, ebbene, si tratta di vero amore.
La vera novità, almeno per le mie esperienze, sta nel fatto
che il personaggio femminile, similmente ad uno maschile,
diventa la descrittrice reale del suo modo di essere donna e di
quello del suo compagno di essere uomo, senza alcuna remora
o tabù o sotterfugio caratteristico dei romanzetti d’appendice.
Ma non solo questo! Ella, pur parlando di sé, di quello che
prova, descrive anche enfaticamente la bellezza voluttuosa
delle sue parti intime e di quelle del suo compagno, non
omettendo di confrontarne le diversità, le eccellenze e i punti
più sensibili al reciproco piacere.
Si potrebbe pensare ad una descrizione di sapore pornografico,
ma in effetti non lo è poiché, l’erotismo descritto si
confonde con le loro sensazioni, contemporaneamente descritte,
ed ecco che il tutto viene permeato da un afflato lirico,
materiale e spirituale nello stesso tempo.
Non viene descritto solamente l’unione di due corpi in
amore, ma la fusione di due anime in un paradiso che travalica
la realtà, di cui il contatto fisico ne diventa reciproco simbolo.
Da questo punto di vista, il libro di Vera Ambra può
considerarsi anche un superamento del romanzo Il Piacere di
D’Annunzio, dove l’uomo è l’artefice e il gestore della voluttà
e la donna non altro che l’oggetto passivo e succube.
Non a caso ho citato il D’Annunzio, che con la sua poesia e
la sua prosa sfrenata in ogni campo, ha varcato i limiti posti
dalla precedente letteratura, lasciando però la donna o meglio
la femmina nella muta contemplazione della sua mascolinità.
Nell’autrice del nostro romanzo scompare ogni rapporto di
sudditanza tra i due sessi, per dar luogo ad un reciproco dirittodovere
di eguaglianza nel bere il calice del piacere, senza dover
ricorrere a motivazioni etiche e filosofiche o naturali. Nessun
accenno a imposizioni o rivendicazioni di tipo etico o religioso,
nessun ricorso a questioni di riproduzione della razza umana,
nessuna disparità davanti a quel paradiso reale che la natura,
pur nella diversità del sentire, offre a due esseri in amore.
Anche quando questo fatidico scambio d’amorosi sensi tra i
due protagonisti, finisce per spezzarsi, poiché appare, come
ineluttabile, questa evenienza, che è una novità rispetto alla
precedente letteratura romantica dell’amore eterno, rimane
intatta questa parità di comportamenti tra i due appartenenti a
sessi differenti, indipendentemente dal fatto che, poi, i due
possano, infine, come effettivamente avviene, ritrovarsi.
È contemporaneo reciproco il disagio di entrambi per il
paradiso perduto, senza alcun accenno a vittimismi di prassi,
cui soggiacciono sempre le donne in un modo o nell’altro.
La dura realtà è che la fine di un amore tra due esseri viventi
è un dramma per entrambi, senza esclusione di sorta, anche se
vissuto e sentito in maniera differente, sia dal punto di vista
materiale che spirituale.
Non mi resta di accennare alla forma del romanzo, ossia
all’esposizione letterale dei concetti e delle vicende.
La prosa scorre leggera sugli argomenti, senza ingrottarsi in
spiegazioni elaborate dei sentimenti di entrambi i protagonisti,
rendendo in pieno lo spirito di raggiunta eguaglianza del loro
sentire.
Al lettore appare spontaneo – periodo dopo periodo –
assaporare questo continuo e loquace scambio di opinioni e
reciproche notizie intorno ai loro corpi e ai loro sentimenti.
Stupisce la proprietà di vocaboli e la loro significativa
aderenza nel descrivere le opposte sensazioni dei due protagonisti
nell’esternazione dello stesso amore solitario, oltre quello
comune, che è più evidente.
L’intercalare di versi esplicativi all’inizio di ogni capitolo,
che sintetizzano il suo contenuto amoroso e quel tratto di vita
vissuta del romanzo, contribuiscono moltissimo alla liricità
dell’opera, poiché è fuor di dubbio di trovarci di fronte ad un
libro che non è solo prosa, ma poesia vissuta.
Ovviamente non è il tipo di lirismo manzoniano, che ha altri
fondamenti, né quello inquietante del Foscolo infarcito di
illusioni o quello leopardiano madido di sofferenze e dolore,
ma è quello scaturito dal nuovo modo di sentire moderno che
incede nella completa e assoluta contemplazione di tutti i
sentimenti umani nel loro procedere spedito verso la felicità da
raggiungere o, magari, da archiviare tra i ricordi.
Ometto volutamente citazioni di parti del romanzo per non
appesantire questo mio saggio e per non togliere al lettore il
piacere di scoprire direttamente le cose che ho scritto.
PIUME BACIATEMI LA GUANCIA ARDENTE
Ho letto il libro di Vera Ambra Piume baciatemi la guancia
ardente, dove si tratteggia la figura del bersagliere siciliano
Salvatore Damaggio, eroe dimenticato della difesa del Pasubio
durante la prima guerra mondiale, compresa l’acuta considerazione
della postfazione di Francesco Giordano.
Un personaggio senz’altro positivo nel quadro degli eventi
storici della prima guerra mondiale, che rispecchiano un clima
di esaltazione patriottica di un’epoca fondamentale per l’unità
d’Italia e, nello stesso tempo, costituirono i presupposti per la
nascita della dittatura fascista e conseguente seconda guerra
mondiale.
L’eroe Damaggio, che con appena sette uomini superstiti e
due mitragliatrici, opportunamente piazzate, riuscì a impedire
l’avanzata dell’esercito austriaco quel lontano mese di Luglio
del 1916, consentendo alle truppe di rincalzo di intervenire
positivamente nella difesa dell’avamposto, sostanzialmente
subì la sorte di tutti i reduci della prima grande guerra, nata
dall’impulso di completare l’unità d’Italia con le terre
irredente, ma certamente non molto gradita dal ceto popolare,
specialmente del meridione, per essere stato distolto dal lavoro
dei campi, quasi unica risorsa economica del tempo.
Il nostro eroe, infatti, nonostante la sua aspirazione a
diventare bersagliere e partecipe dell’ideale d’amor di Patria,
venne distolto dagli studi di medicina, cui era stato destinato
dal padre, per partecipare a quella guerra, che lo vide eroe per
necessità di difesa e successivamente restituito alla vita civile e
dimenticato, come tutti i reduci ritornati alle proprie case
carichi di gloria, ma feriti nell’anima, e alcuni anche nel corpo,
privi di prospettive economiche.
Il nostro personaggio ebbe la fortuna di avere alle spalle una
famiglia economicamente solida, che gli consentì di riprendere
gli studi di medicina, di laurearsi e, nel silenzio dell’oblio
statale, riuscì a diventare anche un eminente medico, ovvero,
ad ammortizzare i sacrifici patiti in guerra.
Ma molti altri personaggi, eroi sconosciuti e rimasti nell’ombra
di quella tremenda guerra, ritornarono storpiati nel
cuore e nei corpi e pur ringraziando Dio per essere rimasti vivi,
non ebbero il conforto di un aiuto familiare e, anzi, si trovarono
nelle condizioni di dover badare alle loro famiglie pur non
avendone i mezzi.
In uno dei miei racconti della raccolta Ilaria e Catania, io
parlo di uno di questi personaggi, Frati Suli, che non ebbe la
buona sorte del Damaggio; un tale che ho conosciuto da
ragazzo e che dalla grande guerra era ritornato vivo ma con
l’acquisizione di tare mentali. Nessuna medaglia, nessun
plauso per quanto avesse fatto e per di più con il marchio di
disertore e senza alcuna accoglienza o aiuto familiare finale.
I molti “frati Suli” che ritornarono a casa sconvolti, i molti
che non ritornarono affatto, tra i quali ho ricordato il fratello
del Martoglio e al quale aggiungo due miei lontanissimi parenti
i cui nomi compaiono nell’elenco del sacrario di Redipuglia e i
molti “Damaggio” reduci eroici dimenticati, mi spingono a fare
delle considerazioni sulla prima grande guerra, che concluse
l’unità d’Italia, voluta dall’idealità patriottica del Mazzini e
altri, ma realizzata con le sole mire dalla monarchia sabauda di
allargare i confini del piccolo Piemonte.
La brutta avventura delle due guerre mondiali, anche se
sembra un poco iperbolico ammetterlo, ebbero inizio con la
proclamazione del Regno d’Italia, subito dopo la spedizione
garibaldina dei Mille...
Il nuovo regno sabaudo, anche se dovette affrontare la
questione politica immediata con le autorità clericali romane, si
trovò di fronte alla montagna insormontabile del debito
pubblico.
Le casse erariali sabaude erano ormai esaurite per le
continue spese militari e l’acquisizione dei nuovi territori,
lasciati spogli dagli ex sovrani, non migliorarono la situazione.
Solamente quanto provenne dal ricco regno borbonico delle
due Sicilie, riuscì a colmare a stento il vuoto economico, ma
l’errata impostazione dell’organizzazione del nuovo stato,
provocò un’imposizione fiscale fuori dal comune.
In questo clima di disagio, l’Italia, impedita nell’aspirazione
di conquiste colonialistiche, da Inghilterra e Francia, aderì alla
triplice Alleanza con Germania e Austria.
Era questa la situazione in atto quando venne ucciso l’erede
al trono dell’Impero Austro-Ungarico che provocò l’inizio
della guerra mondiale.
L’Italia che preparata non era ad affrontare alcuna guerra ed
era incerta a favore di chi intervenire, alla fine il 24 Maggio
1915, scese in guerra contro gli ex alleati Germania e Austria,
previa promessa, in caso di vittoria, di poter annettere le terre
irredente di Trento e Trieste.
Il comando dell’esercito italiano venne affidato al
piemontese Cadorna, tra l’altro inviso ad altri generali provenienti
dagli ex stati e arroccato ai vecchi schemi delle battaglie
campali. Egli schierò le truppe su un fronte ad arco sulle Alpi,
pronte a invadere Gorizia, Trento e Trieste. Purtroppo il punto
di debolezza di tutto l’esercito consisteva, oltre che nei contrasti
tra i generali, anche nel fatto che l’esercito italiano risultava
raccogliticcio da tutte le regioni e che tra i soldati non vi era
familiarità e amalgama.
Inoltre avvenne che i tedeschi riuscirono a frantumare il
fronte russo aiutando il compagno Lenin a provocare la
rivoluzione marxista, che poi sfociò nel comunismo. Ciò
consentì loro di organizzare la spedizione punitiva contro
l’Italia, valutato, a ben ragione, il più debole della coalizione
contraria.
Il dislocamento delle truppe italiane, ben appostate sui
monti, non consentiva alcuna invasione, anche perché l’unico
passaggio per invadere l’Italia era presidiato dall’artiglieria
pesante agli ordini di Badoglio.
Nonostante tale precauzione, l’esercito austriaco passò,
grazie al fatto inspiegabile che l’artiglieria italiana restò muta.
Si accusò, a torto o ragione, Badoglio di non aver dato l’ordine
all’artiglieria di sparare per un contrasto con il generale
Cadorna.
La conseguenza fu la disfatta di Caporetto e l’arretramento
delle truppe italiane sulla linea del Piave. In previsione di una
totale disfatta
Il Re Vittorio Emanuele II pensò bene di salvaguardare il
piemontese Cadorna dalla responsabilità totale della sconfitta,
affidando la direzione ad un anonimo generale di prima
nomina, Armando Diaz, scelto per quel suo nome più spagnolo
che italiano con lo scopo sottinteso che alla fine, la disfatta,
ritenuta immancabile, sarebbe stata ricordata come inflitta ad
un generale italiano, ma forse spagnolo. Insomma la preoccupazione
del Re era solo quella di “salvare l’onore militare
italiano”. Che, se poi, le cose fossero andate bene, in ogni caso
Armando Diaz, anche se con un nome spagnolo, sempre
italiano era!
In effetti la scelta del Diaz fu provvidenziale, poiché,
quest’ultimo, avendo capito di essere stato scelto come capro
espiatorio, cambiò la strategia del Cadorna. Intanto dette ordine
di non procedere più con la fucilazione dei disertori sul posto,
rivelatasi una ulteriore decimazione delle truppe italiane,
avendo la disfatta di Caporetto dato la stura al fuggi-fuggi
generale.
I disertori vennero ripresi e riavviati al fronte con il perdono
e l’impegno di ritornare a combattere. Inoltre rinforzò con le
nuove leve la linea di difesa del Piave, con la ferma intenzione
di restarvi fino alla fine della guerra. E lì fermo, inchiodato al
percorso del fiume sarebbe sempre rimasto, nonostante l’invito
degli alleati francesi ad attaccare poiché mutata era la
situazione militare, ma avvenne che le truppe austro-ungariche,
ringalluzzite dallo sfondamento di Caporetto, non tentarono di
attraversare anche il Piave. Grazie alle opere di fortificazione
approntate esse vennero respinte, inseguite dagli italiani che
nell’impeto della controffensiva andarono aldilà della sola
operazione di difesa. Fu così, d’impeto, che le truppe italiane
inseguirono i nemici in rotta fino ad occupare Gorizia.
Nella speranza di controbattere l’impeto degli italiani, gli
austro-ungarici spostarono le truppe dal fronte francese verso
quello italiano, ma la conseguenza fu che anche i francesi
riuscirono a sbaragliarli.
A questi fatti seguì la resa totale degli Imperi centrali e la
pace che, oltre a sancire intanto la nascita del comunismo in
Russia, la fine dell’Impero Austro-Ungarico.
Al tavolo delle trattative di pace fu inviato il deputato
Vittorio Emanuele Orlando e fu su quel tavolo che continuò ad
avere seguito il disastro economico italiano.
Da Francia e Inghilterra, l’Italia venne accusata di non
essere intervenuta per tempo ad attraversare il Piave e che la
vittoria della guerra era da attribuire al valore delle truppe
anglo-francesi, che avevano consentito a Diaz di poter
avanzare dalla linea del Piave.
Pertanto, mentre Francia e Inghilterra si appropriarono del
ricco territorio coloniale tedesco in Africa, l’Italia dovette
accontentarsi di avere Trento e Trieste, ovvero, le terre
irredente promesse e nulla più.
Conseguenza fu che Francia e Inghilterra poterono colmare
le spese affrontate per il conflitto e l’Italia rimase in piena
ristrettezza economica, la quale non le consentì di premiare i
soldati che tutto avevano dato nella guerra.
Il disagio economico, il malcontento dei reduci, la mancanza
di lavoro, la maggiore imposizione fiscale e quant’altro
pertinente provocò un disordine e un caos indescrivibile, al
quale Vittorio Emanuele III pensò di porre fine affidando il
governo nelle mani di Benito Mussolini in seguito alla
cosiddetta marcia su Roma delle camicie nere.
Purtroppo con il fascismo, che, in effetti, un poco di ordine
riportò nell’equilibrio interno della nazione con la istituzione di
molti servizi sociali che ancora oggi sussistono e in parte sono
migliorati, ma anche peggiorati in alcuni casi, si ebbe una
eccessiva militarizzazione della popolazione con aberrante
privazione della libertà di pensiero, che determinarono la
partecipazione ad una guerra (la seconda mondiale) a fianco
del nazismo tedesco.
Per ritornare al nostro personaggio, il dottor Salvatore
Damaggio, ex capitano ed eroe del Pasubio, è da dire che, alla
fine della prima guerra mondiale, egli fu dimenticato, come del
resto tutti i reduci vennero dimenticati, poiché lo Stato non fu
in grado di gratificarli per il semplice fatto che non ve ne era la
possibilità economica.
Allo Stato non restò che onorare i morti innalzando sacrari e
ossari in memoria dei loro sacrifici.
Fu financo costruito a Roma l’Altare della Patria con
inumato in pompa magna la salma del milite ignoto, ma quanto
ai vivi, all’infuori di qualche medaglia ricordo nulla fu fatto,
quasi avallando il fatto che l’unico vero dono che ricevevano
dallo Stato era quello di essere riusciti a salvare la pelle.
Soltanto nel 1933, dal Podestà di Schio ovvero da una
autorità fascista, che, per vocazione e propaganda militaristica,
aveva tutto l’interesse a ricercare eroi ancora viventi da
mostrare al popolo come simbolo della grandiosità italiana, il
tenente Damaggio, difensore eroico del Pasubio venne ricordato
e cercato come, l’autrice racconta.
Era quello il periodo dei simboli da mostrare per convincere
gli italiani all’autostima della italianità.
Le massime autorità dell’epoca erano per questo alla ricerca
di simboli da mostrare al mondo intero ed ecco che un fante
piumato, dal cappello estremamente estroso e dal passo lesto,
per di più diventato celebre medico specializzato nella cura
della tisi, che era considerata la malattia del secolo, già onorato
da medaglie d’argento, era una rarità da mostrare al mondo
intero insieme ai trionfi di Primo Carnera e di altri assi dello
sport, insignendolo del titolo di Cavaliere e assegnandogli
anche una medaglia d’oro da parte del Comune di Schio,
nonché la cittadinanza onoraria.
Ritengo che la riluttanza del Damaggio a ricevere l’invito
del Podestà sia stato più che giustificata avendo compreso di
dover fare da paravento ad un soffio a lui forse non gradito,
dedito, ormai, alla salvezza di vite umane e lontano dai clamori
della celebrità appariscente e dal crepitio della mitragliatrice.
Forse anche lui avrà capito, semplice spettatore, in parte, dei
fatti bellici della seconda guerra mondiale, durante la quale
morì sotto le bombe da non combattente, di essere stato una
povera pedina nello scacchiere dell’ipocrisia umana, imposta
dal senso del dovere e del patriottismo esercitato sull’umanità
pacifista e amante della gioia di vivere e della gloria dei forti e
di essere diventato lui stesso una stella lucente di quel mondo
di estrema grandezza, che è la visione beatifica del sacrificio
infinito nel raggiungimento di un ideale comune.
Forse, anche, nel suo animo, come emerge dalla lettura di
quella che è una sua biografia, è il pentimento del subcosciente
per aver provocato tante morti, a spingerlo ad essere riluttante,
avendo scelto, lontano dal clamore blasfemo della guerra, la
via per la salvezza di vite umane.
Indubbiamente il personaggio del Damaggio è una fantomatica
figura poliedrica, che si presta a molteplici interpretazioni,
a seconda dei punti di vista da cui lo si osserva, ma
giudicarlo solamente un eroe con il cappello piumato in testa e
con il dito freneticamente premuto sul grilletto della mitragliatrice,
non è sufficiente a dare un giudizio completo su di lui,
siciliano, andato a combattere per la conquista di terre irredente
in nome di una patria unita, l’Italia, che qualcuno oggi vuole
dividere, che tutto ha dato per questo ideale senza nulla
chiedere e che, messo da parte, nulla ha preteso e con ardore e
caparbietà ha continuato a servirla senza alcuna esclusione
regionale, con la sua opera più meritoria e pregiata di medico
curante.
Ecco dunque che Damaggio non è solo un eroe o il simbolo
del sacrificio e della bontà umana, ma soprattutto è un
emblema dell’unità d’Italia e dell’italianità della Sicilia, che ha
dato e continua a dare la vita dei suoi figli migliori per la difesa
e l’onore di tutta l’Italia.
VIAGGIO NELLA MEMORIA
Un libro scritto da Vera Ambra per commemorare i fatti
storici gloriosi, ma nefasti, della prima guerra mondiale, che
costellò di morti la nostra Europa e che fu assunta dal passato
regime fascista come simbolo d’ìtalo valore, in appoggio ai
fatti e alle idee che condussero alla seconda guerra mondiale.
Tutto sommato, risulta essere un resoconto delle battaglie
combattute dagli italiani contro l’impero austro-ungarico con
l’evidenza di atti eroici segnalati. Una specie di cronaca
commemorativa di tutti gli episodi più salienti, dalla quale,
comunque, emerge una condanna non solo di questa guerra, ma
di tutte le guerre, ribadita da una mia poesia riportata alla fine e
che trascrivo
Garrisce la bandiera
sui corpi dei caduti
vittorie celebrando
del prode condottiero,
ma tutt’intorno il pianto
si leva su dal campo
di donne disperate
che più non rivedranno
mariti e figli uccisi.
La tromba allora inonda
d’ipocriti gorgheggi
il cielo cupo e spande
le note del “Silenzio”
per celebrar la morte
dell’umile soldato,
che certo non mirava
d’aver cotanto onore
La scelta si conviene
di celebrare i morti
a chi la morte arreca
in nome di qualcosa
che forse non la vale.
Fu, in effetti, una guerra vittoriosa per l’Italia, ma di una
vittoria così amara e cosi malamente condotta e vinta, che, in
confronto, la sconfitta della seconda guerra mondiale fu non
solo meno dannosa, ma più vantaggiosa di gran lunga.
Già ancor prima d’entrare in guerra, all’ombra del tentennamento
perenne dei Savoia, instaurato da Carlo Alberto, pur
essendo manifesto il desiderio di parteciparvi per il riscatto
delle “terre irredenti”, non si sapeva se essere a fianco della
triplice alleanza o della triplice intesa.
Nell’attesa di tale decisione venne affidato il compito di
compattare l’esercito al Generale Cadorna, uomo di vecchio
stampo militare piemontese non molto ben accetto dal
rimanente stato maggiore e che era rimasto assertore convinto
degli scontri campali a viso aperto, come avveniva un tempo
all’arma bianca, dove il valore dell’onorata morte in battaglia
aveva il sopravvento sul diritto alla vita del soldato.
Quando, infine, venne dichiarata la guerra all’Austria,
l’esercito si trovava schierato a ridosso delle terre da
conquistare, ma su due linee distinte: una di difesa (le trincee) e
l’altra di offesa, pronta a scattare alla conquista di Gorizia e
delle rimanenti terre irredenti.
Il Generale Cadorna non aveva un piano tattico approntato,
poiché fidava soltanto nell’assalto diretto delle postazioni
nemiche aspettando l’occasione opportuna. Il petto valoroso e
irruente contro il fuoco del nemico. Questo era il suo piano.
Il nemico, invece, aveva un suo piano, che era quello di
sfondare lo schieramento italiano nel punto più debole (monte
Ortigara, monte Grappa, ecc., ecc. ) per dilagare nella pianura
padana e prendere alle spalle le difese orientali italiane. Il
piano non riuscì per l’eroica difesa messa in atto dagli alpini
italiani, ma contemporaneamente avvenne che dal fronte
orientale, avvenuto il crollo dell’impero zarino a causa della
rivoluzione bolscevica, l’esercito austriaco si riversò sul fronte
italiano e fu la disfatta di Caporetto, che solo il Piave riuscì ad
arginare con le sue acque piuttosto che le decimazioni eseguite
dai carabinieri per arrestare le truppe fuggiasche in preda al
panico.
È da dire che qualcosa non funzionò nella disfatta di
Caporetto, oltre alla preponderanza delle truppe austriache.
Infatti, l’artiglieria, ben posizionata e affidata al generale
Badoglio, che sarebbe dovuta intervenire tempestivamente,
inspiegabilmente tacque e lasciò che i fanti austriaci
assaltassero la nostre difese. Molto probabilmente la causa fu
“la ruggine” tra Badoglio e Cadorna, ma non fu mai accertata e
l’episodio venne addirittura ignorato per non “macchiare” la
successiva vittoria.
In seguito alla disfatta di Caporetto, Cadorna venne
trasferito ad altro incarico e si cercò tra i generali un capo
espiatorio della sicura sconfitta e lo si trovò in Armando Diaz,
ancora giovane e dal nome spagnoleggiante. Quest’ultimo,
capita l’antifona, fece di tutto per non lasciarsi coinvolgere,
organizzando la difesa sul Piave, da cui non si mosse mai per
non incorrere in un’altra eventuale sconfitta. Fu suo merito
porre fine alle decimazioni dei disertori, dando disposizione
che venissero riarmati e inviati nuovamente al fronte.
La successiva ondata austriaca sul Piave, venne respinta e
sotto l’impulso della reazione la difesa italiana, nella foga di
inseguire il nemico in ritirata passò al contrattacco fino a
Gorizia, ma qualche giorno dopo che i franco-inglesi erano
riusciti a respingere gli austriaci.
Fu il crollo dell’Impero austro-ungarico.
La pace che ne seguì vide ancora una volta la cattiva
gestione finale del conflitto. Infatti, mentre Inghilterra e
Francia si dividevano il vasto impero coloniale tedesco, il
nostro delegato, Vittorio Emanuele Orlando si accontentò
solamente della conquista delle terre irredente, che poi tanto
felici di diventare italiane sono mai state.
La conseguenza letale fu che l’Italia ne uscì dalla guerra
vittoriosa, ma in condizioni disastrose per la perdita di uomini
e di forze lavorative, le quali, sulla falsariga della protesta
sociale, sfociò nella “marcia su Roma”e successiva guerra
mondiale.
Il merito del libro, oltre a evidenziare i fatti sopra detti, ha la
valenza di aver descritto la vita di trincea dei nostri soldati
nella guerra di posizione e anche l’orrenda esecuzione di
uomini, colpevoli soltanto d’avere paura mediante la cosiddetta
“decimazione” a caso, mediante fucilazione, del reparto che si
era macchiato di disonore e codardia, nonché dell’inutilità in se
stessa della guerra, i cui risultati è possibile ottenere senza il
ricorso alla perdita di vite umane.
Toccante è l’episodio descritto dello scambio di “cortesie”
tra i combattenti delle opposte trincee, che evidenzia come,
talvolta, il sentimento di umanità riesca a superare il muri
dell’odio innalzato dagli opposti ideali e, infine, da buon
siciliano, non posso non evidenziare il contributo di vite e
sacrifici fatto emergere nel libro di quanti oggi vengono
insultati e accusati (e meridionali sono) da quanti ritengono di
essere i soli eredi dell’italico valore.
Inoltre lo studio e la ricerca certosina di dati e fatti,
promuove Vera Ambra al ruolo non solo di poetessa e scrittrice,
ma anche di storica, attenta nel riportare notizie ormai sepolte
dalla polvere del tempo.
UN UOMO NELL’OMBRA
Ho finito di leggere il robusto e corposo libro storico di Vera
Ambra, che illustrando le imprese di un eroico personaggio
opportunamente scelto tra quanti vissero quei periodi, descrive
le vicende della seconda guerra mondiale e i successivi
avvenimenti post-bellici.
Il personaggio in questione, in effetti, cessata la guerra,
finisce per arruolarsi nella Legione Straniera di Francia,
assumendo le generalità di un eroico combattente francese, tra
l’altro, già caduto eroicamente. Con queste false generalità,
egli, finita la ferma militare volontaria sottoscritta, si dedica al
brigantaggio marittimo, aggiungendo all’eroico sostituto la
fama di contrabbandiere dall’animo “nobile” e come tale,
infine, viene ricordato.
Nello svolgimento dei fatti, che coinvolgono altri
personaggi realmente esistiti e situazioni realmente accadute, la
figura dell’uomo in questione giganteggia per abilità, nobiltà
d’animo, audacia, intelligenza, sprezzo del pericolo e trionfo di
un individualismo nello stesso tempo pungente, romantico, e in
ogni caso, vincente.
Ecco, quindi, che il vero personaggio, non è l’uomo in sé,
ma quello che effettivamente esso rappresenta, ossia l’ombra
dell’individualismo elevato a sistema ovunque appaia, sia nel
bene che nel male. Non esiste una demarcazione definita tra il
bene e il male. Ogni vicenda, sia di guerra santa contro il
nazismo, sia di trionfo nell’impresa di brigantaggio marino o di
cavalleresco comportamento, quello che emerge è il valore
dell’individuo, la sua capacità, il suo essere superiore agli altri,
siano essi amici o nemici. L’indicazione chiara e lampante che
emerge in ogni circostanza è la supremazia dell’uomo nei
rapporti con altri, ma il vero insegnamento che si può trarre
dalla lettura, consiste nel rovescio della medaglia, ossia nel
constatare che a forza di frequentare determinate persone o
cose, si finisce sempre per acquisirne non solo i meriti, ma
anche i difetti. Infatti il nostro mitico personaggio descritto, a
forza di ostacolare i tristi dettami del nazismo, finisce per
imitarli e diventare l’artefice di imprese similmente turpi e
riprovevoli. È ciò che avviene in ogni guerra, dove all’odio
subentra l’odio, alla morte la vendetta senza alcuna sosta o
soluzione di discontinuità. Del resto è la stessa cosa che
accadde ai partigiani nei confronti dei tedeschi invasori e che
accade o accadrà nei confronti dei Russi da parte degli Ucraini.
Nonostante il riporto di notizie storiche con meticolosa
attenzione, la lettura scorre limpida e chiara con tuffi pindarici
e descrizioni poetiche che tingono d’azzurro e di rosa i fatti più
tragici descritti Inoltre tutte le figure che emergono dal lungo
racconto sono descritte con meticolosa attenzione e subiscono
il magico tocco della sapiente penna dell’autrice.
Alla base di questo lunghissimo racconto vi è inoltre un
profondo studio di ricerca storica, cui la stessa autrice accenna
in premessa, costituita dalla consultazione di notizie assunte
dai giornali d’epoca e dal pensiero testimoniale di altre
persone.
Il mio giudizio sul lavoro svolto da Vera in questa
circostanza è del tutto positivo, anche se difforme al concetto
da me esternato in proposito relativamente al plauso e alla
ammirazione di abilità un poco peregrine. Ammetto il perdono,
ma non il plauso per determinate azioni, che mi auguro non
avvengano mai.
PREFAZIONE A CATANIA:
ALLA SCOPERTA DELLA CATANESITÀ
IN FORMA DI PAROLA
Parlare o scrivere di Catania è una cosa facile a fare da
parte di chiunque, poiché la città si presta a mostrare
apertamente i tesori di cui è vestita. Infatti è molto evidente la
bellezza che traspare dai monumenti di stile “Rococò” ideati
dal Vaccarini sullo sfondo stupendo dell’Etna che incombe con
il suo eterno pennacchio di fumo vagante e confuso tra le
nuvole del cielo, sempre azzurro.
Chiunque visiti la città rimane incantato da tanta bellezza,
ma mi chiedo se riesca a comprendere la sua intima essenza,
quella che è stata definita “la catanesità”, ossia l’intimo
espressionismo caratteriale della sua anima, che emerge dal suo
linguaggio e dal suo atavico dialetto.
Va approfondito questo concetto della “catanesità”, che
denota un modo di essere e di vivere molto diverso da quello
degli altri abitanti della Sicilia e che mostra la vera anima della
città. Per poterla evidenziare, bisogna effettuare un’attenta
analisi del suo linguaggio di ogni giorno e dei suoi modi dire,
capirlo e riversarlo in figure plastiche da mostrare come
simboli, anzi, monumenti di figure fluttuanti nelle vie cittadine.
Questo compito non facile si è assunto l’autrice Vera
Ambra, mediante una certosina ricerca delle parole e delle
espressioni del suddetto linguaggio e anche degli atteggiamenti
che esse producono nei suoi abitanti, evidenziandone il
carattere e il modo di vivere, appunto la “catanesità”.
Tale compito comporta la conoscenza della lingua siciliana,
quella nata a Palermo ai tempi di Federico II di Svevia e delle
variazioni da essa subite a Catania. Cosa, quest’ultima, che
solo un catanese doc è in grado di fare e Vera Ambra lo è.
Bisogna intanto sapere che la lingua siciliana, scaturita
dalla volgarizzazione del latino, ha subito nel tempo delle
variazioni, venendo a contatto con il linguaggio di altri popoli
che l’hanno occupata, sicché, a seconda dei luoghi, ha dato vita
a diversi vernacoli, che altro non sono se non la variazione del
dialetto, inteso come lingua autoctona, per ogni singola
località.
Vera Ambra ha dovuto, nel suo compito, affrontare il
“vernacolo” catanese e, quindi, fare una ricerca profonda delle
parole, che soltanto chi è vissuto a Catania può fare non
potendo fruire dell’aiuto dei “classici” in lingua siciliana e dei
loro canoni, come quelli, ad esempio catalogati dal Pitré.
Se si tiene conto che a Catania il vernacolo assume delle
tonalità diverse a seconda dei quartieri, si comprende le
difficoltà che l’autrice ha dovuto riscontrare nella ricerca e
nella analisi dei vari modi di dire. Già! Sembra proprio che a
Catania vi sia un vernacolo per ogni quartiere e ognuno ha una
caratteristica diversa esattamente come avviene, ad esempio tra
il vernacolo calatino e quello catanese o quello siracusano e di
altre località. A cambiare a volte è il tono od addirittura la
pronunzia dello stesso identico vocabolo.
Ebbene a Catania accade pure questo. Vi è un vernacolo
“aulico” delle persone più snob e quello più popolare e vi
assicuro che è difficile elevarne le differenze. Ebbene Vera
Ambra ci riesce con una consumata abilità, frutto non soltanto
del suo essere catanese, ma di intensa ricerca condotta In
maniera molto accorta e intelligente
Ella impernia la sua opera, appunto nell’incontro tra una
ragazza e un ragazzo appartenenti a questi due mondi
differenti, che finiscono insieme nonostante le diverse origini
di quartiere, creando una famiglia tipica nei luoghi di tutta la
città, fondendo insieme le diversità ereditate.
Ciò le dà modo e maniera di spaziare in queste due diverse
arie dell’anima catanese, tirando fuori le differenze apparenti e
nascoste dei due atteggiamenti. Ed è tutta una ridda di termini e
una girandola di modi di dire, che rispecchia esattamente la
“catanesità” di cui ne ho descritto le caratteristiche somatiche.
Mi ha fatto sorridere, colpendo nel segno, quella apparente
diversità tra mammuriani e monfiani effettivamente esistente e
messa in evidenza anche dai nostri comici in TV e che io non
saprei proprio come evidenziare.
Un lavoro, dunque, quello di Vera Ambra che ha un rigore
scientifico della ricerca glottologica che richiama pure atteggiamenti
istrionici tipici rilevabili frequentando la Pescheria,
od altri luoghi con la cinepresa della parola.
Tale ricerca (questa è la caratteristica più saliente!) non è
fine a se stessa, relegata a descrivere determinati atteggiamenti,
essa riesce a tingersi di poesia di un interesse che trasborda nel
divertente e nel teatrale.
Non vado a descrivere i vari atteggiamenti più salienti,
ritenendo di fare cosa migliore, lasciando al lettore il piacere di
rilevarli e gustarli nella lettura che scorre placidamente e
sembra proprio che l’acqua delle parole urti lievemente contro
gli scogli dello scenario dell’architettura di Catania.
Ritengo proprio che dalla lettura completa emerga quella
“catanesità” famosa non solo in Sicilia, ma in tutta l’Italia e
esportata dai nostri attori in tutto il mondo, condita dalla
rilevata “liscia catanisi”, che altro non è se non l’ironia sottile,
tipicamente leggera, ma “ca rumpi l’ossa” e colpisce nel segno.
Basta per questo ricordare i nostri attori comici, Angelo Musco,
Turi Ferro e non ultimo il nostro Leo Gullotta, nei quali i
termini, le parole e i modi di dire evidenziati da Vera Ambra,
hanno trovato spazio nelle loro commedie.
Chiudo questa mia dissertazione sul libro di Vera Ambra,
precisando che la sua opera va al di là del rigore letterario
dialettale di Domenico Tempio e del più recente Nino
Martoglio e alla stessa accennata e sfiorata prosa del Verga e di
Pirandello, che, scrittori in lingua italiana, sfiorano lievemente
il dialetto.
Lei scava nel vernacolo e trova in esso, evidenziandoli, tutti
quegli elementi trascurati e mai rilevati da altri in un’opera
tipicamente catanese, nell’anima e nelle parole.
L’obiettivo di centrare l’attenzione del lettore sulla parola e
sul modo di dire evidenziandone la “catanesità”, scindendola
dalla bellezza dei suoi tipici monumenti e panoramiche, è stato
perfettamente riuscito da parte dell’Autrice.
ALLA SCOPERTA DELLA CATANESITÀ
IN FORMA DI PAROLE
Che dire di questo libro, di cui ho già scritto la prefazione?
Averlo tra le mani e sotto gli occhi nella sua veste editoriale,
agghindato di foto a colori e rivestito delle significative ed
eleganti due copertine esterne è stato per me un piacere
immenso. La “catanesità” che ho citato in prefazione e che è
anche diventata parte integrante del titolo scelto da Vera Ambra
appare non solo un’espressività di parole in vernacolo, ma un
vero monumento alla città di Catania, dove una innocente
storiella d’amore tra due giovani di diverso ceto enfatizza i
modi di dire e le espressioni tipiche popolane all’ombra dei
classici palazzi barocchi.
Giustamente, parlare solo della catanesità in forma di parole
servendosi di una modesta storia tra due ragazzi di diverso
ceto, non sarebbe bastato ad avere un quadro completo di un
sistema di vita caratteristico di Catania. L’autrice del libro ha
colto la sostanziale sottigliezza di una catanesità avulsa
dall’ambiente e a capo chino si è tuffata tra le mura annerite
dalla caligine lavica dei palazzi, scavando anche nelle loro
pieghe storiche e disquisendo sul significato glottologico di
termini che affondano le origini nel classico mondo greco,
latino e arabo. Ma non bastava tutto questo, poiché monca
sarebbe risultata la catanesità senza accennare agli innumerevoli
personaggi che nel tempo hanno illustrato con il loro
sapere e con il loro spirito artistico la città.
Ecco, dunque, apparire come vessilli inconfondibili le
figure di Tempio, Bellini, Rapisardi, Verga, Martoglio e non
solo quelle, ma anche le più antiche esposte nel viale degli
uomini illustri della villa Belllini, nonché recenti dello
spettacolo e di comici dello spessore di Leo Gullotta, Castiglia
e altri.
Ovviamente il quadro non è del tutto completo, ma
abbastanza esaustivo per descrivere le linee somatiche e
culturali di una città che non paga di tradizioni antiche si
proietta caparbiamente nel futuro mostrando interessi commerciali,
industriali e scientifiche nell’ambito europeo.
La catanesità, che non stona quindi con la cultura europea,
emerge anche nella frenetica crescita commerciale nata ai suoi
margini e al progresso tecnologico delle sue attività.
La descrizione di questi aspetti della città, pur nella sua
complessità, viene espressa dall’autrice in maniera semplice e
chiara. Chiunque, anche digiuno di dialetto siciliano, è in grado
di recepirne il linguaggio e il significato delle immagini di
sapore popolare.
L’impostazione armonica dei vari argomenti del libro lo
rendono piacevolmente gradevole senza alcuno sforzo di
coordinamento o necessità di collegamento tra le varie parti.
Concludo dicendo che siamo in presenza di una grande
opera dalla facile e piacevole lettura che arricchisce la conoscenza
della città in modo semplice e conciso.
PAROLA AL CIOCCOLATO
Ho terminato di leggere questa interessantissima raccolta
antologia edita da Akkuaria e curata da Vera Ambra.
Non vi nascondo che in me sono nate delle perplessità in
merito alla classificazione del libro, che non so proprio
definire.
Ho pensato di definirlo un manuale del cioccolato, dei suoi
pregi e delle sue qualità olfattive e nutritive, ma non è solo
quello.
Vi sono dei racconti, delle poesie, degli aneddoti, dei
riferimenti storici, delle considerazioni che superano l’elenco
dei suoi modi per essere confezionato e gustato. Pertanto non è
un manuale da utilizzare da parte di chi per professione fa il
dolciere.
Non è neppure un rigoroso trattato scientifico, atto a rilevare
le qualità organolettiche e gustative o che descriva il suo modo
di offrirsi in commercio.
Non è tutto di tutto questo ma in effetti lo è nel modo più
completo e assoluto, stupendamente descritto dai vari autori sia
in prosa che in versi.
Lo possiamo solo definire il libro del cioccolato, dove
convivono insieme a profusione e senza esclusione d’alcunché
tutte le caratteristiche e qualità di questo prodotto, descrivendone
qualità aspetto, impiego, origine, evoluzione del suo
impiego nel tempo, fatterelli piccanti, storielle e poesie
d’amore, apoteosi del suo gusto, località di produzione e di
perfezione, citazioni di persone che di tale prodotto ne hanno
fatto un monumento che emerge e supera ogni altro tipo di
dolci anche nel campo della sua confezione e uso nell’industria
dolciaria.
Figuratevi che qualcuno è andato fino anche a scoprire che
al povero Re Sole, Luigi XIV, si aggiunsero due raggi spuri al
suo splendore, che lo resero… più splendente, bevendosi la
storia che la moglie avesse dato alla luce una neonata mora a
causa del troppo cioccolato da lui consumato durante il loro
rapporto amoroso.
Sembra proprio quasi gustare il suo profumo e la sua
dolcezza nel leggere le poesie che aleggiano intorno a questo
prodotto, introdotto in Europa dal nuovo mondo dopo la sua
scoperta nel 1492, avvenuta da parte di Cristoforo Colombo.
Con la pubblicazione di questo libro Vera Ambra e la sua
casa editrice Akkuaria hanno effettivamente raggiunto il
massimo nel descrivere tutto ciò che concerne il cioccolato.
A questo punto non posso non definire questo libro, che uno
zibaldone il cui personaggio principale, anzi unico, altri non è
se non il cioccolato con in testa la corona e in mano lo scettro
di monarca assoluto del mondo favoloso dolciario per il suo
largo impiego nella corrispondente industria.
Di questo monarca, viene rivelato tutto, dalla sua
provenienza al suo impiego totale, comprese le leggende che
nacquero intorno alla sua nascita e al suo arrivo in Europa sui
Galeoni spagnoli e inglesi.
Per saperne di più e totalmente, non è necessario andare a
consultare l’enciclopedia Treccani. Basta cercare in questo
libro e trovarne la risposta legata ad ogni quesito.
“Cento dieci cum laude” a Vera Ambra, al suo libro e ad
Akkuaria, che ha rivelato la sua potenzialità non solo poetica,
ma anche utilitaria. Diciamo meglio che ha saputo sposare
l’utilità con il sentire poetico e l’amaro-dolce di questo
pregiato miracolo della natura.
Lunga vita al cioccolato.
COMMENTI ALLE OPERE DI ALCUNI
AUTORI DI AKKUARIA
LE COSE CHE NON ESISTONO
di Alessandra Felli
Resta ben poco da commentare dopo la prefazione di Anna
Manna a questo libro di poesie d’amore di Alessandra Felli.
Argutamente viene evidenziato il territorio su cui spazia la
poesia della Felli, fatta di sguardi, tentazioni, carezze, paure,
ansie, ingenue vittorie e amplessi veri e dell’immaginazione
della psiche e della carne.
I voli pindarici sulle “cose che non esistono”, ma che in
realtà avvengono perché sognate e desiderate, nonostante le
remore imposte da atavici tabù, danno un sapore dolce-amaro e
un colore variegato ai sentimenti affioranti dai singoli versi.
C’è un luogo scuro
dove il buio è pace
e il silenzio sa di zucchero
e gli occhi un momento dopo,
per sapere se sanno ridere.
Dal sapore di quei baci che non avrai
che non avrò, che non vorrai
Tra le labbra nascondi profumo di vaniglia
da condividere la sera
e saliva di sale
per gli istanti amari
È la descrizione di un mondo che oscilla tra il saffico
affiorante in tutte le sue sfaccettature e l’esaltante narcisismo
che fa capolino prepotente di tanto in tanto nel crogiolo dei
sentimenti.
Ingoierò i tuoi rimorsi
E baci e sguardi e risate
e quel che vuoi
fino a farmi dimenticare
Degli amanti mi seduce
Il gioco velato.
Sarei bella
così accartocciata?
Dimmi che sono bella
fino a che la mia vanità sia paga.
La forma poetica adottata è quella moderna che non tiene
conto delle impostazioni classiche del passato, in cui è tutto
preordinato secondo uno schema di metrica cadenzata e
occorrendo rimata. Nessuna metrica, nessuna rima, nessuna
impostazione schematizzata.
La musicalità dei versi è improntata spontaneità d’espressione
Ogni poesia è l’insieme di quadretti spontanei in liberi versi
di diversa grandezza, che riescono a sintetizzare concetti e
sentimenti altamente profondi.
Nel leggere le immagini poetiche, che si susseguono in
maniera armonica, sembra di assistere con la mente a pennellate
di parole che si stampano sulla carta, come potrebbe
avvenire con macchie di colore sulla tela d’un pittore impressionista.
Pertanto, piacevole e scorrevole ne risulta la lettura, che
sintetizza splendidamente i concetti di non facile comprensione
e condivisione.
NEL NOME DELLA VERITÀ
di Maria Stella Sudano
Ho letto tutto d’un fiato e riletto con attenzione il libretto di
poesie della Sudano e anche la prefazione, che ha pure la
valenza di commento, scritta da Gabriella Rossitto.
Dopo la dotta esposizione di quest’ultima poco mi resta da
dire in proposito, essendo stato centrato benissimo l’argomento
trattato esponendo con dovizia e sapiente tecnica i caratteri
salienti dell’opera della Sudano.
Si tratta, in sostanza, di poesie metaforiche imperniate sulla
descrizione dei vizi e delle virtù dell’umanità, considerate delle
vere “gabbie” dell’umano sentire, come le ha definite la
Rossitto, e esposte con una tecnica linguistica permeata di
allegoriche considerazioni, che hanno un significato filosofico
molto profondo e richiamano alla memoria concetti forse già
triti e ritriti dalla dottrina sociale e religiosa, che, però,
richiamano il gusto della modernità contemporanea al punto
tale da farle sembrare una novità assoluta.
Se mi è consentito il paragone, alla fine della lettura, mi è
sembrato di aver letto le teorie filosofiche di Emanuele Kant,
espresse con un linguaggio che richiama l’immediatezza
espressiva di Ungaretti.
Per l’appunto, la descrizione dei vizi e delle virtù dell’umanità
richiamano alla memoria le categorie Kantiane
dell’Io categorico e, non a caso, viene citato il Nietszche, che
ha molto in comune con Kant, il padre vero in assoluto
dell’idealismo.
Inoltre il linguaggio conciso, immediato, asettico, schematico
e incisivo, usato nel descrivere questo campionario
dell’umano sentire ricorda tanto lo stile di Ungaretti.
Anche le illustrazioni semplici e schematiche di Antonella
Maria Piazza, di cui è corredato il libro, richiamano questo
riferimento ad Ungaretti. Pochi segni e colori indispensabili
alla bisogna, senza eccessiva ridondanza delle forme, che
risulterebbe superflua e retorica.
Decisamente, per i motivi sopra esposti, siamo in presenza
di un’interpretazione letteraria moderna e contemporanea, di
concetti universali che sono alla base del sentire umano, come,
del resto riesce a esplicitare bene la Rossitto nella sua
prefazione.
AZZURROGUSTO
di Mariella Sudano
Ho finito di rileggere il libretto di poesie Azzurrogusto” di
Mariella Sudano e, come ormai è mia consuetudine, mi accingo
a scrivere le mie considerazioni sull’opera.
Si tratta di una ristampa e, quindi, quasi sicuramente di
poesie, che hanno preceduto quelle “Nel Nome della Verità”
della stessa autrice.
In proposito è da dire che lo stile, conciso, sintetico,
pragmatico, è identico e ispirato alla dialettica poetica di
Ungaretti. Versi semplici, brevi, taglienti, statuari, ricchi di
immagini che si attagliano a realtà intime dell’animo umano in
un fiume di metafore attinenti.
La differenza sostanziale tra le due opere sta nel contenuto
delle poesie. Mentre l’argomento delle poesie dell’altro libro
spazia su vari temi più generali, quello delle poesie di
Azzurrogusto è volto esclusivamente all’analisi del rapporto
sentimentale di chi è coinvolto in quella grande avventura
dell’animo umano che è l’amore.
Le stesse figure, disegnate dall’autrice, che accompagnano
ogni singola poesia risentono dello stesso stile poetico
sopraddetto e nella loro espressione ermetica, richiamano
quelle curve tipiche del cuore e rispecchiano con la loro
flessuosità la delicatezza dei sentimenti sfiorati, ma
intensamente sensuali.
Poesie, versi e parole usate, legate ai disegni sono delle
metafore stupende di ciò che l’animo umano sente nello stato
amoroso che, a prescindere dall’esperienza personale, assurgono
alla universalità del sentire umano nella sua espressione.
Ecco i versi d’una poesia:
Morbido confine
dagli angoli a sorriso
ti sfioro
con la lingua
dei lemmi del cuore
Ed ancora in un’altra poesia
brindisi
a sgorgare di fontane
nella notte di sole
fertile di semi
Ed in un’altra ancora
Ti accendi
Calore d’occhi di montagna
A sciogliere
il gelato come un dono
al sapore di papaya.
Potrei continuare a citare altri versi, ma tanto basta per
evidenziare la delicatezza delle immagini espresse che rivelano
la profondità dei sentimenti. Dovrei anche riportare i ghirigori
curvi o angolati riportati a fronte, ma non ne sono capace.
Bisogna saperli leggere e interpretare nel loro evolversi tra il
bianco e il nero fantasticamente composti tra curve e angoli
aguzzi..
Non so se possa trovare realizzazione il sogno dell’autrice di
diventare una grande scrittrice, poiché a mio giudizio, ogni
accadimento umano trova la sua realizzazione a seconda delle
circostanze.
A tal uopo cito il caso del Verga, il cui talento emerse in
seguito ad un caso fortuito, ossia, al clamore che suscitò l’esito
giudiziario mosso da lui all’editore Treves e a Mascagni
intorno all’opera della “Cavalleria rusticana”, tratta da una sua
novella. Chissà se, senza tale azione giudiziaria, sarebbe mai
emerso il suo genio e se oggi si discuterebbe in letteratura del
suo “verismo”.
Ma una cosa è certa, a mio avviso, che la Mariella Sudano
ha tutti i numeri per fare bella mostra di sé nel campo delle
lettere.
Le auguro che possa realizzare il suo sogno e avere quel
successo cui agogna e che, penso, meriti.
ULISSE SONO IO
di Gabriella Rossitto
Questo poemetto, che infine di questo si tratta, della
Rossitto ha inizio con il Proemio, dove l’autrice inizia la sua
esposizione poetica chiedendo perdono ad Omero per la sua
intrusione nei meandri della ciclopica opera dell’Odissea e
continua identificando se stessa con i vari personaggi femminili
incontrate da Ulisse durante il suo periglioso rientro ad Itaca
dopo la distruzione della città di Troia e, oltrepassando ogni
limite, finisce per identificarsi anche nella stessa figura
dell’eroe greco.
In effetti ha ben donde l’autrice di chiedere venia ad Omero,
poiché da questo suo poetico lavoro, tutto il castello di
considerazioni psicologiche avanzate dall’aedo per eccellenza
del mondo greco, crolla e si arena sulle rive sabbiose di un
nuovo modo di concepire la femminilità alla luce di una analisi
del tutto sentimentale e innocua, che infine risulta aperta critica
al passato.
I vari personaggi femminili, a cominciare da Calipso, Circe,
Penelope, Nausicaa e le stesse sirene, introdotte nell’Odissea
come un riempimento per esaltare la figura di Ulisse, finiscono
per diventare le vere protagoniste nel poema, mettendo in
ombra la figura dell’eroe nonostante le sue decantate virtù, che
sembrano ben poca cosa nei confronti di una grandezza volta
tutta al femminile.
L’autrice ottiene tutto questo semplicemente descrivendo le
sensazioni di queste donne, trascurate del tutto da Omero, a cui
interessava evidenziare solamente la forza, l’astuzia, l’amor di
patria, la vendetta, il maschilismo del suo eroe.
Ecco quindi emergere i sentimenti delle donne abbandonate,
a volte con sprezzo, dall’eroe greco, sentimenti che eviden-
ziano il loro alto valore morale e umano del tutto trascurato da
Omero.
È possibile così scoprire il dolore di Calipso per l’abbandono,
la disperazione di Circe, non più la maga adescatrice di
uomini nobili e virtuosi, la delusione di Nausicaa, non più
l’ostacolo sinuoso e silente al rientro ad Itaca, la felicità
repressa di Penelope, che non è più la sottomissione al marito
assente e anche le stesse sirene, ammaliatrici irriguardose del
mare, diventano delle sofferenti donne impedite nel loro
desiderio insoddisfatto di possedere quell’uomo strettamente
avvinto al palo dalle improvvide corde.
Inoltre nell’identificarsi con Ulisse, emerge la parte femminile
dell’eroe ignorata da Omero e che si manifesta nel sentire
egli stesso il diverso impulso dei sentimenti delle donne con le
quali è venuto in contatto durante il suo viaggio, che possiamo
identificare all’umano sostare dell’umanità in questa nostra
vita.
Ecco quindi che Ulisse non appare più come il marinaio
dalle avventure amorose in ogni porto che tocca, il caparbio
esploratore di mondi nuovi, come lo descrive anche Dante, non
più l’uomo forte capace di tendere l’arco, di cui altri uomini
non sono capaci, non più il vendicatore sagace dell’onore
inteso come possesso della sua donna, l’astuto vincitore del
Ciclope e dei Proci, non più lo sprezzante virtuoso capace di
respingere le tentazioni femminili d’ostacolo al suo amor di
patria.
La sua mitica figura di eroe viene mitigata e ridotta piuttosto
a quella di un uomo pieno di pregiudizi, di cui il peggiore è
quello di sentirsi al di sopra dei sentimenti intimi delle persone
e soprattutto alle donne che risultano nel suo complesso delle
semplici appendici al suo vivere trionfante di eroe.
Ma sicuro che Omero ha da essere certamente incavolato
per l’opera dell’autrice, la quale riesce a rovesciare tutto il suo
castello costruito intorno al suo Ulisse, con un poemetto
semplice, schematico, piacevole a leggersi con una tecnica
espressiva surrogata da versi brevissimi e con l’introduzione di
termini talvolta blasfemi alla luce delle regole grammaticali,
ma profondamente incisive nell’intento da sembrare singhiozzi
di commozione, laddove egli impiega un colossale poema ricco
di versi ridondanti di magiche espressioni, di lunghe
dissertazioni poetiche, ma anche retoriche, scomodando
l’intero olimpo del mondo greco e le superbe figure di
personaggi mitici.
È come paragonare il trionfo del piccolo Davide nei
confronti del mastodontico Golia.
Un altro motivo del risentimento di Omero è senza dubbio
l’aver richiamato, la nostra autrice, la funzione del coro, tipica
delle tragedie greche, di cui il sommo poeta non si serve,
ritenendo bastevole il suo dire.
Sentire la voce delle donne che condividono in coro i
sentimenti di ogni singolo personaggio potrebbe essere
considerata una novità, che tale non era nella letteratura teatrale
antica del mondo greco, di cui la nostra autrice dimostra di
conoscerne gli estremi.
Non posso non evidenziare, infine, la stupenda descrizione
della figura di Penelope, tratteggiata veramente con una
delicatezza sentita e di gran lunga superiore, a mio avviso, a
quelle degli altri personaggi, compreso Ulisse che appare nel
titolo del libro.
Nel concludere, mi preme evidenziare non solo la piacevole
tecnica espressiva della Rossitto, ma la sua profonda conoscenza
del mondo classico greco e una consapevole facoltà di
analisi del mondo femminile rapportata alle problematiche
esistenziali.
Siamo effettivamente in presenza di una donna, anzi di una
artista, colta, sensibile, attenta e profondamente cosciente dei
valori dell’essere donna, senza, per altro, inveire nei confronti
dell’altro sesso.
Ella riesce a dimostrare di essere lei il vero Ulisse,
solamente adoperando la sua sensibilità e la sua vena poetica e
con una signorilità che s’addice ad una grande donna.
DONNA, MERAVIGLIA DEL CREATO
di Paolo Salamone
Ho letto con attenzione il manoscritto inviatomi da Vera
Ambra che ha per oggetto le poesie di Paolo Salamone per un
mio giudizio critico su tutta l’opera, che non può non essere
che positivo per le motivazioni che mi accingo ad illustrare.
Egli, nelle singole poesie, non fa che descrivere i vari aspetti
che la donna assume nella vita dell’uomo, rispettoso e
ammirato delle sue qualità a cominciare dall’approccio,
all’addentellato con la divinità, proseguendo nella vita comune
di tutti i giorni con i riflessi su drammi, momenti di
ammirazione e analisi di situazioni diverse.
Tutto ciò costituisce la ricostruzione storica della vita di una
donna, quale emerge nel giudizio sociale lungo tutto il percorso
dei secoli. Inconsapevolmente o forse con voluta intenzione il
Salomone descrive con intenso calore umano tutto ciò che
l’uomo ha sentito e continua a sentire nei confronti della
donna, che prescinde dalle sue qualità spirituali e fisiche.
Siamo al superamento del concetto stilnovista della donna
come anello di congiunzione tra l’umanità e la divinità o di
quella meramente materialista della donna oggetto e fonte di
piacere. Spirito e materia si fondono in un unico concetto, che
è quello della fusione in un elemento unico che la natura le ha
assegnato: compagna assoluta e compartecipe della dignità
umana ed è sotto questo aspetto che la donna viene descritta
nell’immaginazione in tutte le situazioni, anche quelle
momentanee e di poco conto, quali le occasionali ammirazioni
o le tragedie cui va incontro.
Purtroppo così non è stato lungo lo scorrere del tempo. Non
va dimenticato che la donna “ab origine” era considerata di
ruolo secondario rispetto all’uomo, se non, addirittura, a quello
di schiava. Bisogna attendere l’avvento del Cristianesimo per
una rivalutazione della figura femminile, impersonata nella
madre del Figlio di Dio. Nonostante tale avvento, la figura
della donna ha sempre assunto un ruolo di secondo piano
rispetto alla figura maschile. Ebbene. Il Salamone cancella
questa disparità fra i due sessi assegnando alla donna il ruolo
che merita: dolce compagna alla pari dell’uomo. Da tutta
l’opera emerge, quindi, la figura di una donna che nulla ha a
che fare con la turbolenza manifesta in alcuni aspetti del
femminismo esasperato e la considerazione che tutti i suoi
pregi o difetti sono componenti comuni ai due sessi. È cosi che
vengono rivalutati i suoi impulsi amorosi, un tempo mortificati,
la sua forza del pensiero e le sue capacità sociali.
Anche dal punto di vista metrico, le poesie tutte trovano il
mio consenso, poiché rifuggono dalla rima e adottano lo stesso
sistema moderno che io adotto nelle mie poesie che, poi, è
quello del Leopardi: il settenario o l’endecasillabo alternati e
sciolti, armoniosamente e intelligentemente usati con le cesure
e gli accenti tonici. Preferisco non citare alcun verso, lasciando
la possibilità al lettore di leggerli tutti con attenzione e farne
bagaglio culturale.
TRA LE TUE DITA
di Dario Miele
Durante la manifestazione Viaggio tra le Vie dell’Arte a cura
di Vera Ambra, che si è svolta presso la Biblioteca Vincenzo
Bellini di Via Sangiuliano a Catania, mi è capitato tra le mani il
libro di poesie Tra le tue dita di Dario Mele.
Ho cominciato a leggerlo tralasciando la premessa, come da
mia abitudine. In verità a me, cui piace molto leggere, piace
pure lasciarla per ultima e dopo aver formulato un mio giudizio
sul testo.
In questo modo riesco ad avere una visione chiara di quanto
leggo, senza dover subire il giudizio espresso in premessa da
altri.Ho scoperto che il tema comune a tutti i versi che si susseguono
nel libro in questione è unico e solo: l’amore, riferito al
rapporto sentimentale e sensuale che si instaura tra l’uomo e la
donna, ma vissuto, raccontato e analizzato da parte dell’uomo.
Del resto è nella norma, essendo in presenza di un autore di
sesso maschile giovane che chiaramente non intende illustrare
trasgressioni in questo settore dell’umano operare.
Vengono ampiamente descritti i sentimenti dell’autore e le
sue reazioni emozionali, nonché di desiderio alla sua felicità
senza per altro soffermarsi su quello che possa provare
l’oggetto della sua passione, che risulterebbe, in ogni caso
totalmente immaginabile, ma non certo e reale.
Semmai, egli si limita solamente a esortare la sua amata ad
aprirsi maggiormente a lui, che offre tutto il suo amore, di
provare quello che lui prova
Ecco alcuni versi che evidenziano quanto detto, ma non
sono i soli, poiché anche gli altri sono dello stesso tenore.
“Seguimi nei giorni senza fine
che vivono negli occhi tuoi”
“Bruciami
e fai di me
temibile banchetto”
“Legami a te
angelo terrestre
dal volto ignoto”
“Assapora il respiro
Che t’ho soffiato sulla pelle”
Del resto, se così non facesse, le immagini, molto ricche di
sensualità potrebbero trascendere in qualche cosa che poesia
non è, ma mera descrizione becera di lussuria
Con molto piacere e intima soddisfazione letteraria, ho
notato che l’estrinsecazione dei sentimenti molto delicata ma
imperante, è accompagnata dal desiderio bruciante e
incontenibile dei sensi. Una vera ricerca della felicità attraverso
i sentimenti che suscita l’amore perfetto e equilibrato tra affetto
e passione.
“Versati verso me
io svanirò celatamente
dall’inseguire dei tuoi odori”
“Odori di te m’avvolgono
nel profumo setoso di rose rosse
essenze di anime mai assorte “
È un continuo attingere nel proprio io delle immagini
poetiche che esternano il suo sentimento e il suo desiderio per
l’oggetto del suo amore, che, magari è solamente sognato, non
reale, ma in ogni caso intensamente cercato e fonte di felicità.
Questo groviglio di sentimenti di desideri e di aspirazioni
quasi eteree ma fortemente sentite, sono esposte con un
linguaggio adeguatamente musicale e armonioso nella loro
brevità quasi mormorata e cosparsa di piacevoli sussurri.
Senza tema di smentita siamo in presenza di un menestrello
dell’amore che canta al mondo intero i suoi sentimenti alla
stessa stregua dell’usignolo innamorato a primavera.
Una figura questa non del tutto nuova nella letteratura
italiana, che ricorda i suoi albori, quelli che dettero l’avvio al
dolce stilnovo di Guido Cavalcanti, Dante e Petrarca e
successivamente alle ballate del Poliziano. Mi riferisco alle
improvvisazioni poetiche dei trovatori, che cantavano
composizioni amorose alle loro donne, principesse di sogni
stupendi, ma raggiungibili.
Sostanzialmente il Miele, pur con una tecnica diversa
all’ermetismo dell’ultimo periodo letterario riesce a farci
rivivere attimi di serena contemplazione interiore del suo ideale
dell’amore, che è elevazione spirituale e anche materiale della
figura femminile, oscillante tra il cielo e la terra e tutto ciò con
un modo di sentire antico e pur sempre attuale.
Non a caso la premessa al libro della Rapicavoli, ovvero di
una donna, da me letta e confrontata dopo, coincide nel plauso
per quanto esternato dall’autore.
Non nascondo che il mio giudizio del tutto positivo è
influenzato dal quasi mio identico modo di trattare questo tema
del sentire umano, basato sull’analisi del proprio io, da cui
trarre immagini poetiche e d’amore per la figura della donna,
che, nello stesso tempo è spirituale e materiale, ma lontano da
becere e volgari espressioni.
Per il futuro mi auguro che il Miele affronti, come del resto
ho fatto io, altri temi dell’umano sentire con la stessa foga,
armonia di pensiero e di immagini usate in questa occasione.
Esistono nel mondo altri temi dell’amore, il cui oggetto non
è solo la donna, ma l’umanità intera, la natura, la scienza, il
perdono, la carità e la giustizia sociale, tutte cose degne di
essere poeticamente e intensamente esplorate.
ITACA DISPERSA
di Dario Mele
Per prima cosa debbo chiedere scusa a Dario per non essere
potuto intervenire alla presentazione del suo nuovo libro di
poesie. Purtroppo ad una certa età non si è sempre pronti a
seguire i propri impulsi per una questione non di comodità, ma
di impedimento fisico. In seconda istanza devo ringraziare
l’amica Vera Ambra, che ne ha curato la stampa, per avermi
inviato una copia del libro e, quindi, di poterne commentare il
contenuto.
Non nascondo che la mia curiosità era alquanto al massimo
leggendo il titolo: ITACA DISPERSA! Ho iniziato a leggere
aspettando di veder emergere dalle pagine la figura dell’eroe
greco di cui Omero ne aveva fatto un mito per quella sua
assenza da Itaca durata venti anni dedicata ad una guerra e ad
un periglioso rientro in patria.
In effetti dai versi usati da Dario non emerge la reale
immagine dell’eroe, ma la sua gigantesca mole di sentimenti,
dei quali forse nemmeno lontanamente Omero teneva a
mostrarci, ma che altre leggende in merito hanno interessato la
sua figura.
Omero aveva in mente l’intenzione di mostrare solo la
furbizia di questo personaggio che grazie alle sue vicissitudini
ha assunto anche il ruolo dell’uomo innamorato della moglie
Penelope, il quale solca i mari, incontra infinite difficoltà che
vince pur di ritornare ad amarla.
Alla fine mi sono convinto che Dario abbia analizzato il
viaggio fantastico che si cela nell’animo di Ulisse descrivendo
nei particolari i momenti di un amore, anche se di altri amori
Omero l’ha descritto autore. In sostanza egli si sostituisce in
epigrafe allo stesso Ulisse descrivendo le tappe di una vicenda
amorosa, quella per la moglie Penelope, semplicemente citata
da Omero, ma che sicuramente ha influenzato la sua psiche più
che le altre donne.
Non poteva il suo Ulisse non osservare le tappe di un amore
che nasce spontaneo e che lo assorbe dall’inizio fino alla fine
della sua vita.
Pertanto egli narra i momenti dell’innamoramento con tutte
le ambasce, i dubbi, i sogni e le chimere che si affacciano
nell’attimo della conoscenza, una seconda fase in cui vi è la
pienezza dell’amore corrisposto pienamente e condiviso e
infine la terza fase che descrive l’abbandono.
Ricordo in proposito che, come Dante racconta nella sua
Divina Commedia, Ulisse lasciò Itaca nuovamente alla ricerca
di altre avventure e sicuramente avrà sofferto per soddisfare
questa sua esigenza di viaggiatore dovendo riabbandonare la
moglie.
Ecco quindi che Dario compendia nei suoi versi gli stati
d’animo delle tre fasi che sono l’ossatura di tutte le vicende
amorose, trovando per ognuna la giusta luce e ombra nei
risvolti fantastici che plasticamente si affacciano alla ribalta
della vita.
Da tutto questo lavorio di pensieri, movenze, aspettative,
delusioni e trionfi, pianti, mugugni, sorrisi dell’anima,
appagamenti spirituali e materiali prendono corpo figure che
sono state e sempre saranno finché il mondo vivrà. In
proposito, la prefatrice, che indubbiamente è più colta di me in
materia d’arte, cita, non a caso, i quadri di Fontana per la
plasticità delle immagini.
Alla luce del mio giudizio, che è quello dell’uomo in parte
digiuno d’arte e che si affida alle sensazioni che la lettura gli
consiglia, Dario usando le parole in un’armonia metrica che
tiene conto della tonalità dei versi, riesce a dare una completezza d’immagini veramente poetica e anche nuova. I versi non
sono tutti eguali, ma vari e adatti ad ogni circostanza: una
tecnica nuova che indubbiamente lo distingue dalla tradizionale
forma della poesia legata alla staticità del periodare.
Leggendo una qualunque opera letteraria nell’evidenziarne
le caratteristiche, mi sono sempre chiesto quali ne fossero
anche i limiti. La stessa cosa ho fatto nei confronti di questa
opera di Dario, dove tutto corrisponde ad un’armonica visione
chiara e convincente. Ebbene, non nascondo che nei ricordi
della terza fase la descrizione di alcuni risvolti che evidenziano
particolari momenti ci si addentra in visioni descrittive che, a
mio avviso, non giovano alla visione fantastica di un mondo
che è meglio lasciare alla fantasia del lettore. È come voler
mettere per forza le briglie ai cavalli scalpitanti impedendo loro
di dare libero impulso alle loro aspirazioni del momento.
Auguro a Dario il meglio del successo, che son certo
raggiungerà, per i suoi meriti non solo letterari, ma anche
umani.
IL FIATO DELLE STELLE
di Maria Rita Coppa
Leggendo questo libro di poesie di M.R. Coppa, mi è venuto
in mente il famoso Cantico dei Cantici, di cui or non è guari
l’estroso Benigni ci ha ricordato l’esistenza tingendolo di una
sua tutta particolare interpretazione.
L’attore in questione colora di sesso l’Amore di cui parla la
Bibbia e trascende in particolari del tutto materiali difficilmente
digeribili da chi è ligio alla tematica dottrinale cristiana
e relativi limiti espressivi.
La Coppa colora invece l’Amore di uno spiritualismo
consone alla dottrina cristiana tradizionale, ma anche lei
indugia, senza, alcun dubbio, su concetti assorbiti da altre
culture teologiche. Infatti, tra le righe esplicative in prosa e
alcuni versi, occhieggiano riferimenti al mondo iperuranico di
Platone, alla filosofia socratica e allo stesso scenario descrittivo
del paradiso islamico, non escludendo un pizzico dell’io
categorico kantiano e un riferimento a teorie orientali circa la
trasmigrazione delle anime. Sembra proprio che l’autrice
voglia vestire l’abito di un ANGELO TESTIMONE che superi,
pur riconoscendone la validità, la dottrina cristiana, scivolando
in un mondo olistico permeato di un soffuso panteismo
universale, che porta a considerare appunto il Fiato delle stelle
e tutto l’Universo non come l’opera di Dio, ma Dio stesso. Non
è, dunque, che Dio è dentro di noi come dice l’Autrice in una
sua nota iniziale, ma al di sopra di noi, in quanto Egli ci ha
creato a sua immagine e somiglianza come sostiene la fede
cristiana e non è che Lui sia entrato in ogni singolo uomo. Egli
ha semplicemente impresso nella sua anima i concetti del Bene
e del Male, lasciandogli la libertà di scegliere, come ha
dimostrato S. Agostino, citato dalla stessa Autrice. Se Dio è in
noi non siamo ovviamente liberi di fare il male, come
chiaramente avviene nel mondo. Noi siamo degni di Dio se
scegliamo di fare il Bene liberamente.
Tuttavia, nel susseguirsi dei versi, permeati veramente da
una fantasia poetica stupenda, inconsapevolmente l’Autrice
smentisce questa sua nota, rientrando nei canoni dottrinali
cristiani, ammettendo che gli stessi angeli altro non sono se
non creature di Dio da Lui destinati a fare da tramite con
l’umanità. D’altronde anche i concetti poeticamente espressi
dall’Autrice relativi alla Fede, la Speranza, la Carità, il
Perdono, la Comprensione e l’Amore per il prossimo, fanno
emergere la consistenza della religione cristiana, che non può
essere superata da altre teorie teologiche.
A prescindere dalle fantastiche descrizioni poetiche e dei
riferimenti pindarici al creato e ammirazione creativa
dell’opera di Dio, descritti con armonica melodia metrica
veramente magistrale, dove emerge maggiormente la poesia
nella sua espressione più alta in tutta l’opera è quando l’Autrice
affronta i sentimenti parentali e amichevoli. Mi limito a citare
semplicemente i titoli di alcune poesie che maggiormente mi
hanno colpito: Tenero idillio Ultima lettera d’amore, Abbracci
di compassione, Io per te, La compassione, omettendone di
descriverne il contenuto e di citarne i versi per stimolare alla
loro lettura.
Una nota particolare, oltre alla scioltezza dei versi e l’uso
appropriato delle parole, va ascritta alla profonda cultura
filosofica e teologica dell’Autrice, nonché alla conoscenza
dell’IO AUTENTICO di ogni singolo individuo, tratteggiate
con grande perizia e consoni al linguaggio poetico.
QUANDO CADEVANO LE NUVOLE
di Marta Limoli
A definire sinteticamente il contenuto di questa raccolta di
poesie di Marta Limoli sono sufficienti le parole che la stessa
autrice cita in prefazione: “siamo in presenza di palloncini
pieni di ricordi che si librano nel cielo azzurro”.
Il cielo è lo scenario poetico in cui sentimenti e pensieri
accumulati nel tempo salgono leggeri, spontanei, senza alcuna
remora restrittiva che li vincoli alla realtà se non quanto basti
per essere da supporto ad un mondo non descritto, ma intuito.
I palloncini dei ricordi vengono su non sparpagliati e
disordinati, ma seguendo l’ordine temporale del vivere umano.
Un vero quadro astratto, ma ordinato di emozioni
armoniosamente accennate nel silenzio del cielo, pari a nuvole
la cui forma è sempre varia e difforme.
Cominciano a salire quelli riguardanti il mattino e nell’ordine
si arriva a quelli della notte nel simbolismo preordinato e
composto della giovinezza e della maturità, insinuando dubbi
sulla realtà attraverso la sua stessa rappresentazione.
Infatti la sua poesia si avvicina al reale non per interpretarlo,
ma per mostrare il suo mistero indefinibile. Allude, ma non
definisce. Tutto rimane nel vago e nel meandro dei misteri del
pensiero e dell’anima, che giocano a rimpiattino nella psiche
dell’autrice.
Non emerge da tutta questa vasta produzione e impegnativa
azione letterale alcun suggerimento che possa modificare e
definire i fatti vissuti, i quali altri non sono se non fantasmi di
castelli svettanti nella fantasia.
Proprio da quest’ultima considerazione, scaturisce il clima
poetico di ogni singolo tratto di vita, specialmente al mattino,
cioè, nei sogni che si susseguono nell’età giovanile tra sogni,
indugi, irrequietezze, desiderio di provare, timore di abbandonarsi
agli stimoli dei sensi. Ma anche a sera, quando giunge la
maturità e la consapevolezza di esperienze vissute, emerge
prepotente il gusto del piacere e il nostalgico ricordo di
occasioni perdute.
A questo contenuto poetico contribuisce il linguaggio non
sempre comune, ma ricercato, agghindato, quasi studiato a
voler descrivere e non definire, alludere e non convincere o
materializzare eccessivamente sentimenti e azioni, nonché la
stesura quasi geometrica dei versi, realizzando a volte delle
figure geometriche triangolari cui viene quasi il desiderio di
applicare il teorema di Pitagora o di Euclide per trovare la
definizione della realtà appena accennata.
Quanto sopra analizzato rende interessante la raccolta delle
poesie di Marta Limoli, vera fonte di riflessioni profonde
proiettate in una analisi dettagliata, ma non definita della
psiche umana, quasi uno studio psicologico dei vari stadi della
vita, scevro da ragionamenti oberanti e affidato alla intuizione
poetica.
INNO AL LINGUAGGIO STRUGGENTE
Di Valeria Battiato
In verità, più che un inno al linguaggio struggente io lo
chiamerei il quadro delle nefandezze nello storico percorso
dell’umanità perduta.
L’autrice inizia con il descrivere orride scene che richiamano
alla memoria, se non vado errato, la rivoluzione francese
del 1789 e prosegue con quella dell’occupazione nazista e dei
bombardamenti americani dell’ultima guerra.
Segue il ricordo del ponte di Genova che contempla le sue
vittime, nonché Milano annichilita da terribili avvenimenti e
che ha visto corpi orrendamente penzolanti e successivamente
preda di grassazioni, egoismi, omicidi, suicidi e vessazioni,
nonché la descrizione della orrenda guerra nel Laos e accenni
al disastro della rivoluzione sovietica, che ha anche assorbito il
mancato ritorno in patria di soldati italiani mandati allo
sbaraglio. E in tutto ciò trovano spazio anche le contraddizioni
della politica, l’affiorare della figura di Pasolini, del tedesco di
Eco e di Borges. Segue anche un elenco di quartieri a rischio di
Catania simboleggianti il malcostume ivi imperante e il
soccombere di povera gente al supplizio della fame, della
incomprensione e della delinquenza.
È tutto un descrivere la violenza nel mondo, senza esclusione
alcuna di cui non solo queste località ne sono l’esempio. Ma
la descrizione non si limita a questo solamente. Lo sguardo si
volge ad una analisi dissacrante di tutti i difetti di questo mondo,
che vanno dall’omicidio, alla violenza alle donne, dall’incomprensione
all’egoismo, dall’accumulo disonesto di ricchezza
alla povertà più nera, dalla finzione d’affetti alla violenza
sfrenata sulle donne, dal latrocinio camuffato di bene all’aperto
saccheggio di riserve economiche, dal desiderio di riscossa del-
le donne che sbarca nella prostituzione …
Sembra proprio di assistere ad una sintesi dell’Inferno
dantesco, in cui emergono tutti i peccati capitali e anzi più di
quello poiché ai tempi del sommo poeta non era ancora in atto
la tragedia del coronavirus, alla cui apparizione e conseguenze
l’autrice dà uno spazio non indifferente.
La differenza sostanziale, però, consiste nel fatto che Dante
supera questo stato di miseria umana attraverso altrettante
cantiche del Purgatorio fino al trionfo della Fede e della
giustizia divina, ma nell’autrice di questo inno, nulla di tanto
appare. Anzi sembra che Dio in persona si vendichi di tutte le
malefatte dell’umanità e che i danni di cotanto cattivo operare
sia del tutto irreversibile e privo di spAnche gli stessi ministri
di Dio, i preti, sembrano aver tradito la loro missione. C’è fame
di Dio nel popolo, ma non fiducia negli uomini che lo
predicano. Ad un certo punto dice espressamente l’autrice:
“Questi margini sono frontiere che impediscono approdi nel
futuro”.
Ed ancora in un altro punto:
“Capitoli marci di questo tempoi fanno di me una strega
affamata”.
Il pessimismo più nero e disarmante insiste in tutta l’opera,
mitigato appena dal fatto singolare che conclude l’opera con
“Solo mio padre mi chiede come sto, mentre nel cielo vedo
passare nembi che oscurano il sole”. Tutta questa descrizione è
favorita da uno stile coatto e formalmente saltellante in versi di
diverso metraggio, ora squillanti, ora tacitamente ammiccanti,
che condiscono ed esaltano il pessimismo descritto, anche se
talvolta trascendono in metafore del tutto sibilline, che trovano
comprensione dopo aver letto tutta la composizione.
Direi che il linguaggio e i versi sono adeguati alle realtà
descritte. Forse in questo senso ha ragion d’essere il titolo che
inneggia al linguaggio struggente.
SICILIA FRA MITI E LEGGENDE
a cura di Maria Stella Sudano
Un plauso va all’insegnante Maria Stella Sudano e al corpo
insegnante collaboratore per aver curato la stesura di codesto
libro, sostanzialmente scritto e illustrato dagli alunni della V
primaria – Sez A del Plesso di via Bologna – Istituto Gaetano
Ponte di Palagonia (CT).
Il libro in questione, frutto di una ricerca attenta e
scrupolosa dei miti della Sicilia al tempo dei Greci e dalla
raccolta di fiabe e leggende popolari di Giuseppe Pitrè,
rielaborati dai suoi alunni, indubbiamente ha un alto valore
educativo poiché ha fatto rivivere a questi ultimi un aspetto
culturale della loro terra, la Sicilia, utilizzando anche il
linguaggio tipico siciliano, prestato da alcuni poeti e scrittori
dialettali.
Bravi gli alunni, che sotto la regia della loro insegnate
hanno dimostrato una non comune volontà di apprendimento
storico-culturale che li promuove ad artisti in erba, capaci di
suscitare interesse ed emozioni in chi legge i loro elaborati
disegnati e scritti talvolta anche in vernacolo. Cosa,
quest’ultima, che costituisce un valore aggiunto alla loro opera.
Dalle loro innocenti, ma precise descrizioni, scritte e
illustrate, traspare la meravigliosa scoperta delle ricchezze
culturali della loro terra, che riportano sulla carta con amore e
desiderio di far conoscere ai loro coetanei quanto hanno
scoperto e appreso.
Nulla viene da loro trascurato, dalla nascita fantasiosa della
Sicilia, alla favola di Demetra e Kore, al mito di Alfeo e
Aretusa e alla leggenda di Cola Pesce, che ancora sta
sostenendo il Peloro per non fare affondare nel mare la Sicilia.
Non manca nemmeno il riferimento al mondo sotterraneo di
Thalia, che dette origine alla leggenda dei fratelli Palici e al
nome della loro città, l’antica Palike.
Certamente non tutti i miti potevano essere inseriti in questo
libro, ma è indubbio il fatto che esso costituisce uno sprone ad
approfondire le cognizioni piantate come piccoli semi nel vasto
mondo della cultura, i quali sicuramente germoglieranno
facendo accrescere amore e rispetto per questa nostra Sicilia, di
cui non sempre vengono riconosciuti i suoi valori.
Io, che ritengo di aver contribuito in piccola parte al loro
lavoro, vedendo citati alcuni tratti dei miei lavori in proposito,
mi auguro che tra questi alunni, un giorno venga fuori una
artista, sia esso pittore, scultore o scrittore, capace più di me a
descrivere e onorare la Sicilia, descrivendone le sue bellezze e
ricchezze, nonché i valori culturali, che la distinguono nel
mondo.
IL TRIONFO DELL’ARCOBALENO
di Giancarlo Grassano
Leggendo le riflessioni rimate di Giancarlo Grassano, non
ho potuto non ricordare i miei primi passi nel fantastico mondo
delle lettere.
Ogni occasione per me era buona per poter esternare il mio
pensiero attraverso la lente delle mie osservazioni, che non
restavano mute, ma esternate.
Oggi era il tema della scuola ad ispirarmi, oppure l’amicizia
fraterna e l’amore agli albori dei primi sentimenti e poi la
famiglia e il lavoro Man mano che crescevo, dall’oggi al
domani, questi temi si arricchivano dei contorni della vita e
diventavano scene sognate e da sognare per il futuro. Gli
argomenti diventavano più incisivi, quasi un’analisi interiore
del mio intimo sentire ed ecco che mi si prospettavano
programmi e tendenze spirituali e materiali, che non avevo mai
prima considerato e provato.
Tutto questo mi sembra di rivedere leggendo le “cosette”
che ha scritto il giovane Giancarlo e scopro in lui una
personalità alla ricerca di un modello di vita che gli sembra
chiaro e limpido. Infatti dai suoi versi rimati emerge un insieme
di ideali che nella gioventù moderna è diventato raro scoprire:
interesse per la scuola che è alla base della cultura, la ricerca
della felicità, il superamento della solitudine il ricorso
all’amicizia come fondamento sociale e la scoperta dell’amore,
sintesi di sesso e sentimento, nonché l’aspirazione ad una
famiglia unita come fulcro della vita.
Sono questi i fondamenti su cui basare la propria esistenza
in seno alla società e che costituiscono la vera felicità.
Giancarlo crede in questi ideali e con la forza che nasce dal
suo intimo li espone candidamente, con profonda naturalezza e
sincera ammirazione e soprattutto senza piombare nel pessimismo
di maniera che fu del Leopardi o di altri romantici.
Leggendo questi versi, semplici, spontanei, ancorati alla
rima sempre presente, mi sembra di seguire il corso di una
personalità proiettata verso la luce della bontà e che delle
proprie sofferenze ne fa lo stendardo per vincere tutte le
difficoltà che appaiono all’orizzonte.
Tutto esattamente, come quando, da ragazzo, mi tuffavo
nelle lettere cercando di emulare gli antichi poeti.
Un grazie sentito a Giancarlo per avermi ricordato un tempo
ormai per me lontano e che, purtroppo, non mi è concesso di
ripetere a causa della mia età.
DELIRI EMOZIONALI
di Maria Tripoli
Dopo aver letto i Deliri Emozionali di Maria Tripoli non
posso esimermi dal commentare quanto da lei scritto con il
cuore in mano in uno zibaldone, come lei stessa lo definisce, di
pensieri, riflessioni e opere pittoriche.
Ella stessa lascia intendere in premessa che a fare scattare la
molla dell’ispirazione sia stata l’amore per l’arte e per la
scrittura, nonché il desiderio di un’analisi introspettiva della
sua personalità, che hanno determinato in Lei un travaglio
esistenziale e una trasformazione del suo modo di essere donna
e artista. Con questo, pur sostenendo una verità, non dice nulla
di nuovo e di straordinario.
Chiunque si proponga davanti ad un foglio bianco con in
mano una penna o davanti ad una tela con una tavolozza di
colori, fa esattamente quello che dice Lei. Pertanto il merito di
ciò che ha realizzato non è da ricercarsi nella motivazione che
l’ha spinta a scrivere, ma nella figura della sua personalità di
donna e artista che emerge da quanto lei espone liberamente e
con passione. Lei stessa sostiene che la scrittura è stata per lei
un mezzo per farla uscire dal guscio in cui temeva di restare
soffocata. In effetti appare in Lei in maniera eclatante il
dualismo in cui si dibatte tra una educazione obesa da tabù e
avvolta grettamente nella foschia di ambigue immagini
fantasmagoriche dell’inesperienza e il desiderio di libertà che
le rode dentro e che trova sfogo nella cultura dell’arte non solo
nel campo della scrittura, ma anche in quello della pittura.
Infatti le sue poesie, che assumono l’aspetto di una confessione
incondizionata preceduta da una analisi attenta e coscienziosa
della sua vita e del suo modo di intenderla e i suoi quadri
pittorici denotano gli aspetti caratteristici di questo dualismo
interno che trova libero sfogo nell’espressione ora simmetrica e
ragionata, ora asimmetrica e torbida di una realtà vagamente
sognata.
Le poesie in particolare, e le riflessioni di contrizione e
perdono per quanto di sbagliato abbia potuto commettere nel
passato, trovano un superamento del disagio con il libero
esercizio dell’arte pittorica, che sfocia in un espressionismo
conturbante e armoniosamente in sintonia con il nuovo modo
di sentire.
Direi che il dualismo emerso in lei viene superato non con i
piagnistei e i mea culpa o con la negazione di un mondo
sperato e fortemente cercato, ma con la libera esaltazione della
nuova dimensione in nome dell’arte redentrice di ogni possibile
mancanza o inefficienza, anzi un mezzo idoneo alla esaltazione
del proprio valore morale spirituale e materiale, sia come
donna, che come artista.
Alla luce illuminante di questo concetto, la lettura e la
visione di tutto lo zibaldone assume un aspetto particolare,
poiché alla fine del lungo riflettere poetico e pittorico sembra
di avere assistito alla contemplazione nel buco nero della vita
di una realtà dalle mille sfaccettature colorate, che sono di
raggiunto equilibrio interiore, superamento di crisi depressive,
trionfo delle proprie aspettative, turbamento ed esaltazione dei
propri sentimenti, nonché soddisfazione dei propri sensi, nel
perfetto equilibrio tra anima e corpo È infatti evidente alla fine
che Lei stessa plaude alla gioia di aver trovato l’armonia
interiore nel superamento di fantasiose ubbie, esprimendo i
sensi di una realtà che la ripaga della sua fede nel miracolo
dell’arte libera e cocchiera cui ha sempre creduto, sognato e
desiderato. Siamo in presenza di un’artista che diventerà
famosa? Questo non sono in grado di poterlo affermare poiché
io scrivo, leggo, commento solamente per il piacere di farlo,
senza avere la pretesa di avere una professionalità sufficiente in
merito.
Saranno i posteri a dare l’ardua sentenza, i quali, purtroppo,
risentono degli umori del tempo e della moda. Essi hanno il
potere di rendere celebre chi non lo era e viceversa. Non è un
mistero che Rapisardi, ritenuto un grandissimo letterato, oggi è
considerato poco più che un forbito paroliere e che il Verga,
allora ritenuto un modesto scrittore oggi è considerato un
maestro della letteratura moderna.
Allo stesso modo si può dire di Buzzati, che ha di gran
lunga superato nella stima il Marinetti di allora. Anche lo
stesso Dante, oggi sull’altare della letteratura italiana, al suo
apparire all’inizio venne considerato un arrabbiato ribelle da
esiliare. I posteri sono veramente imprevedibili! Per questo
motivo non azzardo un giudizio chiaramente non certo e sicuro,
ma mi auguro che Maria Tripoli venga sempre ricordata e
valutata come un’artista di indiscusso valore, esattamente come
la vedo oggi con il mio modesto intuito di semplice lettore.
Non a caso, ispirandomi alla sua costante applicazione alla
pittura, qualche anno fa, ho scritto un racconto molto allusivo,
dove parlo di una società dei colori, che evidenzia la sua
bravura. Ad ogni buon conto devo ammettere che lo scopo da
lei prefissatosi di creare emozioni con la sua scrittura e con le i
suoi quadri è del tutto raggiunto e soddisfatto.
Con la sua arte modellata sulla soddisfazione in amore
dell’anima e del corpo, del sentimento e dei sensi, ella riesce a
creare quell’alone di desiderio e intima felicità che regna tra
due persone che si amano e sono pronte ad offrire se stesse ad
ogni stimolo amoroso precipitando nello stato di atarassia
completa del gorgo senza fine della passione, capace di
annientare la stessa sofferenza della gelosia, considerata alla
stregua di un fantasma fugace. Potrebbe, dunque, non essere
considerata questa fatica letteraria di Maria Tripoli un’opera
d’arte, ma in ogni caso la sua lettura sarà, oltre che fonte di
riflessione profonda, una piacevole esperienza e un bagno di
sogni sempre accarezzati durante il divenire della vita sia di un
uomo che di una donna.
Una buona lettura, insomma, indice di una predisposizione
all’arte, di profonda conoscenza dell’animo umano e capace di
far assaporare la felicità di un rapporto amoroso perfetto, in cui
fantasia e realtà si fondono nel crogiolo della passione e la
sensualità si trasforma in romantica seduzione amorosa.
L’emozione scorre senza meno tra le righe dei versi scorrevoli
e sinuosamente indugianti sugli stati d’animo descritti e nelle
conturbanti espressioni dei suoi nudi femminili scevri di
pudicizia e apertamente incisivi anche nella scelta dei colori.
Se i versi della sua scrittura parlano, le sue tele gridano,
raccontano le sue esperienze, il suo travaglio, le sue ambasce e
la conturbante soddisfazione di averle liberamente esposte.
Sembra proprio che emerga dalle tele la sua indole non
rassegnata e aggressiva, come se ella abbia usato se stessa
come modella, posta in un antistante specchio. Naturalmente,
anche questo mio giudizio è piuttosto una sensazione dettata da
un modesto osservatore e non da un professionista del pennello
e dei colori.
DUE GIOVANISSIMI AUTORI A CONFRONTI
L’ARTE DI APPASSIRE IN SILENZIO e PETALI DI MARGHERITA
di Giuseppe Giorgio Pignatello e Martina Luvarà
I due libri in questione sono uno scritto da un giovanissimo
liceale e l’altro da una altrettanto giovane studentessa. Il caso
ha voluto e forse non solo il caso, che la lettura dei due libri sia
avvenuta quasi contemporaneamente, poiché mi ha dato modo
di riflettere su un argomento di vita vissuta che riguarda lo
stesso argomento che è sempre esistito e continuerà ad esistere
finché l’umanità vivrà.
È stato come vedere le due facce di una stessa moneta
analizzandone i contorni nei minimi particolari. La moneta,
ossia l’argomento, altro non è che l’Amore e più precisamente
il PRIMO amore, quello che nel bene e nel male tutti gli esseri
umani hanno vissuto e continueranno a vivere in futuro.
Nulla di nuovo, dunque sotto il sole.
L’argomento è sempre esistito ed evidenziato al punto di
mitizzarne il contenuto. Ricordo a tal uopo il dramma di Psiche
ed Eros esternato dal mondo classico greco e che ha dato luogo
ed impulso all’attività poetica di tempi più recenti. Mi sembra
abbastanza superfluo, ma bastevole citare Dante, Petrarca, il
dolce stilnovo fino ad arrivare alle nostra più moderne canzoni
d’amore.
Si potrebbe pensare che gli argomenti siano talmente triti e
ritriti che nulla aggiungono a quanto ormai è arcinoto e scontato,
ma non è cosi poiché entrambi gli scrittori (un uomo e una
donna) esternano dei sentimenti e delle vicissitudini, che senza
il dovuto controllo sono la causa di tragedie che ancora oggi
avvengono.
Entrambi i personaggi, Giuseppe Giorgio Pignatello e
Martina Luvarà, raccontano in maniera aperta e sincera la lor
esperienza arrivando alla medesima soluzione che la ragione
impone: il primo amore è semplicemente un amore, che può
anche non essere corrisposto o che, se corrisposto, può anche
cessare per i motivi più svariati. La cosa molto importante è
avere la coscienza di aver agito con sincerità e con onestà
d’intenti, serbando il ricordo dei momenti più belli, ma ormai
passati e irripetibili.
Parliamoci chiaro: ad un primo amore può sempre succedere
un secondo amore e forse anche un terzo, poiché l’esperienza
insegna, come dice una vecchia canzone napoletana che “è
bello il primo amore, ma il secondo più bello assai”.
“TUTTO PASSA E CAMBIA” ho anche scritto in un mio libro,
dove rimestolo tra le altre cose, anche questo argomento.
Quindi la cosa molto importante è che prima di amare
qualcuno, un essere umano deve prima imparare ad amare se
stesso poiché l’amore altro non è se non donare la propria vita
ad un altro essere. Non si può dare felicità se non si ha la
predisposizione alla felicità.
Questo, infine, è l’insegnamento che si può trarre dalla
lettura dei due libri.
Per quanto concerne la valenza formale dei due libri, non
posso non lodare l’impegno letterario profuso nell’esternare dei
sentimenti e degli impulsi che non è facile esporre. I versi in
entrambi i libri alternati al balenare di sprazzi ragionati in prosa
chiara e convincente non ricorrono a simbolismi o allegorie cui
è facile ricorrere.
Le parole denotano una sincera ed irruente esposizione di
quanto il loro pensiero ha elaborato.
È da dire che la Luvarà ricorre di tanto in tanto a delle
analogie con quadri di celebri pittori, mostrando una innocente
civetteria, quasi per evidenziare d’aver raggiunto un buon
grado di maturità, nonostante si sia lasciata avvampare da un
amore che non è stato corrisposto. Il Pignatello trae invece solo
dal suo intimo sentire il frutto dei suoi sogni, anche se mi nasce
il sospetto che Vancouver, la gelida città del Canada, scelta
come scena del suo fallito primo amore durato appena l’arco di
un anno, sia un simbolo, piuttosto che un reale soggiorno.
In entrambi i due giovani poeti i versi risultano brevi,
concisi, ripetitivi di suoni interrotti dall’incalzare dell’ansia e
dell’incertezza tipica delle giovani età. Mi auguro che entrambi
continuino a seguire la via che hanno iniziato a percorrere nel
campo letterario.
CERCANDO LE RADICI NEL VENTO
poesie di Gabriele Stefani
Dopo aver letto questo libro, mi son posto il quesito di
definire cosa sia infine la poesia e quali siano le finalità di ogni
singola composizione poetica in genere.
Alla luce della mia riflessione la poesia altro non è se non
l’esposizione in forma aulica e particolare d’argomenti umani
capaci di suscitare emozioni in chi li legge. Ma forse una tale
definizione è un solo aspetto della poesia. In effetti agli albori
della cultura classica greca qualunque cosa si scrivesse veniva
espressa in forma poetica, ossia, rispettando una certa tonalità
espressiva cui si badava.
Pare che Caronda, Epicuro e anche altri antichi filosofi
scrivessero i loro insegnamenti in forma poetica.
Anche nella cultura romana si rispettava questo concetto,
che trova nel “De rerum natura” di Tito Lucrezio Caro, uno dei
massimi esponenti; infatti l’argomento da lui trattato,
prettamente scientifico è descritto in forma poetica.
Ebbene, leggendo l’immane fatica letteraria di Gabriele
Stefani, più che un insieme di argomenti poetici, ho avuto la
sensazione di leggere un trattato di filosofia, anzi di “alta”
filosofia, dove, ad ogni pié sospinto inciampi in teorie di
pensiero, le più disparate e varie che io, modesto lettore di
media cultura ho avuto difficoltà a recepire. Mi riferisco ai suoi
voli pindarici, ai simbolismi, alle allegorie di immagini e a
termini di teorie filosofiche a me sconosciute o poco note, che
alla fine di ogni singola lettura, mi hanno fatto porre la
domanda inquietante del “Chissà cosa significhi quello che ho
letto o del chissà quale sia l’esatto significato di tanto
ragionamento o paragone.”
In effetti dalla lettura del libro, alla fine, ho recepito la
sensazione che la poesia dello Stefani denota una persona di
una cultura più profonda e cognitiva della mia. Gli stessi
simbolismi, per quanto difficili a recepirsi per i motivi che ho
detto, sono espressi in maniera elegante e stilisticamente
perfetti. Tutte le poesie risentono di un afflato poetico
veramente intenso ma difficilmente assimilabile da chi non ha
la medesima elevata cultura dello Stefani. Si tocca quasi con
mano il riferimento a culture orientaleggianti e il ricorso ad un
ermetismo non comune ad un lettore di media cultura. Si sente
in essi particolarmente l’influenza della poesia di Ungaretti,
che anche lui in materia non è da meno. In compenso le
composizioni di quest’ultimo sono brevissime e ti lasciano più
tempo alla riflessione, ma le poesie dello Stefani sono un
susseguirsi incalzante e contemporaneo di immagini nuove,
belle, piacevoli a leggersi, ma che non ti danno il tempo di
riflettere per il continuo susseguirsi d’immagini nuove.
Ad un’immagine ampollosa, nella stessa poesia, ne segue
un’altra più elaborata ed un’altra ancora fino al punto di
perderti in un meandro di pensieri che ti distraggono dal capire
la finalità di quanto letto. Lo stesso titolo di tutto il libro
“Cercando le radici nel vento”, per quanto sia intensamente
poetico, mi pone il quesito inquietante di non capire a cosa si
riferiscano esattamente codeste propaggini arboree.
Alla fine del libro, ho letto pure il dotto giudizio di Dario
Mele, che condivido e giustifico, dal momento che Dario ha
una preparazione più incisiva della mia in materia letteraria. Il
mio giudizio è semplicemente quello di un dilettante e non ha
alcuna rilevanza ai fini del merito artistico e della bravura dello
Stefani che ammiro in ogni caso per la sua profonda
conoscenza umanistica.
COMMENTI SULLE OPERE DI AUTORI VARI
NON CHIAMARLO PADRE
di Adriana Di Grazia
“Si propagavano in me emozioni, concetti, insegnamenti
che mi facevano capire come la vita di ogni essere umano fosse
la pagina di un libro infinito”
Queste parole ho letto nel Cap XII del libro.
In sintesi è questo il tema del romanzo, argutamente fatto
rilevare nella sua trama. Siamo in presenza di una robusta,
dettagliata e scrupolosa analisi psicologica di personaggi,
compreso quello dell’autrice, che esprimono veramente pagine
singole costituenti il volume infinito dell’esistenza umana nel
mondo dell’essere.
Sentimenti di amore, di odio, di perdono, sgomento per la
cattiveria che emerge dagli eventi, il disagio morale per
violenze subite, la forza di superarle, l’amarezza della sconfitta
e della rinascita si mescolano nel crogiolo del racconto, che
scivola sulle parole espresse con uno stile scorrevole, semplice
e ricco di considerazioni e riflessioni.
Alla fine del racconto emerge spontanea la considerazione
che mai bisogna sottostare alla violenza, che può essere vinta
con la volontà e la forza di crederci e quando sembra che essa
trionfi, vi è sempre in agguato la giustizia divina pronta ad
annientarla. Alla fine il padre violento, autore del disastro della
sua famiglia, scompare, forse per aggiungere ancora un’ultima
cattiveria alle altre, impiccandosi. Mi sembra in questo fatto di
scorgere la provvidenza divina di manzoniana memoria, che
alla fine elimina Don Rodrigo e i suoi perversi alleati per fare
trionfare l’amore e la giustizia.
La violenza di cui parla l’autrice è quella degli uomini nei
confronti delle donne introducendo la tematica dei frequenti
femminicidi. Ma ella, pur denigrando l’operato di alcuni
uomini, riconosce che ne esistano di sani principi morali e
degni di essere amati. Da ciò ne deriva l’insegnamento che
spetta alla donna di stare in campana e scoprire per tempo dove
sta il pericolo per evitarlo. La descrizione dell’attrazione
amorosa è descritta in maniera favolosa e da non lasciare dubbi
sulla purezza dei sentimenti nei rapporti intimi di due
innamorati e anche sul piano dell’amicizia sincera, ci si imbatte
in sentimenti di una delicatezza veramente stupenda.
Adriana Di Grazia, scrittrice e poetessa, riesce in questo
libro a descrivere l’infinito dell’essere, le cui pagine sono
singole vite, descritte con uno stile semplice, scorrevole ed
espressivo, assurgendo a simboli di condanna della violenza
contro le donne, ed esaltazione dell’amore, dell’amicizia e del
perdono. Il sentimento aleggia nella descrizione dei rapporti tra
i vari personaggi, dove la spiritualità si fonde con l’amore
fisico, superando paure e ansie vissute e temute, pur nella
crudezza della realtà ed è così che tutta l’opera assume un
valore non solo etico, ma poetico.
LA CAMELIA DEL PARTIGIANO
di Claudia Tortora
Gentilissima Claudia Tortorella, ho terminato di leggere il
tuo romanzo storico La camelia del partigiano, dove con molta
attenzione e una descrizione realistica prospetti gli aspetti
cruenti della seconda guerra mondiale con particolare
riferimento alla nascita del movimento di resistenza partigiana
colorandola di un romanticismo che si addice a tutte le imprese
permeate da idealismi universali.
Intanto comincio col dire che chiamarti Tortorella mi è
venuto spontaneo per due motivi ben precisi. Il primo è che,
oltre a ricordarmi le vicissitudini del povero Tortora televisivo,
mi sono venute in mente, spigolando tra i capitoli del tuo
romanzo, le tortorelle che nel periodo estivo allietano con il
loro caratteristico tubare il mio risveglio giornaliero nella mia
casetta a mare, soggette agli attacchi di pellicani affamati
(crudeli nazisti e fascisti) e il mio assomigliare ad un Gufo
(partigiano motivato) che osserva in silenzio le vicende da te
narrate, spiandole con una attenzione particolarmente acuta con
l’intento di coglierne gli aspetti più salienti.
La prima cosa che mi è saltata all’attenzione è il tuo narrare
tutta la vicenda nei panni di un autore maschio, sapendo che a
scrivere è invece una donna. Sostanzialmente tu, da donna, hai
avuto il coraggio di assumere la personalità del personaggio
narrante “Ruggero, alias Ruggine”, mentre sarebbe stato più
naturale che tu raccontassi il tutto dandone, ad esempio,
l’incombenza a Margherita, personaggio femminile.
Anche se, forse, anzi sicuramente, il tuo scopo principale era
quello di descrivere la vicenda storica del movimento
partigiano, tuttavia il romanzo segue il canovaccio romantico
di un amore tra i due protagonisti principali, appunto Ruggero
e Margherita, che diventa espressione di sentimenti universali e
l’aia di tutto il libro.
A raccontare i fatti in prima persona è Ruggero con la mano
e una preparazione culturale di una donna. Hai avuto un bel
coraggio, poiché poteva venirne fuori un bel papocchio. Invece
è venuta fuori una figura di uomo perfetta con la singolare
prerogativa di avere le caratteristiche che tu, in quanto donna,
vorresti o hai già apprezzato. Sì, proprio la figura emblematica
dell’uomo ideale sognato da tutte le donne: innamorato,
altruista, comprensivo di eventuali difetti o precedenti
esperienze della donna amata, rispettoso della sua libertà e
delle sue debolezze e lontano dal fenomeno di violenza alle
donne, nonostante quest’ultima fosse in auge grazie alla guerra
in atto. Un vero eroe romantico degno delle favole del
dopoguerra raccontate da Bolero o da Grand Hotel nel clima
conturbante bellico. Anche gli altri personaggi del romanzo
assumono quella colorazione rosa del tuo acume poetico.
La seconda cosa che mi è saltata all’evidenza è la perfetta
conoscenza dell’ideologia partigiana e il suo procedere alla
assuefazione alla violenza, nonostante il punto di partenza
fosse la lotta a quest’ultima. La figura di Paolo-Gufo ne è la
espressione più evidente. Egli aborrisce quella insulsa guerra,
diventa disertore, teme per la salvezza di quanti lo aiutano a
nascondersi, matura il disegno di combattere quella forma di
violenza praticata dai tedeschi ma, alla fine riconosce di essersi
anche lui ubriacato di potere essendo diventato capo di una
formazione partigiana e, come coloro che combattono, anche
lui diventa duro, violento, inflessibile, calcolatore e privo di
umanità. È la guerra il motore di questo circolo vizioso che
coinvolge i nemici ignorando la pietà, anche se sperata.
Non solo l’ideologia del movimento partigiano emerge dal
racconto, ma anche il metodo di lotta, fatto di resistenza attiva
e sotterranea nei confronti del mondo fascista, adottandone in
parte lo spionaggio e il silenzio prudente. Mi torna alla mente il
famoso cartello fascista del “Taci, il nemico ti ascolta” adottato
anche dai partigiani nei confronti dei fascisti.
Sostanzialmente il partigiano assume gli stessi atteggiamenti
e le stesse movenze di lotta del malefico e aborrito nemico.
La terza cosa che mi ha colpito è la descrizione apocalittica
del bombardamento di Treviso da parte degli alleati, che nel
danno coinvolgeva fascisti e antifascisti nello stesso tempo.
Gli alleati cercarono di giustificarne l’evento per motivi di
eliminazione di obiettivi militari ma, in realtà la loro strategia
era quella di stancare la popolazione e indurla alla rivolta
contro il potere fascista. Una sorta di terrorismo capziosamente
camuffato da esigenze salutari e benefiche per l’umanità
coinvolta.
I bombardamenti a tappeto avvennero a Treviso, in Sicilia e
ovunque in Italia e in Germania senza alcun rispetto per la
popolazione civile. Le identiche scene di strazio e di dolore io
ricordo di aver visto a Castelvetrano, in Sicilia, dove mi
trovavo bambino insieme alla mia famiglia. Vi era in quella
cittadina un aeroporto militare, dove mio padre, sergente
maggiore del personale di terra dell’aviazione, faceva servizio.
Gli alleati non si limitarono a bombardare l’aeroporto, poiché
di volta in volta rovesciavano bombe a iosa pure su tutto il
paese distruggendo case, chiese strade senza alcuna distinzione
nella scelta degli obiettivi.
La quarta cosa che mi ha colpito è la sintonia tra questo tuo
lavoro e la mia filosofia di vita, che ho espresso nel titolo del
libro che hai avuto in dono da Vera Ambra: Tutto passa e
cambia.
In conclusione, nel tuo romanzo, passata la bufera della
guerra, tutto ritorna come prima, compresi i pettegolezzi, le
piccole cattiverie di ogni giorno, il trionfo del sentimento sulle
ideologie e lo stesso perdono occhieggia tra gli ultimi approcci
alla realtà. Tutto esattamente come nella mia raccolta di
racconti autobiografici, dove li distinguo in due settori: quello
della guerra e quello del dopoguerra. Nel primo racconto la
guerra vista con gli occhi del bambino che ero e nel secondo gli
episodi della vita che continua, scevra di odi repressi e volta
alla gioia di vivere cercando di mettere una pietra sul passato.
Ritengo che dopo tanto odio d’ambo le parti, non può non
emergere il bisogno del perdono per continuare a vivere e non
piombare nella disperazione. Questo mio pensiero, emerge
anche dalla mia poesia che qui di seguito trascrivo. Esso mi
sembra rispecchiato nella conclusione del tuo romanzo.
VENTICINQUE APRILE
Il ticchettar spasmodico e compatto
delle chiodate scarpe sul selciato
ormai non s’ode nella piazza antica
perché cessò la guerra ed ora pace
nel cielo aleggia rotta solamente
dal cicaleccio della gente in festa.
Non più di condannati i corpi esposti
al crepitare di spianati mitra
né sul balcone sventolante arcigna
la svastica signora della morte
ma solo il rintoccar dell’orologio
in cima al campanile della chiesa
circondato dal volo dei colombi
o dal notturno e silenzioso canto
delle candele accese per la pace.
La nube, stesa all’orizzonte, pare
Giuditta che conosce dove giace
la testa d’Oloferne, ma lo tace
sotto quel rosso lieve che traspare
per dire al mondo intero che la pace
è ritornata in terra e che l’oblio
già vinse la violenza del passato.
Non più quei corpi stesi sul selciato
nell’orrido scenario dell’eccidio
convien mostrare al vindice futuro,
ma del perdono sollevar la voce
fino a toccar le stelle e l’infinito
poiché non teme la giustizia il pianto
dell’uomo che perdona e in Dio confida.
Sei stata bravissima a gestire e curare gli aspetti di tutti i
personaggi nel groviglio di eventi veramente tremendi e anche
lontani dalla tua realtà. Io non ci sarei mai riuscito. Proprio per
questo mi piace scrivere, oltre alle poesie, dei racconti più o
meno brevi. Da questo punto di vista, forse sono un po’ pigro,
anche nel leggere. Cosa quest’ultima che facevo nei piccoli
intervalli che il lavoro mi concedeva.
Per quanto concerne lo stile, trovo abbastanza scorrevole e
incisivo il tuo modo di raccontare, che rifugge dalla ricerca di
espressioni retoriche con un approccio al linguaggio comune.
Mi piace il tuo ricorrere ai dialoghi diretti che favoriscono
l’immediatezza dei concetti espressi.
VOLEVO LA LUNA
di Franco Di Blasi
Ho finito di leggere il libro, che gentilmente Franco mi ha
inviato e che ho letto con molta attenzione. Mi sembra più che
doveroso esporre le mie considerazioni sull’opera.
Il libro, sostanzialmente, secondo la moda introdotta dal
decadentismo italiano, in cui sfociò il romanticismo prima di
approdare al neo realismo, attinge nell’autobiografia la sua
ispirazione., ma con diversi aspetti. Mentre, ad esempio,nel
famoso romanzo del Fogazzaro, Malombra, la vita dell’autore
descrittavi in penombra, è l’occasione per far emergere la
personalità di altri personaggi, come appunto la malefica donna
da lui amata, nel libro di Franco Di Blasi, tutte le figure che
ruotano intorno alla sua vita, sono degli orpelli, dei manichini,
spogliati in parte della loro personalità, tranne qualche
eccezione, introdotti nel libro al solo fine di dimostrare il
carattere e le finalità dell’autore, unico egocentrico monumento
di potenzialità … umane.
Le donne amate, tranne l’ultima, Anna, ma appena
larvatamente, sono quindi prive di sentimentalismo romantico,
tutte affogate nell’esternazione sessuale, che sembra loro più
congeniale.
Del resto il mondo descritto da Franco è quello dei figli dei
fiori, esploso negli anni sessanta, periodo in cui venne rivendicata
dalle donne la libertà sessuale, ignorando spiritualità connesse
ed è da questo mondo che l’autore si lascia investire ed è
in questo mondo che si tuffa senza remore e pregiudizi, peregrinando
da Roma, all’Elba, al Piemonte, alla Sicilia e al Trentino.
Un altro riferimento alla letteratura del passato è l’amoreodio
per “il selvaggio borgo natio”, argomento già toccato da
Leopardi. Ovviamente vi sono delle differenze. Recanati per il
mesto Giacomino, resta eternamente l’aborrito luogo dove è
nato ed è costretto a vivere, generando in lui quel pessimismo
metafisico che non riesce a superare, nonostante il progresso e
le soddisfazioni dei suoi studi sulle “sudate” carte.
Pedagaggi è per l’irruente Franco il luogo dove è nato, dal
quale vuole fuggire per raggiungere… la luna e, quindi un
luogo da odiare perché pesa come una grossa palla al piede, ma
nello stesso tempo motivo di nostalgia perché gli ricorda il
calore del desco familiare nei momenti di sosta nel volo
planetario che lo coinvolge e lo spinge verso l’edonismo più
sfrenato, simbolo di vita e d’ottimismo.
Ma parliamo adesso di questo volo, che ha per meta finale la
luna, ossia, il sogno di diventare un attore del cinema, le cui
immagini scorrono con dovizia di nomi di attori e immagini di
film, di cui si è lautamente infarcito.
La luna non verrà mai raggiunta, ma resta quell’ultima
speranza, che, non si sa mai, potrebbe sempre arrivare, anche
se, alla fine, la posizione raggiunta è quella mediocre del
ferroviere, intrapresa con l’adesione al genio militare delle FS.
Non è certo il massimo, ma è quanto basta per assicurare un
lavoro sicuro e una vita in parte serena, che altro non è, infine,
se non la massima aspirazione del padre, che per assicurargliela
voleva fare di lui un prosecutore della sua attività agreste.
Il volo verso la luna,dunque, cessa, con la discesa molle
sulla realtà della terra, che, tutto sommato, infine, può anche
essere soddisfacente.
Resta, infine, da evidenziare la figura e il ruolo della
famiglia, il cui rapporto trova dei veri momenti di trasporto
lirico, che contrasta con il crudo realismo sensuale delle varie
“cite”, descritto, secondo me, con un’enfasi eccessiva e ricca di
particolari che nuocciono alla fantasia, piuttosto che spronarla.
Descrivendo delle scene erotiche, secondo me, bisogna lasciare
più spazio all’immaginazione del lettore e meno alla
descrizione particolareggiata e dire quel tanto che basta per
accendere la lampadina del desiderio.
Il giudizio finale non può essere che positivo. Certamente
non siamo in presenza di Manzoni, Fogazzaro, Verga, Sciascia,
Camilleri e altri, ma non si sa mai! In effetti l’esposizione
scorre piacevolmente e si presta ad essere letta tutta d’un fiato
fino all’ultimo rigo.
SECONDO ME
di Sebastiano Ministeri
Carissimo Bastiano, debbo, innanzi tutto ringraziarti per
l’invito alla presentazione del tuo libro Secondo me in data 28
Dicembre 2019 presso i locali dell’AVIS di Scordia.
Un vero tuffo nel passato! Avrei voluto aggiungere, come
testimonio diretto della tua personalità, il mio contributo
d’affetto alle belle parole che i vari oratori hanno profuso nei
tuoi confronti, ma non ho osato non avendo avuto modo di
leggere prima il tuo libro.
La paura di sproloquiare a vanvera senza aver letto e
riflettuto sulle righe da te vergate e l’emozione che mi è salita
alla gola, mi hanno impedito di intervenire.
Adesso che ho letto il tutto, mi accingo ad esternare il mio
giudizio.
L’atmosfera che si è creata nel salone dell’AVIS è stata una
delle più belle e profondamente emotive, cui ho partecipato.
Dei presenti, all’infuori di te e del mio ex collega Nino Gualdo,
non ho avuto modo di conoscere, ma i cognomi (Centamore,
Gambera, Barchitta, ecc, ecc.) hanno suscitato in me dei ricordi
vivi che non possono essere dimenticati. Sicuramente si
trattava dei discendenti dei nostri comuni coetanei.
Noi due, per le varie circostanze che la vita ci ha offerto,
abbiamo avuto modo di condividere le nostre prime esperienze
giovanili a Scordia.
Come tu sicuramente ricordi, abitavo al casello ferroviario
del PL attiguo alla stazione FS di Scordia. Mio padre, reduce e
fortunatamente restato vivo dopo la guerra, venne assunto in
ferrovia e dovette però lasciare Catania e accettare di trasferirsi
nella tua città. Erano gli anni a cavallo del 1950.
Anche per me la vita non fu facile; primo di cinque figli, per
andare alla scuola media e al Liceo a Catania, mi alzavo alle
cinque del mattino per prendere il treno (di cui ricordo il nome
4900) e ritornare la sera con l’altro 4901 intorno alle 16,00. Per
fare i compiti di scuola dovevo usare il lume a petrolio, poiché
l’alloggio fornito dalle FS era sfornito di elettricità.
Ovviamente sono stato più fortunato di te, che nella
maledetta guerra hai perso il padre e per un tozzo di pane,
come tu dici, hai dovuto, a nove anni, andare a lavorare e
interrompere di andare a scuola.
Quello, dunque che accomunava me, te e i non dimenticati
Pippo Liggieri, Nino Giordano, Nino Azzarello, Centamore,
Castiglia, Meli e altri che in questo momento sfuggono al mio
ricordo, era il comune desiderio del riscatto della nostra vita
che trovò un punto di riferimento nella parrocchia di San
Giuseppe e nella persona del parroco Padre Maroncelli.
Anche se non è stato ricordato, fu quest’ultimo ad
inculcarci, oltre all’educazione cattolica, il seme dell’amore per
l’arte e per la vita.
Se ben ricordi fu lui, che in seno alle attività dell’Azione
Cattolica, ci avviò alla Filodrammatica. Ricordo le recite
presso il collegio del Convento e nei locali della parrocchia.
Fu lui il nostro primo maestro di vita, che ci spinse sull’erta
della risalita sociale. Allora era molto sentita la disparità tra le
classi ed Egli, da buon educatore e ottimo rappresentante della
Chiesa Cattolica, ci guidò con sicurezza facendo di noi degli
ottimi cittadini per il futuro.
Non ti nascondo che anch’io, come te, ho sentito il forte
squilibrio tra chi aveva forse troppo e chi nulla aveva. Voglio
dire che anch’io guardai con un certo interesse verso quel PCI
che ostacolava il percorso della DC, ma non cedetti alla lusinga
di esserne coinvolto per un semplice motivo di metodo.
Il PCI nell’evidenziare la disparità delle classi sociali in atto,
poneva come soluzione il metodo marxista della lotta di classe
senza quartiere e limite (la cosiddetta praxis). Proponeva la
distruzione del potere capitalista e della relativa classe con la
violenza e la rivoluzione, come quella bolscevica, per il trionfo
della classe lavoratrice e ottenere in tal modo la parità di tutti i
cittadini di fronte allo stato, diretto da una sola persona. Per me
questo significava ricadere in una forma simile al fascismo,
che, tra l’altro, vigeva in URSS con Stalin.
La DC e il mondo cattolico prospettavano una soluzione più
morbida che non poneva la violenza come metodo, ma l’amore
verso il prossimo, la spinta a compenetrarsi tra le esigenze
delle due classi, l’armonia tra capitale e lavoro, il giusto
riconoscimento dei diritti del lavoratore nei confronti
dell’imprenditore, la parità di diritti e doveri tra tutti i cittadini
nei confronti di uno stato retto democraticamente e che
escludesse l’assolutismo politico individuale.
Per questi motivi non ho mai aderito al PCI, anzi l’ho
ritenuto una piaga per l’umanità pari al Fascismo.
Il vero socialismo era quello della religione cristiana, basato
sull’amore e sulla reciproca comprensione e non sulla violenza.
Del resto i fatti mi dettero ragione. Il PCI si smembrò e venne
fuori il PSI di Nenni e poi il PSDI, tutti in disaccordo circa la
formula iniziale della lotta di classe. Alla fine scomparve quasi
del tutto con il compromesso storico voluto da Moro.
Io so per certo, caro Bastiano, che la tua adesione al PCI fu
del tutto formale e di protesta al lento percorso della ricostituzione
dell’ordine sociale, ma in effetti, tu sei rimasto sempre
nell’orbita dell’insegnamento del buon parroco Padre Maroncelli
e dei dettati della Rerum Novarum di Pio XII.
La prova evidente di quanto affermo è l’esempio della tua
vita, dedicata all’amore per la vita per la cultura, per la
famiglia e per la società. Nulla traspare dai tuoi elementi e atti
di convivenza sociale che possa assecondarsi a manifestazioni
di violenza o di insofferenza sociale tracimante nell’illecito.
Tu hai dato tutto te stesso al lavoro, al costante desiderio di
migliorare te, la tua famiglia e la società intorno a te.
Ti hanno chiamato maestro, pur avendo tu, come istruzione
la terza elementare, e hanno avuto ragione, poiché hai saputo
proporti come simbolo di comportamento del cittadino e come
esempio da seguire.
La tua grandezza non è nell’avere aderito al PCI, ma
nell’aver voluto fare tutte quelle cose che hai pensato di fare e
che le circostanze della vita te lo hanno impedito, nella bontà
dei tuoi propositi, nella caparbia volontà di migliorare te stesso
e la società e nell’essere riuscito ad imporre la tua personalità
nei confronti di altri più fortunati, ma meno efficienti.
A ben ragione, il tuo scagliarti contro personaggi politici
inconsistenti, impreparati, vuoti e volti al proprio interesse
personale ha il suo buon motivo di esistere. È di persone con il
tuo cipiglio e il tuo caparbio desiderio di emergere e migliorare
la società che ha di bisogno l’Italia nel frangente attuale.
Dopo essermi dilungato sulla fisionomia del personaggio
che tu rappresenti, degno, sicuramente, come qualcuno ha
detto, di meritare l’intestazione di una piazza o di una via di
Scordia col tuo nome, voglio spendere alcune considerazioni
sulla tua attività culturale, che si innesta con quella della tua
vita.
Indubbiamente l’attività teatrale ti ha dato una spinta nel tuo
percorso culturale e la faccenda non mi ha stupito perché ho
apprezzato queste tue qualità quando da ragazzi recitavamo
nella filodrammatica di Padre Maroncelli a San Giuseppe. Io
non avevo la tua stessa verve. Ero molto timido e l’apparire sul
palcoscenico mi turbava molto. Tu avevi una padronanza della
scena veramente superba.
Quello che mi ha veramente stupito è stata la tua attività
letterale, il tuo misurarti con un’arte che ha bisogno di un
substrato cognitivo e di informazione non indifferente. Ciò
significa che hai molto letto, conosciuto e appreso e che hai
acquisito una forma mentis culturale che molti giovani di oggi
non hanno, per il semplice motivo che non leggono e
apprendono notizie a sbalzo carpendole dal telefonino o dal
computer, senza maturarne il significato.
Tu hai letto e molti scrittori che neanche io mi sono mai
sognato di leggere perché fuori dal mio interesse culturale,
sono stati per te motivo di apprendimento e di riflessione.
Il fatto che tu possa incappare in qualche errore
grammaticale è del tutto spiegabile, comprensibile e anche
naturale per noi siciliani.
Prendi atto che il nostro dialetto è una lingua al pari di
quella italiana. Anzi secondo i glottologi la lingua italiana altro
non è se non il nostro parlare siciliano che si è evoluto con il
toscano di Dante. Ne consegue che quando noi siciliani
scriviamo in italiano risentiamo il nostro vecchio modo di
periodare. Devi sapere che, a scuola, nonostante ritenessi di
scrivere bene in italiano, il mio professore di letteratura
segnava in rosso alcuni tratti dei temi che generalmente
vengono fatti in classe, con la dicitura “costrutto dialettale”.
Per poter evitare questo giudizio ho dovuto fare i salti mortali a
furia di leggere sempre.
Adesso, che è tornato in auge il dialetto, per quanto mi
sforzi, non mi riesce sempre farlo nei lavori cui mi dedico per
hobby. Quindi, il tuo parlare parafrasando il siciliano è … di
moda! Non deve preoccuparti.
Dai tuoi scritti, emerge pertanto uno stile semplice, sciolto e
… veritiero, che dà pane al pane e vino al vino, senza tanti
fronzoli e ricercatezze di termini.
Mi piace il tuo ironizzare su alcuni aspetti della vita e …
della morte! Su alcuni libri di poesia che ti ho lasciato, sia in
dialetto che in italiano ne troverai riscontro. Come vedi, le fonti
della nostra cultura di base, quella popolare, è identica.
Anche io ho subìto il mio infarto, ma tanto tempo fa. Era il
1996, esattamente dopo circa otto mesi dalla quiescenza! Sono
passati 23 anni da allora ed io sono ancora qua! Quindi non
preoccuparti! “Ammucca” pillole, segui le istruzioni del
cardiologo e vedrai che andrà tutto bene.
Io spero che in futuro ci sentiremo. Ormai, da pensionato,
non inseguo più treni e faccio una vita più serena. Ti auguro un
felice Anno Nuovo.
MACERATA MAGLIANA
di Anna Pasquini
La sinossi allegata che anticipa il contenuto del breve
racconto di Anna Pasquini è esaustivo nel senso che descrive
esattamente ciò che l’autrice ha scritto: un tuffo nel passato di
una giovane donna la cui origine è legata al quartiere romano
della Magliana e alla provincia di Macerata, dove la famiglia
ha una seconda casa.
È però in questo viaggio a ritroso nel tempo che emergono
dall’attenta analisi descrittiva dell’autrice degli elementi
veramente degni di essere sottolineati.
Essi sono fondamentalmente due: il problema sociale che
investe la vita in determinati quartieri di periferia e l’umanità
che si manifesta in essi in modo indiscriminato evidenziando
lacune, risentimenti, desiderio e speranza di una vita migliore.
L’autrice si sofferma maggiormente su questo secondo
aspetto, quello umano, incidendo, quasi scolpendo con la penna
gli aspetti più amari e sensibili.
Se pensate che lei si sia soffermata a descrivere storie
strappalacrime d’amore non corrisposto o drammi della incomprensione
amatoria, oggi di moda, a condimento dei cosiddetti
femminicidi, vi sbagliate. L’argomento è molto più interno e
profondo e analizza i rapporti parentali di una famiglia tipo,
dove, oltre a sentimenti di dedizione e amore profondo,
esistono anche atteggiamenti di fredda convivenza dettati
dall’egoismo, dalla mania di superare gli altri, parenti o meno
che siano. Ecco, quindi spuntare alla ribalta la vecchia zia, che
nonostante qualche piccola passata manchevolezza su cui è
stato steso un velo di buon senso, viene sommersa da una
malattia che la rende non solo accetta, ma ricolma d’amore e
pietà Ma ecco che, quasi a fare da contraltare compare la figura
della cugina fredda, altezzosa, insensibile ai sentimenti di
affetto, tutta avvolta nel suo ruolo di superiorità basata su
pregiudizi e elementi i più discriminatori della società.
Esattamente come diceva Alberto Sordi in un famoso film: “Io
son io e voi non siete un cazzo”.
Già! Solo che a non esserlo non sono dei poveri villani
come nel film, ma i parenti più prossimi.
Altre figure non per niente trascurabili fanno da contorno in
tono minore, come la cugina maggiore che da mostra di se
giocherellando con i belletti dimostrando la fatuità della vita
che si manifesta anche all’interno della parentela.
Altre immagini sono degne di nota, come quella della
bambina che osservando la foto della madre sposa felice con
l’abito bianco, si rammarica di non essere stata presente, lei,
che è nata dopo.
Insomma è un mondo descritto minuziosamente e con molto
impegno dall’autrice, che denota, in senso forse autobiografico,
un attaccamento affettuoso alla folta parentela, non omettendo
di evidenziarne anche i difetti.
Il secondo aspetto è quello sociale che richiama alla mente
le implicanze psicologiche e del vivere sociale. Vivere in
periferia, ovvero, ai margini di una società più evoluta che
esiste nell’ambito di tutte le grandi città, crea un senso di
disagio nel soggetto che lo subisce. Il sentirsi inferiore quasi
per disgrazia ricevuta crea uno stato di infelicità perenne che lo
spinge ad auto commiserarsi senza porre alcun limite al proprio
disagio.
Quello che è ancor peggio è che tale atteggiamento spinge i
facinorosi ad assumere e far crescere quello stato di bullismo,
manifestato apertamente da alcuni in diverse occasioni, sfociando
in aperte manifestazioni di delinquenza endemica, che
condanna le periferie come zone a perdere della società e a
considerarne gli abitanti, senza alcuna discriminazione, gente
da buttare in galera o per lo meno da tenere a distanza. Si fa,
come suol dirsi, di ogni tipo d’erba, un solo fascio.
Purtroppo questa generalizzazione di pensiero non è valida
solamente per la Magliana di Roma, ma anche per i quartieri
spagnoli di Napoli, per i quartieri di San Cristoforo e Librino di
Catania, per la Ucciria di Palermo e tante altre periferie di altre
città.
Quello che scaturisce da questi due aspetti non è che uno
solo, larvatamente prospettato come speranza dall’autrice: il
superamento di questo stato di cose, ossia il recupero delle
periferie e, se non altro, il poter distinguere il buono dal
marcio.
Ovviamente l’autrice, nell’offrire questo suo lavoro alla
attenzione di chi legge, ha solo l’intenzione di evidenziarne gli
aspetti, senza volerne dare indicazioni di soluzione. È lontana
da lei l’idea di dare dei suggerimenti pratici che lascia come
tema da svolgere alle future generazioni. Il suo problema è solo
quello di illustrare la realtà come appare ai suoi occhi,
mostrando la modestia del suo pensiero, limitato al compito di
mostrare solamente. In tal senso le sue parole sciolte, senza
alcun ricorso a roboanti teorie o termini altisonanti, quali si
leggono nei discorsi di gente interessata alla politica, riesce nel
suo intento modesto, ma proficuo.
Una cosa che ho notata e mi fa piacere evidenziarla, è la
scioltezza dei periodi, brevi, corti, incisivi, senza orpelli e
intrusioni di termini dialettali tanto di moda in questo periodo.
Certamente ritengo sia un po’ arduo per un romano che si
cimenta nello scrivere non ricorrere a qualche intrusione di
termini dialettali, esattamente come per un siciliano. Non
nascondo che io cedo sempre a questa piccola civetteria. La
Pasquini non lo fa e acquisisce il merito di una universalità
geografica totale. Il suo linguaggio non è quello di Roma o di
Macerata, ma quello di puro italiano e di conseguenza il suo
pensiero non è discriminante. Pertanto quello che dice delle
suddette località è valido anche per altre della nostra Italia, a
volte così varia, regionale e distaccata dalle altre.
Mi auguro, pertanto, che chiunque legga il racconto in
questione sappia trarre insegnamento dalle basi prospettate
dall’autrice.
N.B.
Per quanto mi concerne non posso che prospettare che le
mie esperienze in proposito. Io sono nato in una zona di
Catania molto simile a quella della Magliana di Roma. Mi
riferisco al quartiere di San Cristoforo di Catania Mio nonno,
ex ferroviere, con i propri risparmi, aggiunti alla cosi detta
buonuscita, comprò una casa in quel quartiere, la quale dette
come bene dotale a mia madre. Fu da lui scelto quel quartiere
per il semplice motivo che, essendo in periferia, la casa, non
solo costava meno, ma aveva il vantaggio di trovarsi
vicinissima alla stazione ferroviaria di Catania Acquicella.
Cosa quest’ultima per lui importante perché gli consentiva di
poter agevolmente prendere il treno per recarsi a Lentini, suo
paese d’origine.
Io nacqui lì nel 1937 e per le note vicende belliche insieme
alla mia famiglia andammo via per ritornarvi a guerra conclusa.
Purtroppo la situazione era cambiata. Quella zona, da che
era tranquilla, dopo la guerra diventò turbolenta. Noi si viveva
lì ed io ho assistito a tutte quelle brutte vicende che ancora oggi
sussistono. Siamo andati via. I miei genitori non ci sono più le
mie sorelle si sono sposate e non vivono più là. Io pure sono
andato via. Solo ricordi
A vecchiaia inoltrata, alcuni degli gli ex allievi di Don
Bosco della locale Parrocchia della Madonna delle Salette, in
pieno centro del quartiere San Cristoforo, abbiamo avuto modo
di riunirci e durante una cena a Pedara, si parlò del quartiere.
Eravamo ormai affermati cittadini che avevamo subito la
diaspora da quel luogo e avevamo un certo ruolo nella città,
anzi nella nazione, per non dire nell’Europa. Eravamo una
diecina, qualcuno ex prof, io ex CS titolare di Catania C/le, un
altro capitano d’industria, un altro chirurgo, un altro
funzionario del comune…
Insomma gente che pur essendo nata a San Cristoforo ne era
ormai lontana e però ne sentiva la nostalgia e il disagio. Si
prese una decisione: quella di fare qualcosa per il quartiere,
magari appoggiandoci all’Istituto dei Salesiani. Si decise di
istituire una Società libera ONLUS allo scopo di dare un
orientamento di sviluppo culturale in pieno quartiere di San
Cristoforo.
I Salesiani ci misero a disposizione dei locali di loro
proprietà dandone donazione all’Associazione, approvando e
condividendo il nostro statuto. Quest’ultima si auto finanzia
con l’offerta spontanea dei soci e è ormai una realtà che opera
nell’ambito culturale e sociale: Preciso non opere di elemosina,
cui pensano i salesiani per loro conto. La nostra funzione è
quella di portare avanti i problemi del quartiere e di fare dei
seminari culturali nell’ambito scolastico, fornendo borse di
studio ai meno abbienti e roba del genere. Ovviamente non ci
occupiamo a dare “il panino salesiano”, ma di dare il massimo
supporto alle attività culturali e portare avanti i problemi del
quartiere. Siamo riusciti a convincere la Metropolitana della
necessità di poter far nascere nel quartiere una stazione, che è,
ormai nel progetto.
Chiaramente non ci occupiamo di questioni politiche, ma
semplicemente di finalità sociali, prospettando le soluzioni
adatte, senza alcuna volontà di imporle ad ogni costo. Che cosa
ci auguriamo e prospettiamo; la rinascita e la rieducazione del
quartiere. Nulla di più. Ognuno dei soci sborsa una certa quota
a seconda delle proprie possibilità senza trarne alcun vantaggio
personale.
Questa la mia, anzi la nostra esperienza nel quartiere di San
Cristoforo di Catania. Perché non far nascere qualcosa di simile
anche alla Magliana od altrove?
OLTRE LO SPECCHIO
La mannaia di Oilerua
di Alfredo Scaglia
Dopo aver letto il romanzo di Alfredo Scaglia, il cui titolo è
Oltre lo specchio, ho avuto la sensazione che l’autore trascinato
dalla foga di descrivere i suoi personaggi e di illustrare tutta la
vicenda da lui raccontata, ad un certo punto, spinto dalla
necessità di concludere il tutto, abbia deciso di far morire
repentinamente il personaggio principale inventandosi una
conclusione imprevista ed estemporanea, che lo traesse
dall’impaccio di dover continuare.
A questa sensazione ha contribuito la particolareggiata
descrizione dei personaggi tutti fin dall’inizio, costellata da
profonde riflessioni giuridiche, sanitarie familiari e sociali, che
mi lasciavano presagire una conclusione, anche semplicemente
pensata dal lettore, infarcita da considerazioni di tipo morale.
Infatti, tutto il romanzo, che trae l’inizio da una scena di
mala… animalità, apre uno scenario di umanità complessa e
intrigante dove i personaggi danno lo spunto all’autore di
evidenziarne le pecche più eclatanti in tutti i campi.
È così che dalle considerazioni sul trattamento degli animali
egli passa alla descrizione di fattori negativi nell’amministrazione
della giustizia, della politica, dello stesso “menage” familiare
e del comportamento degli uomini nei rapporti di ogni
giorno con i loro simili.
Dal personaggio del Professore Eugenio Calenda, muto
osservatore partecipe di tutta la vicenda, a quella del
protagonista Aurelio Fossali, detto Benito, dei suoi figli
Annibale e Candido e della moglie Viola, nonché di Tiberio
Lacroce, del Signor Cicca e di tutti gli altri minori, quale ad
esempio quella del panettiere, tutti descritti con dovizia di
particolarità morali e considerazioni obiettive dell’autore, si
coglie l’aspettativa che il romanzo potesse avere un altro
epilogo, dove le cattive azioni venissero punite e le buone
premiate. Invece tutto si conclude con la malattia improvvisa e
invalidante del protagonista e lo stesso specchio, presentato
come un muto osservatore e giudice della coscienza, diventa
improvvisamente una manifestazione della malattia, la prima,
che è di tipo mentale, ma sembra fornire l’alibi all’autore per
non continuare a scrivere.
Tuttavia, nella logica del “Tutto passa e cambia”, come da
me ribadito in un mio libro autobiografico dal titolo in
questione, il romanzo “Oltre lo specchio” di Alfredo Scaglia
una filosofia c’è l’ha.
Si tratta di una filosofia che affonda le sue radici nel mondo
dell’imprevedibile e dell’evoluzione muta e inconsapevole
dell’umanità, dove aspettative, agitazioni, interessi, aspirazioni,
disegni contorti od anche lineari riguardanti il futuro, possono
improvvisamente cessare perché non si sa mai quello che può
esserci dietro l’angolo.
È un po’ la filosofia del “Carpe diem”, senza la carica
edonistica attribuita all’espressione. Quasi il dire, con altre
parole, che al comportamento degli uomini nel presente, non
sempre corrisponde un futuro sperato.
Ed è così, che Aurelio Fossali, da uomo sicuro e sempre
attivo, cosciente, padrone della realtà che lo circondava,
improvvisamente resta in balia della sua malattia invalidante,
che le aspirazioni del figlio Annibale, naufragano miseramente
contro gli ostacoli della politica, che un matrimonio felice e
sicuro sfocia nella separazione e nel divorzio, che lo stesso
Lacroce, pur avendone motivo, rinunzia al suo risentimento e
che il prof Calenda alla fine non potrà portare a termine la sua
missione.
Siamo, in ogni caso lontani dall’ottimismo manzoniano,
secondo cui la provvidenza divina aggiusterà ogni cosa.
Aleggia piuttosto il pessimismo verghiano esteso su una realtà
che va per il proprio conto senza la speranza che qualcosa o
qualcuno dall’alto possa far andare le cose nel giusto verso.
Quanto potrà accadere è imprevedibile e casuale e inoltre non
coordinato da una causalità divina.
Qua e là occhieggia anche qualcosa di pirandelliano, come
ad esempio nella descrizione del carattere di Benito, votato a
rompere le scatole con un’interpretazione dei concetti sulla
giustizia, che ricordano tanto il “don Lollò” dello scrittore
siciliano.
Evidente inoltre appare la tendenza, rampante critica popolare
dei nostri tempi a manipolare e ad interessarsi di questioni
sociali, politiche e giuridiche che poco hanno a che fare con i
recenti avvenimenti vissuti dai nostri padri più prossimi. Tant’è
che Benito, proveniente da una cultura, dove chi comandava
aveva sempre ragione in maniera indiscussa, manifesta, dalla
sua posizione di pensionato, l’intenzione di manipolare la
giustizia ricorrendo a sotterfugi poco leciti, ma che hanno la
parvenza di legalità, come certa stampa dei nostri tempi.
Concludo, esaminando il linguaggio di tutta l’opera, che,
all’inizio, offre delle difficoltà a farsi seguire, per l’incedere
dell’autore in concetti piuttosto tecnici riguardanti la giustizia e
la politica, che si mischiano alla narrazione e che, in ogni caso,
evidenziano il grado di cultura e competenza dell’autore in
proposito. Ma col procedere della narrazione e l’intreccio dei
rapporti tra i personaggi, specie nelle questioni familiari, che
toccano sentimenti e affetti piuttosto sensibili, il periodare
scorre più veloce e intrigante, spingendo sempre più il lettore a
soddisfare la sua curiosità nella soluzione del significato di
quella parola OILERUA e a conoscere come si concluda tutta
la storia.
LE ROSSE PERGAMENE di ANNA MANNA
Il 5 Giugno u.s. si è concluso a Roma, presso la biblioteca
Treccani, il ciclo delle “Rosse Pergamene”, magistralmente
ideate e condotte dalla regia attenta e scrupolosa di Anna
*Manna, non solo delicata poetessa, ma coordinatrice e
conduttrice del corso moderno del sentire poetico, definito
“nuovo umanesimo”.
Pertanto le Rosse pergamene restano le cronache indiscusse
e durature di questo nuovo corso poetico.
Ometto di descriverne la cronaca già largamente illustrate e
documentate da eloquenti foto e resoconti, dove, purtroppo,
sono stato partecipante virtuale, non essendomi potuto rendere
realmente presente per circostanze non volute.
Ciò non mi ha impedito di seguire l’evolversi dell’evento,
che ho seguito con attenzione e di conoscere nuove persone e
figure di poeti e artisti, a me precedentemente ignoti, belle
immagini di un album da conservare con scrupolosa attenzione.
Ho inoltre scoperto l’esistenza di un vero “cenacolo” di
artisti e poeti che mi hanno richiamato alla memoria “i salotti
letterari” che fiorirono a Firenze, capitale del neonato Regno
d’Italia e successivamente a Roma, e che videro alla ribalta
poeti e scrittori dello spessore di Mario Rapisardi, Giovanni
Verga, Giosué Carducci, Gabriele D’Annunzio e altri.
Penso che nella storia della letteratura italiana, questo
evento troverà una nicchia di ricordi, dalla quale usciranno le
nuove figure di poeti e scrittori emergenti moderni.
Vedo all’orizzonte il profilarsi soprattutto di poetesse
veramente consistenti ed esaltanti, le quali, sicuramente in
futuro verranno ricordate, un vero plotone pronto all’assalto
della poesia e dell’arte.
Ho avuto l’opportunità di aver letto, ad esempio, la poesia di
Maria Buongiorno, dedicata alla sua terra d’origine, la
Calabria, meritevole di un’attenzione particolare.
Un vero inno di nostalgico amore per una terra, ricca di
eventi storici, dove, nonostante il rifiorire di civiltà passate,
ancora vive nell’immaginario comune, è stata resa schiava di
eventi ingrati.
La speranza di un futuro migliore emerge dai versi accorati
e dalle descrizioni georgiche del territorio, dove l’oro del grano
e il verde perduto dei boschi tratteggiano sentimenti di
profonda nostalgia.
La poetessa nel suo trasporto lirico, fatto di ricordi, non
omette il volo delle rondini che nidificano sotto le tegole rosse
dei tetti, contrastanti con il nero specioso di pece di tetti
cosparsi di smog, né lo sciorinare al vento e al sole di candidi
lenzuoli appena lavati e le frotte dei bimbi, che con essi si
confondono in mille giochi, né lo scrosciare dell’acqua della
vecchia fontana e la pula spumeggiante dalle trebbiatrici al
ritorno dai campi…
Una descrizione stupenda, che nulla ha da invidiare alla
descrizione leopardiana del “Sabato del villaggio”e che rende
più pregnante e vivo il sentimento nostalgico del posto dove
visse da bambina, abbandonata sul letto in preda a sogni più
grandi di lei.
Se a tutto questo si aggiunge una forma letteraria che
rifugge da rime e gabbie metriche dei versi, liberi e suadenti,
affidati al semplice effetto tonico delle parole, possiamo ben
dire che viene raggiunto un effetto lirico veramente
sorprendente.
Certamente non siamo ai livelli dello “Addio ai monti”di
manzoniana memoria, né della “pioggia nel pineto” del
D’annunzio, ma son certo che questa poetessa riuscirà in futuro
a raggiungere cime sempre più elevate di liricità.
Con questo esempio, chiudo la mia riflessione sull’evento
romano delle “Rosse Pergamene del nuovo umanesimo” di
Anna Manna, in attesa di nuovi eventi lanciati da colei che ho
definito, per il suo cipiglio deciso e la sua fervida attività, la
“leonessa di Roma”.
ancora un commento su “LE ROSSE PERGAMENE”
2018 di Anna Manna
Avendo ricevuto i ringraziamenti per il mio precedente
commento alla poesia, seconda classificata nella sezione
AMORE PER LA CALABRIA delle Rosse Pergamene, sia
dall’organizzatrice Anna Manna e sia dall’autrice Maria
Buongiorno, ho chiesto a quest’ultima di inviarmi il testo
dell’altra sua poesia premiata nella sezione AMORE PER
ROMA, per poterne meglio valutare la personalità.
Eccola qui, sotto i miei occhi. L’ho stampata sul cartaceo e
l’ho letta e riletta più di una volta, soffermandomi sulle parole,
sui versi e soprattutto sul contenuto della poesia, che oso
definire un vero poema, essendo completo di tutti gli elementi
validi per essere definito tale.
L’autrice nel comporla non ha scelto l’amore banale che può
avvenire in ogni singola città non solo italiana, ma mondiale,
tra un uomo e una donna, anche se ciò fosse anche previsto dal
regolamento.
Ella ha preferito l’argomento, più corposo, dell’Amore puro
per la città di Roma, in quanto tale, senza, pertanto, dare spazio
agli amorucci di contrada, i quali, anche se resi celebri dalle
stornellate romane e dalle canzoni famose, quali ad esempio
quelle cantate da Claudio Villa, restano un semplice e mero
argomento di comune accadimento.
Scelta difficile da realizzare, non solo per il complesso
aspetto storico e artistico della città, che comporta da parte del
poeta una visione più che erudita da poterne annullare e
inficiare l’impatto poetico, ma anche perché bisognava
misurarsi con dei “giganti” della poesia sull’argomento, di
livello non solo nazionale, ma mondiale.
Mi viene in mente Goethe e anche Giosuè Carducci, il
quale, nonostante la sua retorica, riesce ad infondere un lirismo
insuperabile in quella sua famosa poesia nell’annuale della
fondazione di Roma. Non so se ricordate… quella che inizia
“Te, redimito di fior purpurei april te vide … ecc., ecc.”
Un contenuto, quindi, non solo difficile dal punto di vista
poetico ma anche ambizioso e non poco. Non nascondo che
anch’io ho provato a misurarmi con questo argomento con ben
due poesie nella cosiddetta silloge, ma riconosco di non essere
riuscito nel mio intento. Troppo difficile, troppo complesso.
Non sono riuscito a trovare l’anello di congiunzione tra la
storia e la poesia, tra il reale passato e la fantasia creatrice.
Troppa erudizione descrittiva, ma senza l’ala della vena
poetica, nonostante il mio ricorso alla rigorosità metrica
dell’endecasillabo.
Ebbene, leggendo la poesia di Maria Buongiorno, ho
scoperto che ella è riuscita a trovare questo legame tra realtà
storica e fantasia poetica, con un espediente molto semplice,
simpatico, forse intuitivo, ma che ha l’effetto di una creazione
poetica stupenda, aiutata, tra l’altro, dalla visione fantasiosa su
muri sgretolati e ricchi di memoria di una lucertolina, che ne
addolcisce il contesto.
Ecco che appare, sullo scenario di colonne antiche, di ruderi
famosi, di archi statue corrose, di quell’amore, nudo in Grecia
e a Roma, come lo definì Carducci, la moderna Roma,
aggirarsi, negletta, sconsolata e obesa dai ricordi, su quanto è
stato distrutto e vilipeso non solo dal tempo, ma dall’incuria
umana.
Da questa visita fantastica della Roma di oggi alla Roma di
ieri, emerge un contrasto veramente stupendo che dà la
possibilità alla poetessa, di descrivere i vecchi cimeli
architettonici e storici della città con arguzia non retorica, ma
incisiva, e lo stupore commosso e non di maniera di se stessa in
altra veste.
Da questo contrasto emerge l’amore di Roma… per Roma.
Nessuna intrusione in questo rapporto d’amore, da parte di
terzi, che potrebbe suonare di sapore politico o strumentale,
leggermente sfiorato.
È Roma che piange se stessa. È Roma che commossa leva il
suo grido d’amore a se stessa. È Roma che, genuflessa su se
stessa si adora per la sua storia e per la sua grandezza.
“T’amo Dea Roma”, si sente echeggiare tra i versi semplici,
non ricercati, ma affidati al sentimento, anche se queste tre
parole non vengano mai usate esplicitamente.
È un’estatica contemplazione di se stessa nel divenire
ineluttabile del tempo, alla luce soffusa del ricordo permeato da
una mestizia accennata e superata dalla realtà storica della sua
palese eternità.
Tutta la poesia è compendiata nel contenuto poetico,
ingentilito da questa trovata intelligente e geniale.
La premiazione, da parte della Giuria, trova effettivamente
un giustificazione all’intraprendenza poetica e creativa della
poetessa, rapportandola a quella di altre composizioni
concorrenti che io sconosco e non sono in grado di valutare.
Spero che alla manifestazione faccia seguito la
pubblicazione di un’antologia, con almeno le poesie premiate e
i commenti della Giuria, per fissare nel tempo, l’importanza
delle Rosse Pergamene, così ricche di contenuti artistici e
creativi.
ALLA TAVOLA ROTONDA di ANNA MANNA
Non mi sono mai richiesto e pertanto nemmeno in
quest’anno, se scrivere poesie possa farmi ritenere fortunato o
meno. A pensarci bene, in occasione dell’attuale pandemia,
ritengo per me sia stata una fortuna perché mi ha permesso di
superare prono sulla scrivania momenti difficili e di
scoraggiamento.
Secondo me, chi legge le mie poesie e anche quelle degli
altri, lo fa per completare se stesso e soprattutto per scoprire se
i suoi sentimenti e i suoi pensieri trovano una risposta
nell’altrui pensiero. Diciamo pure che lo fa per completare se
stesso spiritualmente. Almeno io scrivo un po’ per mia
soddisfazione, ma soprattutto perché ritengo che chi mi legga
abbia modo di analizzare i suoi sentimenti in relazione alla
interpretazione che ne dà.
Farei senz’altro di più. I miei studi giovanili erano
indirizzati verso il settore scientifico e matematico, ma mi
sentivo portato verso lo studio delle lettere, al quale sono
approdato da dilettante e autodidatta.
Scrivo solamente per il piacere di scrivere, di raccontarmi,
di leggere dentro me stesso e per la sete di comunicare i miei
pensieri e le mie esperienze agli altri perché ne traggano motivi
di riflessione ed esperienza.
La memoria è fondamentale nella poesia, almeno per me,
poiché in essa appare lo specchio dei propri sentimenti, del
proprio modo di pensare e agire ed esaltano la gioia e il dolore
insite nell’animo umano.
La domanda non è nemmeno da porsi, poiché la poesia è
sempre esistita fin dai tempi più antichi e continuerà ad esistere
finché il genere umano vivrà. Nei geroglifici, nei manoscritti
antichi, nei testi religiosi di tutte le religioni antiche e presenti,
nei resoconti storici e finanche nei fatti di cronaca, serpeggia
l’alito della poesia in maniere diverse. Essa fa parte
dell’umanità. Quello che cambia in essa è la modalità
espressiva, che si evolve nel tempo. Potrà essere più o meno di
tonalità elaborata, oppure rimata oppure accompagnata dalla
musica, ma sarà sempre presente e costante nell’uomo.
Aggiungo pure che non solo l’umanità, ma la natura tutta è
espressione di poesia, anche nel silenzio delle immagini
nell’alito del vento e nel profumo dei fiori.
ANDANDO A TEATRO
PENSACI, GIACOMINO
È una novella del Pirandello, pubblicata nel lontano 1910, la
quale ebbe molto successo, poiché, per certi aspetti, metteva in
ombra l’etica clericale, in un periodo in cui il papato
evidenziava il suo dissenso nei confronti del novello stato
italiano, considerato un usurpatore dei suoi beni temporali.
Da questa novella ne nacque uno spettacolo teatrale in
vernacolo, fortemente voluto dall’attore catanese Angelo
Musco in tre atti.
Lo spettacolo in questione ebbe tanto successo che ne
comparve una traduzione in italiano, interpretato con successo
da artisti del livello di Sergio Tofano (STO)
L’argomento, particolarmente tratteggiato parla della storia
di un anziano professore, che rimasto vedovo, decide di
sposare una ragazzina per costringere lo stato a corrisponderle
la pensione di reperibilità per almeno una cinquantina d’anni
dopo la sua morte. La sua scelta cade su una giovane allieva,
rimasta incinta per il rapporto con un altro suo allievo.
Nonostante lo scandalo suscitato da questa vicenda, egli sposa
la giovane, che non solo mette al mondo un neonato, ma
ottiene di convivere con il ragazzo che ama, nella casa del
professore, ufficialmente suo marito. Questo che viene
considerato un “menage à trois”, ma che in effetti non è, suscita
lo scandalo e il dissenso etico sia da parte dei genitori della
stessa ragazza che da parte della famiglia del ragazzo.
Interviene il parroco che cerca di mettere ordine per convincere
il professore a cambiare indirizzo di comportamento, mentre
il ragazzo viene costretto ad abbandonare la madre di suo figlio
e a fidanzarsi con una ragazza di buona famiglia.. A questo
punto il professore, portando a casa del ragazzo il frutto del suo
amore, in una scena in cui viene evidenziata l’ipocrisia del parroco
e di una società formalista, riesce a ristabilire il rapporto
umano tra i due giovani.
La scena si conclude con la frase al parroco, che lo taccia di
non credere non solamente all’amore, ma nemmeno a Cristo.
Oggi forse la novella del Pirandello e la relativa commedia,
fanno un po’ sorridere, essendo stati superati molti tabù, ma
allora ebbe molto successo, poiché sbandierava un
comportamento poco umano e ipocrita delle istituzioni
religiose nei confronti dei sentimenti dell’onore e dell’amore,
di cui il novello stato si faceva paladino.
Inoltre, va ricordato che molto più tardi l’allora Governo
presieduto da Saragat, essendosi verificato nella realtà che,
effettivamente un pensionato, avendo sposato una ventenne era
morto appena qualche mese dopo, costringendo lo stato a
corrispondere alla giovane vedova la pensione di reperibilità a
vita, provvide a correggere la norma, stabilendo che la vedova
poteva accedere alla reversibilità della pensione solo dopo un
periodo di convivenza con il pensionato non inferiore ad un
congruo periodo.
Successivamente, pur ammettendo il diritto alla reversibilità
della pensione, un successivo governo ha condizionato
l’importo non più pari alla metà dell’importo della pensione del
coniuge, ma al rapporto inversamente proporzionale di tale
metà con gli scaglioni di reddito possedute dalla vedova. In
altri termini, si tende ad eliminarla del tutto.
UNA SERATA AL METROPOLITAN DI CATANIA
Con Tullio Solenghi e Massimo Lopez.
Una caratteristica del pubblico melomane e anche teatrale a
Catania è quella improntata ad una certo modo di pensare e
agire, che oserei definire molto corretto, specioso, educato e
esaustivo.
Se lo spettacolo piace ai convenuti, generalmente gente di
gusti artistici non certo grossolana che preferisce il
palcoscenico ad uno schermo cinematografico, tutti rimangono
composti ai loro posti applaudendo nei momenti giusti e
salutando gli attori con un lungo applauso finale.
Se lo spettacolo non piace per il modo di porgersi degli
attori o perché l’opera non soddisfa le aspettative, non volano
fischi e schiamazzi, ma a trionfare è il silenzio e …
l’abbandono alla chetichella dei posti in platea.
Quando alla fine si chiude il sipario, non si sentono applausi
perché la sala è … vuota.
Io ho un abbonamento per gli spettacoli di opera lirica al
teatro Massimo Bellini e uno per il Metropolitan per gli
spettacoli teatrali e in entrambi i locali ho notato questo tipo di
comportamento, che oso definire signorile e per certi versi
anche disarmante.
Ricordo che al Metropolitan alcuni anni fa ad un attore di
discreta fama e celebrità scappò una frase non tanto gradita al
pubblico che suonò come un rimprovero ai convenuti.
Non successe nulla di spiacevole, né alcuna reazione, ma il
silenzio regnò da quel momento in sala. La esibizione continuò
e man mano che la rappresentazione andava avanti, la gente,
alla chetichella con ordine e silenziosamente si allontanò
finché, alla fine il sipario si chiuse davanti ad una decina di
persone rimaste, che non applaudirono nemmeno.
Evidentemente fu un flop. Non credo che costui tornerà mai
più a Catania.
Ciò, chiaramente non è avvenuto qualche settimana fa ed
esattamente il 15 Dicembre 2018 al Metropolitan, dove ha
avuto luogo uno show interpretato da due sole persone: Tullio
Solenghi e Massimo Lopez.
Sinceramente, prendendo posto, ho pensato che sarebbe
stata una serata barbosa, da mettere nel dimenticatoio
certamente e che sarebbe stato meglio occupare il tempo
diversamente.
Mi son dovuto ricredere. Fin dalle prime battute ho trovato
lo spettacolo non solo interessante, ma divertente e
coinvolgente. Lo show consisteva nella imitazione verbale e
gestuale di una miriade di personaggi della canzone, dello
spettacolo, della politica e anche della religione.
Il tutto scorreva liscio, senza intoppi, con una classe
veramente signorile e lontano da volgarità cui qualcuno ricorre
a volte. Una satira, leggera, simpatica, senza contrasti di
pensiero e superficialmente condotta senza offendere i
personaggi e criticare l’eventuale loro ideologia, lasciata da
parte e nemmeno sfiorata.
Ho assistito allo scorrere di una miriade di personaggi che
ho conosciuto lungo la mia abbastanza lunga esistenza, che mi
hanno strappato il sorriso e mi hanno costretto più di una volta
ad accodarmi agli applausi del pubblico. Ho riascoltato voci a
me care di Pippo Baudo, Corrado, Alberto Sordi, il tenente
Sheridan, Modugno non escluse quelle di cantanti donne, come
ad esempio Patty Pravo e altre ancora, tutti imitati anche nelle
loro movenze, senza il ricorso a camuffamenti di trucco o
vestiti.
Quando è stata la volta dei politici, mi aspettavo che si
tradissero e che saltasse fuori qualche riferimento alle loro idee
e ad eventuali avversioni e invece nulla. Il tutto si è limitato ad
una mimica veramente esilarante, ma superficiale senza
scendere in profondità di pensieri o strategie. Una satira
veramente corretta e leggera, che non ha per nulla influito sulle
coscienze politiche degli astanti. Simpatica l’imitazione di
Berlusconi e di Di Pietro; quest’ultima veramente divertente e
interpretata dal Lopez in maniera veramente magistrale.
Quando si è passati alla satira religiosa e ho visto apparire
sulla scena il personaggio del papa emerito imitato dal
Solenghi e quello del papa regnante interpretato dal Lopez, mi
son detto: ci siamo vediamo che cosa ci scappa a sti due
adesso. Vuoi vedere che domani i giornali … Invece niente.
Tutto è filato liscio come l’olio. L’imitazione era formale e
accattivante anche nei giudizi nei confronti del malcostume
della società. Nulla che potesse nuocere all’eticità dei
personaggi, senza alcun riferimento alla situazione un poco
anomala rispetto a a quella tradizionale. Posso ben dire che il
tono ha assunto quello di esortazione al ben operare da parte di
entrambi i personaggi e che sia stato occasione di riflessione
religiosa per il pubblico. L’effetto proprio di una predica
piacevole e benevola da parte di entrambi i Papi.
Dire chi dei due sia stato più bravo non mi è concesso di
dire, poiché mi sono piaciuti entrambi e non solo a me, ma a
tutto il pubblico che ha seguito con attenzione sottolineando
con lunghi applausi le fasi più salienti. Se fossi costretto a dare
un voto darei un dieci e lode ad entrambi, poiché hanno operato
senza la necessità di effetti scenici particolari, semplicemente
puntando sulla loro bravura personale.
Se dovessi fare un confronto con altri imitatori, ad esempio,
con Alighiero Noschese, per quanto costui mi piacesse un
sacco, opterei per la bravura del duo Polenghi-Lopez per il
semplice fatto che loro sono riusciti ad ottenere degli effetti
veramente esilaranti, senza ricorrere al trucco ampiamente
usato dal Noschese e non solo per questo, ma anche per il fatto
che la satira di quest’ultimo era a volte un tantino velenosa,
mentre quella di Polenghi e Lopez no.
Se dovessero tornare a recitare a Catania, sarei ben lieto di
rivederli e insieme a me, anche il pubblico, forse nostalgico di
una satira piacevole e sorridente in contrasto con quella dei
nostri giorni feroce e offensiva.
LA CAPINERA
Ieri, 6 Dicembre 2019, al Teatro Massimo Bellini di Catania
vi è stata un’esplosione di catanesità assoluta. È andato in
scena per la prima volta il melodramma lirico di Gianni Bella,
Mogol e Ferretti, “La Capinera”
Catanese Gianni Bella, già noto cantautore e musicista
debuttante nella lirica; catanese il teatro che ricorda il celebre
Bellini; catanese l’ambiente presentato sul palcoscenico;
catanese lo spirito del Verga che aleggiava su tutta la vicenda
rappresentata; catanese il pubblico che alla fine ha applaudito
per 20 minuti sia l’opera che i cantanti, nonché lo stesso Gianni
Bella apparso sul palcoscenico.
L’opera si ispira al romanzo verghiano la storia di una
capinera e racconta il dramma di una giovane donna, costretta
dalle necessità della vita, a prendere il velo, nonostante quella
non fosse la sua vocazione
Il Verga finì di scrivere questo romanzo alla fine dell’anno
1869, ma venne pubblicato solamente nel 1871.
Il romanzo che seguiva il filone del languente romanticismo,
non trovò all’inizio molto successo, ma dopo l’esploit del
Verga, seguito alla rappresentazione dell’opera lirica “La
cavalleria rusticana”, ispirata al Mascagni da una sua novella,
fu notata dal pubblico e, parimenti al “Mastro Don
Gesualdo”,“I Malavoglia” e le altre novelle veriste, raggiunse
quel favore del pubblico che rese celebre il Verga.
La curiosità storica vuole che il Verga nello scrivere questo
romanzo si ispirasse ad un suo amore giovanile non realizzato
per una ragazza, conosciuta a Vizzini nel periodo del colera
negli anni 1854/55, una certa Rosalia, destinata per indigenza a
diventare suora. Ciò è quanto emerge da ricerche effettuate da
un biografo del Verga, ma la verità certa è che la scrittura di
questa sua opera, gli dette la scusa di frequentare con una certa
assiduità Giselda Foianesi, conosciuta a Firenze e trasferitasi a
Catania per insegnare in un convitto di novizie. Ciò, allo scopo
di acquisire modi di pensare e di fare delle novizie utili al suo
lavoro. Fra i due nacque del tenero, ma non approdò a nulla per
una certa avversione del Verga ad una situazione matrimoniale
stabile. Fu così che la Foianesi accettò la corte e la proposta di
matrimonio dell’illustre Professore Mario Rapisarda, titolare di
cattedra di Retorica all’Università di Catania. È storia accertata
che il matrimonio tra i due naufragò, poiché Verga fece da terzo
incomodo e che la Foianesi se ne tornò a Firenze senza marito
e… senza amante, disprezzata da entrambi.
In ogni caso, “la storia di una capinera”, è un documento
storico che evidenzia, la tendenza di quel periodo a ricorrere
alla monacazione dei meno abbienti, in genere contadini, per
sfuggire all’indigenza endemica della popolazione. Lo spettro
della “roba”, capo saldo del verismo, già aleggiava nella mente
del Verga. Era sotto i suoi occhi il verificarsi di vocazioni
sospette di preti e monache ai quali era da stimolo solamente la
fame o la fuga da una vita di stenti e miseria. Chissà, forse
anche lui avrebbe scelto quella via se costretto dall’indigenza.
Certamente egli, portato a godere i piaceri della vita e
dell’amore per le donne, notò il contrasto che sarebbe nato in
lui nel caso di una simile scelta.
Quindi, la storia di una capinera è sicuramente frutto non
solo del ricordo di un’ eventuale sua avventuretta giovanile o
del desiderio di esporre una realtà storica, ma di esternare una
sua sensazione personale di sgomento e di disagio d’innanzi ad
una sua eventuale scelta in proposito.
Un’altra considerazione che mi viene spontanea è, che se
Gianni Bella e Mogol sono al loro primo debutto nella lirica, il
Verga è pure al primo debutto in questo campo, dopo la sua
morte. Il primo battesimo lo ha avuto con “la cavalleria
rusticana, ma da vivo.
TEATRO GRECO TAORMINA
Sono riuscito per la prima volta nella mia vita ad assistere
ad uno spettacolo seduto sugli spalti del teatro greco di
Taormina, laddove gli antichi greci e anche quelli romani
hanno poggiato le loro tunicate chiappe per godersi gli
spettacoli. Mi sono emozionato, non lo nego, anche se
l’atmosfera è stata sicuramente diversa. Intanto gli spalti erano
occupati “a saltare” come previsto dalle norme anti-covid 19.
La gente non indossava la tunica, ma in compenso aveva la
maschera anti-virus. La scena era illuminata non dalle fumose
tede, ma da lampadine ad elettricità e poi lo spettacolo non era
una tragedia greca, ma il RIGOLETTO, la famosa opera lirica
dei nostri tempi e i musici non erano gli aedi, ma i musicanti
del Teatro Massimo Bellini. Non sono mancati gli applausi. Si
poteva accedere solo se in possesso di green-pass.
UNA SERATA AL MASSIMO BELLINI
Ieri 06 Marzo 2022, domenica, al Teatro Massimo Bellini
serata di recupero di spettacoli del passato periodo di chiusura
a causa della pandemia del Covid. È stato d’obbligo indossare
la mascherina ed esibire il Green Pass.
Dopo la lunga attesa per il controllo finalmente si è potuto
accedere ai posti previsti e ascoltare il programma: La
Cavalleria Rusticana e I Pagliacci. L’atmosfera è stata quella
di sempre, a parte le mascherine bianche sui musi degli
spettatori. Bellissime le scene, Bravi i cantanti, impeccabile
l’accompagnamento musicale
Nel seguire i due lavori, specialmente quello della
Cavalleria Rusticana mi è sorta una riflessione che mi appresto
ad esternare relativamente agli usi e costumi di allora e quelli
odierni. Il tema di sempre, molto sentito nella nostra società è
quello dei rapporti amorosi e relativi tradimenti, che forniscono
un alimento costante alle tragedie coniugali con risvolti letali,
ma diversamente espresse. Purtroppo in queste tragedie tra i
due coniugi vi è sempre un terzo incomodo che fa scoppiare
dei risvolti poco piacevoli che molte volte si concludono con la
uccisione di qualcuno. Appunto in questo “qualcuno”sta la
differenza tra allora e adesso.
Ai tempi del Verga, dalla cui novella è stata tratta la trama,
dal Mascagni, si interpretava la tragedia secondo un
canovaccio già sancito dalla Commedia Napoletana: “Issu, Issa
e u mal’homme”. (Lui, Lei e l’uomo cattivo). Secondo questo
tracciato, ce tendeva a difendere il rapporto coniugale ritenuto
sacro, a dover soccombere ed essere punito del tradimento
coniugale non era mai uno dei due coniugi per quanto
colpevoli, ma il “terzo incomodo” ossia l’uomo cattivo che
aveva osato spezzare l’idillio amoroso benedetto da Dio. Nel
caso specifico in questione, nonostante le malefatte di “Lola”,
moglie fedifraga e incostante, a pagare il fio della colpa è lo
sprovveduto “compare Turiddu” per mano del marito tradito
“compare Alfio”. Per quanto si possa considerare che tale
canovaccio venisse dettato dal bisogno sociale di difendere
l’istituzione del matrimonio, non è da sottacere la posizione di
protezione nei confronti della donna, come se fosse una
proprietà esclusiva del marito da non dover sciupare e
mantenere nonostante un suo cattivo comportamento.
Anche l’altra opera “I Pagliacci”, che tratta una storiella
d’amore e di corna, ad avere la peggio dallo sfascio del
matrimonio non è la donna, ma il marito, ossia l’elemento
maschile nei confronti del “terzo incomodo”, ossia l’amante.
Insomma, in entrambi i casi in questi tipi di tragedie
coniugali è sempre l’elemento maschile a dover farne le spese,
proprio per questo rapporto di sudditanza della donna nei
confronti dell’uomo, come se fosse un bene voluttuario da
dover proteggere in ogni caso.
Nei tipi di tragedie che invece avvengono nei nostri giorni, i
rapporti hanno altri risvolti. Nella maggior parte dei casi “il
terzo incomodo” e in genere l’elemento maschile riesce sempre
a farla franca e a pagare lo scotto è sempre la femmina. Tant’è
che è stato varato il termine di “femminicidio” in sostituzione
del classico uxoricidio. Questa diversa evoluzione della
tragedia coniugale nella realtà scaturisce dal fatto di attribuire
alla donna una personalità più autonoma rispetto al passato, la
quale tra l’altro è stata rivendicata da lei stessa in modo sempre
più eclatante. Il paradosso di questa nuova concezione tragica è
l’implicito riconoscimento della personalità della donna non
più considerata un bene di proprietà maschile da proteggere,
ma un elemento cosciente delle proprie responsabilità e di
essere punito in caso di cattivo operare. Insomma allo stato
attuale la donna non è più preda del “mal’homme”, ma un
essere umano cosciente di avere delle responsabilità e di dover
pagare di persona il fio di una sua eventuale colpa, secondo il
copione tradizionale di “occhio per occhio, dente per d
ente”,
molto negativo per lei la cui prestanza fisica difficilmente può
contrastare quella maschile.
A parte di codesta riflessione sul cambiamento del modo di
concepire le nuove tendenze sociali, è trascorsa una serata
domenicale tutto sommato piacevole e diversa dalle ultime di
questi due anni bruttissimi di pandemia.
I FIGLI DELLA SICILIA
ROSA BALISTRERI
Grazie a Vera Ambra, presidentessa dell’Associazione
Akkuaria, nonché editrice dell’omonima Casa, ho avuto modo
di conoscere e frequentare un personaggio del tutto particolare,
che, armata di chitarra, ama proporre le canzoni di Rosa
Balistreri, di cui ha anche scritto un libro “Cancia lu ventu”
(Cambia il vento), dove vengono riportate le composizioni
dialettali da lei cantate con la chitarra e avendo anche
compilato un CD in proposito.
Per quanto brava possa essere la mia amica Cinzia Sciuto, di
cui sto parlando, non è di lei che voglio evidenziare i meriti,
ma della Balistreri. A Cinzia resta il vanto di avermela fatta
conoscere attraverso le sue interpretazioni.
Ma chi era Rosa Balistreri? Una donna, certamente, ma
anche un’artista che grazie alla sua chitarra ha girato in lungo e
in largo su molti palcoscenici della nostra Italia, strimpellando
con la sua chitarra e cantando nella sua lingua ( che è anche la
mia) delle composizioni dialettali, ricche di pathos e immagini
di vita.
La Sicilia è ricca di menestrelli dialettali, che assumono il
nome di Cantastorie, ossia, quei popolari cantori delle vicende
umane che in palcoscenici di fortuna, accompagnandosi con la
chitarra, fanno conoscere al mondo che li circonda le loro
composizioni poetiche su vicende e fatti di cronaca eclatanti,
esattamente come avveniva nell’era romanza-provenzale agli
albori delle lingue neolatine con il liuto e le poesie d’amore.
Ma mai si era verificata l’evenienza che a fare questo lavoro
artistico in Sicilia fosse una donna, che fu capace di trasferire
questo tipo di manifestazione artistica dalle piazze ai
palcoscenici e di sostituire ai personaggi d’occasione la natura
stessa del mondo siciliano e il suo modo di essere.
Con lei appare nello scenario teatrale questo modo nuovo di
intendere l’arte del Cantastorie. È la Sicilia intera che canta la
sua malinconica storia, dove “l’acquazzina, la siminzina e la
rosa marina” assurgono al ruolo di personaggi maestosi e degni
di attenzione, quali eroiche manifestazioni di un mondo
sconosciuto, coperte da un velo, che lei riesce a strappare con
la forza delle sue note cadenzate dal peltro attraverso le corde
della sua chitarra.
Del resto il suo canto malinconico, la sua voce dolce e
rassegnata, le sue note inventate ad hoc, rispecchiano i dolori di
una vita vissuta sull’orlo del bisogno e della povertà al limite
della disperazione e della perdizione.
Ecco che qui entra in gioco l’opera di Cinzia Sciuto, la quale
riesce a far riemergere questi momenti drammatici della vita
della Balistreri e della sua costante lotta per non essere
sommersa dalle sue tristi vicissitudini.
Già, tristi vicissitudini! Poiché Rosa non ebbe una vita
serena da dedicare all’arte cui fin da bambina sembrava
destinata, sia per la mentalità di allora, sia per lo stato
d’indigenza in cui era nata.
Infatti ella venne al mondo nel 1927 nel profondo Sud della
Sicilia, a Licata, figlia di un modesto operaio lavoratore del
legno e di una castigatissima casalinga siciliana e faceva parte
di una famiglia composta da un fratello e altre sorelle il cui
livello culturale era quello del tempo, improntato alle norme
del tirare avanti per vivere.
Si tenga presente che tutta l’Italia, e non solo la Sicilia, si
dibatteva nella crisi economica dei postumi della prima guerra
mondiale e che il subentrato rivoluzionario periodo fascista,
dedito all’esaltazione dell’ italico nazionalismo autarchico,
dava poco spazio alle aspirazioni di crescita artistica, in modo
particolare alle donne, relegate al ruolo di fattrici d’eroici
virgulti. Inoltre, a venti anni, Rosa Balistreri si trovò ad
affrontare un’altra crisi altrettanto tremenda, quale quella della
seconda guerra mondiale, dove l’unico spazio era quello di
sopravvivere al disastro e trovare qualcosa da mettere sotto i
denti.
Eppure Rosa, fin da bambina, aveva una voce che si
prestava al canto, ma non poteva essere curata per le avverse
circostanze.
Come tutte le ragazze dell’epoca, ella fu destinata ad una
vita da casalinga al seguito di un marito che badasse alle sue
necessità e a quelle di tutta la famiglia e un marito, in effetti, le
venne procurato attraverso un “matrimonio portato”
(combinato).
Lo sposo predestinato fu un tale, chiamato Jachinazzu (il
rozzo contadino Gioacchino Torregrossa), che, purtroppo, non
risultò essere persona a modo. Infatti aveva il vizio del bere e
del gioco e non esitò a dilapidare tutti i beni che la famiglia di
origine le aveva dato in dote. Egli arrivò al punto di giocarsi
anche i soldi destinati al futuro corredo della figlia Angela, che
intanto era nata.
Era quella l’usanza del tempo di accumulare, fin dalla
nascita di una figlia femmina, dei soldi per l’indispensabile
corredo per il matrimonio, cui era destinata. Più ricco era il
corredo, più possibilità aveva la neonata di trovare un buon
partito. Il famoso assioma della “roba”, che il Verga aveva
evidenziato in altri tempi era sempre valido e vigente,
nonostante, anzi grazie, allo stato di bisogno del dopoguerra.
Al colmo della disperazione, durante una ennesima lite, che
ebbe come esito la peggio per il marito, al punto di crederlo
morto, si costituì ai carabinieri, che l’arrestarono. Per fortuna
sua e del marito, quest’ultimo non morì e Rosa venne
scarcerata con la condizionale.
Ovviamente fu la fine del matrimonio, ovvero, della
convivenza, poiché allora non esisteva il divorzio, ma la
semplice separazione legale.
Per allevare la figlia, che manteneva in collegio, fu costretta
a ad andare a lavorare abbracciando tutti i mestieri, anche i più
umili, quali la raccolta delle olive e delle mandorle in
campagna, nonché la conservazione delle acciughe, l’ andare a
servizio presso famiglie abbienti e quant’altro era in grado di
fare. Infine trovò una sistemazione quasi stabile a servizio
presso una famiglia benestante, ma ecco che venne accusata di
furto, quasi certamente perpetrato per lo stato di necessità in
cui versava.
Venne arrestata e, scontata la pena, si trasferì a Licata a
Palermo dove, per intercessione di un benefattore, trovò lavoro
come custode e sagrestana presso la chiesa di Santa Maria degli
Agonizzanti. Ma il suo soggiorno nel capoluogo siciliano non
le fu certamente favorevole. Essendo morto il vecchio parroco,
il nuovo sacerdote pare che non la trattasse in maniera del tutto
ortodossa, per cui, insieme al fratello, calzolaio, dopo aver
rubato la cassetta delle elemosine, fuggì da Palermo alla volta
di Firenze, dove visse fino al 1971, per poi ritornare, dopo
dodici anni, nella sua Palermo, dove continuò e consolidò la
sua attività artistica. Fu durante questo periodo che avvennero
altri fatti tremendi che forgiarono il carattere di Rosa.
Visse per un buon periodo con il fratello, che, mise su un
laboratorio di calzoleria e ospitò lei e le altre due sorelle Maria
e Mariannina. Avvenne, poi, che una delle due, Maria, fuggita
dal marito violento insieme ai figli, venne da quest’ultimo
uccisa. Il loro padre, al colmo della disperazione e del dolore,
si impiccò e avvenne pure che Rosa, alla fine conobbe il pittore
Manfredi Lombardi con il quale andò a convivere e che la
introdusse nel mondo degli artisti.
Dice un proverbio antico siciliano a proposito delle donne
che “l’uomo che ti piglia ti pinge e ti dipinge”. Grazie a lui,
infatti, e alle sue doti artistiche, venne introdotta nel mondo
artistico e conobbe personaggi del calibro di Dario Fo, Ignazio
Buttitta e Mario De Micheli, i quali la spinsero ad
intraprendere l’attività artistica a lei congeniale, quella del
cantastorie, utilizzando quel suo spontaneo dialetto in versi e la
sua chitarra.
Finita la relazione con il pittore Manfredi Lombardi, che
l’abbandonò per una modella più giovane di lei, decise,
incassando anche questo dispiacere, di andare a vivere a
Palermo con sua figlia, che, intanto aveva lasciato il collegio e
… era incinta, proseguendo nella sua attività artistica, che la
portò sulla cresta dell’onda e alla notorietà, anche perché dal
1976 si accompagnò con il compositore musicista Mario
Modestini, che dette ordine alle poesie da lei interpretate,
scrivendone le musiche adattate al suo talento.
Ed è cosi che ancora oggi, intellettuali che con lei hanno
collaborato, quali Andrea Camilleri, Leo Gullotta, Otello
Profazio, Gianni Belfiore, la ricordano occupandosi della sua
opera.
Ella morì nel 1990, a soli 63 anni, vittima del suo immenso
travaglio, a Palermo, dove trovò la verve e l’ispirazione per la
sua attività di cantastorie e poetessa vocale del popolo.
Indubbiamente Rosa Balistreri è una pietra miliare
dell’essere donna del mondo artistico moderno, poiché
racchiude nel suo personaggio tutti gli elementi emergenti del
folklore che diventa arte e del caparbio voler superare non solo
le ambasce della vita, ma anche i soprusi di un mondo tutto
votato al maschile, oltre che lo specchio riflettente delle virtù
proprie dell’essere donna.
Nata e vissuta in un ambiente decisamente ostile, priva di
una istruzione adeguata e di mezzi per condurre una vita
serena, seppe reagire ribellandosi alle angherie del marito e
nonostante fosse piombata nel disonore del carcere e sommersa
dalle negatività della vita, seppe risollevarsi con la caparbia
volontà delle donne, fino a raggiungere l’apice del trionfo.
Oggi, in un periodo in cui ormai la donna, dopo il 1968, ha
iniziato ad intraprendere un ruolo di competizione nei confronti
degli uomini, ella appare come una guerriera in prima linea a
combattere contro ogni avversità e angheria.
Un esempio dell’essere donna della nostra futura Europa,
proiettata verso l’eguaglianza tra i due sessi, senza, per altro,
scagliarsi infine, come fece nella prima gioventù, contro il
mondo maschile, ma attingendo nel suo intimo la forza
dell’arte, della poesia e della musica, nell’imitarlo e utilizzarlo
per il suo trionfo artistico personale.
Oggi, infatti, parlando di Rosa, ci si dimentica quanto di
brutto ella abbia potuto fare, del suo tentato omicidio, dei suoi
furti e del carcere subito, ascoltando le sue malinconiche
canzoni, che si possono gustare attraverso i dischi da lei incisi
al suono della sua chitarra.
Mi auguro che la mia amica Cinzia Sciuto, siciliana come
lei e animata di un particolare talento a lei similare, con la sua
voce e la sua chitarra, riesca sempre di più a svelare le cime
nascoste della personalità di Rosa ancora non emerse,
proiettando sempre di più nel mondo europeo la cultura e la
gioia di vivere della mia terra.
GIUSEPPE PITRÈ
“Pi’ casu Vossia è chiddu ca scrivi favuli pe’ picciiriddi?” Si
sentì dire Giuseppe Pitré dal contadino che lo aveva chiamato
per visitare la sua bambina in preda ad una febbre improvvisa
manifestatasi durante la notte.
“No. Io sono il medico Giuseppe Pitré. L’altro che avete
detto è un’altra persona. Uno che ha il mio stesso nome e
cognome.” – rispose, mentendo, il solerte dottore, togliendosi
dalle orecchie l’auricolare con il quale aveva visitato la bimba.
In verità egli e il favolista erano la stessa persona, ma ci teneva
a dire sempre che non lo era, poiché distingueva tra le sue due
professionalità. Di buon mattino impiegava le prime ore del
giorno allo studio delle lettere, scrivendo racconti per i bambini
traendoli dalla sua cultura siciliana, Dopo una certa ora si
dedicava invece al suo lavoro di medico. Era come se in lui
effettivamente convivessero il letterato e il medico, ma in fasi
differenti e in modo che le due attività non si intralciassero a
vicenda.
Ma chi era in effetti Giuseppe Pitré? Alla luce di quanto
riportato da Internet, era uno dei tanti figli di questa nostra
Sicilia che si distinse nel mondo letterario e culturale. Egli
nacque nel quartiere di Santa Lucia a Palermo da una modesta
famiglia di pescatori il 22 Dicembre 1941. Rimasto orfano di
padre, morto di pellagra nel 1847 in America, dove si trovava
imbarcato, fu educato dalla madre con grandi sacrifici. Grazie
anche alla generosità dei Gesuiti, cui venne affidata la sua
educazione culturale, egli coltivò lo studio del latino e della
storia della sua terra. Notò la sostanziale differenza tra la lingua
italiana, che egli era costretto ad usare e il suo modo di parlare
prettamente dialettale. Lo appassionò, quindi, fin da piccolo
questa differenza linguistica, cercando di individuarne i motivi.
Grazie alla sua costante applicazione e alla conoscenza di usi e
costumi della sua città, concepì che il dialetto siciliano altro
non fosse, se non una lingua neolatina parallela a quella
italiana. Scoprì la connessione tra il latino e il siciliano e pensò,
sulla falsariga di quanto appreso della Scuola Siciliana di
Federico II di Svevia, di evidenziare le regole di mutazione
fonetica del siciliano dalla lingua madre latina, senza dover
passare attraverso l’italiano. Praticamente, concepì il siciliano,
una lingua a se stante rispetto all’italiano. Pertanto cercò di
individuarne l’essenza, scrivendo una grammatica vera e
propria della lingua siciliana, scevra dal parallelismo
linguistico dall’italiano. Fu facile, quindi, per il Pitré fare ciò,
grazie alla sua conoscenza, che oso definire naturale, scivolare
nello studio particolare dei modi espressivi dei suoi
concittadini. Non solo studioso di lingua siciliana fu il Pitré,
ma anche profondo e attento scrittore degli usi e costumi del
suo tempo e si accorse così della diversità dei dialetti siciliani a
seconda delle località. Notò la mollezza del dialetto
palermitano e ad oriente della Sicilia e d il tono quasi musicale
di quello occidentale, caratteristico del mondo greco.
Giovanissimo, si arruolò nelle truppe garibaldine, giunte in
Sicilia nel 1860.
Nonostante la sua attività militare momentanea, non trascurò
non solo lo studio delle lettere, ma nemmeno quella
dell’istruzione universitaria nel campo sanitario.
Nel 1865 si laureò in medicina e chirurgia, diventando
medico. Fu questa la sua attività che gli consentì di vivere e
inserirsi nella società in modo produttivo, ma il Dottor Pitré
non dimenticò le lettere che gli avevano permesso tanto
successo nella vita e continuò imperterrito ad approfondire la
sua cultura letteraria. Pertanto, prima che medico, fu anche
insegnante di lettere e Filosofia nel liceo della sua città. Il suo
pregio consisteva nel distinguere le due attività, nelle quali
eccelse con pari fortuna.
Ottimo medico fu dunque, come la tradizione ce lo mostra e
ottimo letterato come la sua produzione letteraria ce lo porge
superbamente impegnato a scoprire i significati profondi del
suo dialetto e l’origine etimologica e fonetica di molti vocaboli
dialettali.
Per mia fortuna, ho avuto modo di conoscere il Pitré
attraverso un opuscolo da lui scritto con l’intento di dettare le
regole grammaticali del dialetto siciliano attingendo le notizie
relative ai termini latini. Un’opera certosina e scrupolosa di
ricerca degna di molto riguardo e di vero accademico.
Ovviamente per chi non conosce i rudimenti della lingua latina
non può recepire in pieno il lavoro del Pitré; tuttavia avrà modo
di rendersi conto del significato esplicito di alcuni termini e
della profonda conoscenza del folklore siciliano, che è alla base
del suo operare. Non solo questo, ma anche della giusta
valutazione di molti poeti dialettali siciliani che per parecchio
tempo sono rimasti nell’ombra. Mi riferisco, in particolare, al
Martoglio e a Domenico Tempio. Specialmente in quest’ultimo
risulta evidente la connessione tra dialetto catanese e lingua
latina. Oserei dire che quasi, quasi è più semplice tradurre in
latino piuttosto che in italiano, le poesie dialettali del Tempio.
Non a caso quest’ultimo ha ricevuto la stessa base culturale
d’apprendimento del Pitré. Entrambi ricevettero l’influsso del
latino attraverso Santa Madre Chiesa, rappresentata dai Gesuiti
nell’uno e dal Monastero nell’altro. Per quanto non sia tanto
noto, il Tempio studiò in gioventù per diventare prete.
Ovviamente il rigore scientifico, legato alla conoscenza del
latino rende un poco ostico il contenuto dell’opuscolo in
questione, poiché non tutti conoscono questa antica lingua
madre. Tuttavia aiuta a comprendere il significato di molti
termini siciliani e la loro origine, non sempre legata ai
successivi idiomi scaturiti dall’occupazione di altre
popolazioni. Dal momento che anche la lingua italiana è legata
al latino, l’opera del Pitré risulta molto utile, anche se non
risolutiva al livello popolano. È da dire che il Pitré era assillato
dal cruccio di voler dimostrare che il siciliano non era una
deformazione della lingua italiana, ma un diverso modo di
evoluzione linguistico parallelo ad essa. In effetti dice una cosa
vera e certamente non confutabile. Però, ai fini utili, chi parla
già l’italiano ha necessità di far riferimento alla sua lingua per
comprendere alcuni termini e modi di dire siciliani. In parole
povere, non si può praticamente tradurre un concetto
dall’italiano al siciliano attraverso il latino, ormai desueto e da
molti non più conosciuto. Necessita, quindi di un rapporto
immediato e più diretto ai fini della comprensione perfetta. In
ultima analisi, bisogna conoscere le regole grammaticali del
comune modo di esprimersi di entrambe le lingue. Esattamente
come avviene tra l’italiano e il francese o l’inglese o qualunque
altra lingua. Da questo punto di vista l’opera del Pitré
sembrerebbe inutile e superflua, ma non è così poiché il suo
studio nelle mani di uno studioso di lettere attento riesce ad
indirizzarlo nella traccia di un piano di intendimento universale
applicabile in ogni caso tra il siciliano e qualunque altra lingua.
Proprio per questo il Pitré è famoso. Grazie al suo continuo
riferimento del siciliano al latino, riesce ad eliminare accenti,
apostrofi e quant’altro nella scrittura dialettale, rendendola più
comprensibile e immediata nella rappresentazione delle
immagini e, quindi, più facile ad essere tradotta in altri
linguaggi. Seguendo il tracciato del suo studio letterario, sono
nati dei dizionari e delle regole grammaticali siciliane che
consentono il rapporto con altri linguaggi di facile
consultazione e uso.
Purtroppo, non esiste una vera storia di letteratura dialettale,
che è rimasta, come suol dirsi, al palo. Ciò per la sua
caratteristica prettamente popolare e finalizzata soltanto a poter
dialogare tra conterranei. Tuttavia c’è nel dialetto l’elemento
poetico che emerge e che sembra standardizzato senza seguire i
canoni che invece caratterizzano le varie lingue, non solo
parlate, ma studiate e migliorate. Così accade che un poeta
siciliano, pur scrivendo e recitando poesie nel suo dialetto,
quando si tratta di dover esplicitare dei concetti del suo
pensiero in prosa, utilizzi l’italiano. Accade pure che le sue
poesie in siciliano non seguano gli indirizzi storici, che
emergono periodicamente e assumano una forma sempre
uguale, caratterizzata dalla rima che può essere alternata e dal
classico sonetto d’antica memoria. In particolare, per il poeta
siciliano la rima è sacra! Ed anche il popolo che ama la poesia
siciliana, la pretende espressa in rima e non la considera tale
senza di essa. Per quanto mi concerne, dal momento che
anch’io scrivo poesie in dialetto, oltre che in italiano, ho
pensato di superare tale forma, ricorrendo sovente
all’endecasillabo sciolto, magari alternato con settenari,
esattamente come faceva il Leopardi, mettendo in atto una
maggiore attenzione nel rispetto degli accenti tonici, ossia della
metrica, anch’essa derivata dal mondo latino. In molti casi mi
sembra che l’esperimento sia riuscito abbastanza bene, anche
se qualcuno non è per niente d’accordo, legato alla rima nella
poesia siciliana.
A conclusione di questo mio dissertare sul dialetto siciliano,
è da dire che a livello popolare la poesia gode ottima salute,
così come viene espressa, ossia usando la rima, anche se gli
argomenti molte volte non sono proprio poetici. La stessa cosa
non possiamo dire della prosa. Il siciliano scrive in italiano,
anche se pieno di errori grammaticali, ma nel parlare e nel
dialogare stenta ad usarlo. Preferisce esprimersi in dialetto e se
cerca di mostrare una certa talentuosità sfoggiando un italiano
contorto e infarcito di espressioni tipiche dialettali, ne vien
fuori una specie di fiume, dove prende quota un italiano
maccheronico, misto a sicilianismi, che trova anche fortuna
artistica nel campo teatrale. Usando questo modo di esprimersi
alcuni attori siciliani hanno raggiunto la celebrità, facendosi
nello stesso tempo portavoci del dialetto siciliano, rendendolo
comprensibile anche agli spettatori che siciliani non sono. Cito
fra questi il mai dimenticato Angelo Musco e ancora, Turi
Ferro, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, nonché Gilberto
Idonea, Lando Buzzanca Tiberio Murgia. Pino Caruso, Leo
Gullotta, Nino Frassica, Pattavina e altri ancora sulla breccia.
Non bisogna dimenticare inoltre quanti dal mondo dialettale
siciliano, pur scrivendo in italiano hanno tratto gli spunti per
raggiungere la celebrità. Anche qui mi piace citare tra tutti il
Verga, Nino Martoglio, Pirandello, nonché Bufalino, Sciascia e
non ultimo Camilleri con le sue vicende poliziesche risolte dal
commissario Montalbano.
Insomma, in questo campo, il dialetto ha fatto sfoggio di
preziosismi linguistici più che apprezzabili e tali da trovare
un’icona nel mondo artistico-letterale italico.
Sostanzialmente, ho parlato del dialetto siciliano
riferendomi alla nostra realtà di Italiani e quindi delle
connessioni con il linguaggio italiano. Trova inoltre molto
interesse anche linguistico il linguaggio che scaturisce dal
contatto con la lingua inglese, adottata dai nostri emigranti in
America. È un misto di italiano, siciliano e inglese che è anche
possibile notare nelle loro lettere epistolari ai congiunti In una
di queste lettere, ad esempio, un emigrato informava la moglie
di aver trovato a Nuova Yorka lu jobbu (il lavoro) che aveva
problemi, però, per accucchiare i dollari, che poi sono le lire,
che non poteva mandare. Lì, nella terra lontana dalla Sicilia, il
dialetto a poco a poco muore e i figli degli emigrati
apprendono l’inglese e raramente ricordano qualche parola
appresa dai loro genitori. Non ricordo chi lo abbia detto, ma
proprio questa mescolanza di termini di diversa origine, tende
ad un linguaggio, che, ipoteticamente, sarà comune agli uomini
tutti di diversa nazionalità ed etnia. Qualcuno che ha inteso
anticipare i tempi ha tirato fuori una lingua comprensibile a
tutti dandogli anche un nome: l’esperanto. Ma da quanto mi
risulta l’esperimento non ha avuto fino adesso buon esito.
Tuttavia son convinto che alla fine, ciò avverrà, ma quando
solo Dio lo sa!
TOMMASO CAMPAILLA
Dopo aver letto questo cognome, Campailla, nel Gruppo “I
fan di Pippo” di FB, mi sono arrovellato il cervello perché ero
certo di averlo sentito in altre occasioni. Ma dove? In che
occasione? Alla fine ho ricordato: fu visitando Modica in veste
di turista che sono venuto a conoscenza di Tommaso
Campailla. All’ingresso della Chiesa di San Giorgio, vi è una
lapide che ricorda questo illustre patrizio di Modica, ìl quale,
dopo la sua morte, venne sepolto ai piedi dell’altare maggiore
del tempio, assurto a Duomo della cittadina siciliana.
Ma chi era Tommaso Campailla per aver avuto tanto
riguardo e tanto onore da parte dei suoi concittadini? Egli fu
uno studioso, un poeta, un letterato di rilevante importanza,
nonché un filosofo e un medico che lasciò la sua impronta
anche nel campo della ricerca scientifica. Egli nacque a Modica
il 6 Aprile del 1668, in una via alla base della rupe dove sorge
il Castello, da una famiglia patrizia di Modica. A causa del suo
precario stato di salute, venne dal padre fatto crescere in
campagna nella speranza di irrobustirlo al contatto con la
natura. Tuttavia il padre curò che il suo figliolo venisse educato
nello studio e infine, nel 1684 lo fece trasferire a Catania per
conseguire la laurea in giurisprudenza, forse mai ottenuta,
poiché sopravvenuta la morte del genitore, ritornò a Modica
vivendo di rendita, avendo ereditato una cospicua posizione
economica. Da Modica non si mosse più, nemmeno per recarsi
a Palermo, previo invito, per l’incoronazione di Vittorio
Amedeo II di Savoia, allora re di Piemonte e Sicilia. (Solo
dopo, i Savoia preferirono cedere la Sicilia in cambio della
Sardegna.) Tuttavia continuò ad occuparsi dei suoi studi, che
toccavano un po’ tutto lo scibile d’allora, raggiungendo una
certa fama che lo rese celebre nel mondo. Da questo punto di
vista, cioè, per il vasto campo di interessi di cui si occupò, lo si
può annoverare tra gli spiriti eclettici di quel periodo, alla pari
con Galileo Galilei, Leonardo da Vinci e altri illustri letteratiscienziati.
Allora la cultura era ancora basata sulla famosa
distinzione del trivio e del quadrivio di dantesca memoria, ma
molti scrittori e letterati si occupavano di entrambi i rami,
sicché erano contemporaneamente letterati e scienziati. Scrisse
dei poemi storici sulla falsariga di altri suoi contemporanei, fu
un fine poeta, ma si occupò di filosofia studiando il pensiero di
Cartesio, alla cui corrente riteneva di appartenere e anche
geografia, nonché sismologia, avendo vissuto il terremoto che
investì il Val di Noto. Non disdegnò inoltre di occuparsi di
medicina, avendo indagato sulle cause che determinavano la
pestifera lue e avendo sperimentato in proposito un sistema di
cura, che passò alla storia come il metodo delle botti di
Campailla. Pur partecipando alle varie correnti letterarie, come,
ad esempio quello dell’Arcadia, apportando il suo contributo
fattivo, rifiutò prestigiosi incarichi di insegnamento presso gli
Atenei italiani più in voga. Accettò comunque di ospitare nella
sua Modica personaggi celebri europei, come il Berkeley e
intavolare anche con altri dei rapporti epistolari, quali ad
esempio, quelli con Ludovico Antonio Muratori. Non pago di
tali interessi, si occupò pure di astronomia, fisica e financo di
teologia esternando il suo pensiero sull’esistenza di Dio, in
relazione alla filosofia cartesiana e quella cristiana. Egli
combatté l’eresia del “Quietismo”, scaturito dalle teorie di
Miguel Molinos. Chiaramente, fu anche latinista e cultore del
mondo classico. Insomma era una mente aperta a tutto lo
scibile, raggiungendo una celebrità che lo rese famoso in tutto
il mondo culturale di allora.
Egli morì nella sua Modica il 7 Febbraio del 1740 a causa di
un colpo apoplettico e venne tumulato ai piedi dell’altare
maggiore della chiesa di San Giorgio. Ancora oggi il suo
personaggio è celebrato e ricordato tra gli uomini illustri di
Modica. Esiste oggi a Modica un Museo a lui dedicato. Pure a
Catania una via è stata intestata al suo nome, per ricordare la
sua frequenza all’ateneo catanese. Va evidenziato che il suo
sapere era frutto della sua applicazione di autodidatta anche nel
campo della medicina. Geniale la sua cura intuitiva della lue
con l’invenzione della famose botti, che altro non erano se non
degli ambienti in cui gli ammalati venivano costretti a respirare
i sali di mercurio che allora curavano la malattia. Non si
conosceva ancora la penicillina, che dette la stoccata finale a
questa malattia venerea. In applicazione del suo metodo,
scaturito dalla cura a lui nota dei sali di mercurio, fino a tempi
quasi recenti, presso le caserme dei militari di leva, esistevano
delle stanze adibite al lavaggio con i sali sopra citati, a scopo,
preventivo. Il transito nelle suddette stanze era da ritenersi
obbligatorio, oltre che consigliato, per coloro i quali avessero
avuto dei rapporti sessuali occasionali o sospetti. Oggi
sicuramente non esistono più, dal momento che il servizio di
leva è stato abolito e inoltre risulta molto efficiente l’uso della
penicillina, capace di troncare questo tipo d’infezione. Oggi
chiunque esercita la professione di medico la cura facilmente,
ma allora l’aver messo in atto le famose botti, dettero al
Campailla una fama internazionale. Certamente non fu lui a
scoprire il potere dei sali di mercurio in proposito, ma
l’applicazione del suo metodo fu senz’altro geniale e risolutivo.
Purtroppo ai nostri tempi, votati alla specializzazione più
capillare in assoluto dei singoli rami della scienza e della
cultura, è molto difficile trovare dei personaggi e delle figure
eclettiche come quella di Tommaso Campailla, siciliano del
profondo Sud.
GIUSEPPE DE FELICE GIUFFRIDA
Il 30 Maggio 1894 venne arrestato e condannato a 18 anni
un illustre uomo politico catanese. Si trattava di Giuseppe De
Felice Giuffrida, accusato di sedizione, nonché ribellione e
sospetta appartenenza ad una cosca mafiosa. Egli, aveva
aderito al movimento dei Fasci Siciliani cui aveva dato vita il
Verro a Palermo, rivendicando i diritti dei contadini e lavoratori
dello zolfo a non essere sfruttati dalla politica del neo eletto
governo Crispi, permeata della sua improvvisa aderenza alla
destra, garante dei privilegi terrieri delle classi benestanti. Pur
di trovare degli aiuti alla sua politica, il Verro, temendo anche
di essere ucciso, aderì alla cosca mafiosa detta dei “Fratuzzi”.
Tale sua scelta e anche i tafferugli creati dalle rivolte dei
contadini, costrinsero il Crispi ad usare il pugno di ferro.
Vennero, così, arrestati il Verro che venne condannato a 12 anni
e il De Felice, quali capi storici del movimento reazionario dei
Fasci Siciliani. Essi, dopo appena due anni di detenzione a
Volterra, vennero amnistiati, perché essendo stati rieletti, a
furor di popolo, ebbero riconosciuta dalla magistratura
l’eccessiva condanna loro imposta.
Il verro diventò anche sindaco di Corleone, ma venne
successivamente ucciso dalla Mafia per essere venuto meno al
giuramento di adesione alla cosca dei Fratuzzi.
Ben altra sorte ebbe il De Felice, che divenuto deputato al
Parlamento per un periodo di circa trenta anni, occupò anche la
carica di sindaco di Catania, acquisendo stima e plauso da parte
dei cittadini che lo ritenevano un giusto e anche un santo.
Ma chi era esattamente il De Felice? Un figlio del popolo,
nato nell’indigenza e vivamente proiettato con le sue capacità
intellettuali a conquistare la benevolenza del suo mondo.
Egli nacque a Catania il 17 settembre del 1859, dal padre,
Sebastiano Giuffrida, che nel 1868 venne ucciso dai carabinieri
durante una rapina e dalla madre Maria, che, per vivere si
prostituiva. Per tali motivo il giovane Giuseppe venne affidato
all’ospizio comunale, dove venne educato alla religione
cattolica e ottenendo anche l’istruzione fino al conseguimento
della licenza elementare. Nel diciassettesimo anno della sua
vita, conobbe Giuseppina De Simone che sposò, mettendo al
mondo ben quattro figlie. Nonostante il matrimonio e il suo
impegnò politico, non disdegnò dall’avere dei rapporti con
altre donne, riscuotendo anche in questo campo dei lusinghieri
successi. La sua permanenza all’ospizio, la conoscenza inoltre
di uomini importanti del suo tempo, quale, ad esempio quella
con Mario Rapisardi, gli fruttarono l’impiego presso la
prefettura come archivista. Contemporaneamente si dedicò alla
pubblicazione di un giornale di critica politica di cui era
direttore, “Lo staffile”. Per questo motivo, non certo gradito
dalle autorità politiche del suo tempo, nel 1881 venne destituito
dall’incarico e per vivere e sostentare la sua famiglia, si dedicò
ai lavori più umili, non escluso quello di venditore di vini e
olio. Nonostante ciò, continuò a studiare presso l’Università di
Catania riuscendo a laurearsi in legge. Tuttavia non esercitò
mai la professione d’avvocato, dedicandosi interamente alla
politica, che, ovviamente, era quella di sinistra, favorevole ai
lavori più umili a danno dei loschi interessi delle classi più
abbienti. A testimonianza del suo impegno politico, al cognome
iniziale di Giuffrida, aggiunse quello opzionale di De Felice,
appartenente ad una modesta famiglia di Catania, che viveva in
povertà e di lavoro. Fondò, insieme ad altri giornalisti, il
quotidiano “L’UNIONE”, riprendendo i vecchi temi del
giornale “lo staffile” che era stato costretto ad abbandonare.
Egli aderì al socialismo collettivista e progressista, che nulla
aveva a che fare con quello marxista. In sostanza era molto
vicino al PSI, anche se sosteneva di avere una semplice
aderenza di percorso a tale partito, ritenendo di essere
socialista, ma di non dipendere dai suoi dirigenti. Il suo
socialismo era solamente siciliano, lontano dai dettati
nazionali. Erano suoi alleati e compagni di percorso politico i
mazziniani, i radicali, i democratici e i socialisti. Suoi avversari
politici furono le destre, cui appartenevano le classi più
abbienti e a Catania il Sapuppo e anche i Carnazza. Nel 1885
venne eletto consigliere comunale e subì anche una prima
condanna a 18 mesi per accuse nei confronti del sindaco
d’allora Carnazza, che, in effetti non scontò per essere riparato
a Malta. Eletto deputato, riuscì a far cadere il governo Crispi e
di appoggiare quello di Rudinì, nonché di Pelloux, ma alla fine,
anche per i contrasti nati con il mondo cattolico, dovette cedere
all’avanzata del governo presieduto da Giolitti. Fu nel 1894 che
venne condannato a 18 anni per sedizione, essendo ritenuto uno
dei capi del movimento dei Fasci Siciliani. Tuttavia egli ebbe la
meglio sui suoi avversari, riuscendo a farsi eleggere deputato e,
dopo, anche sindaco di Catania, dove riscuoteva maggior
credito e stima da parte del popolo, dei nobili e anche delle
donne.
Fu a Catania, che eccelse per la quantità e qualità di opere
che resero la vita dei cittadini più accettabile e progressista.
Famoso resta il suo provvedimento in occasione alla serrata dei
fornai. In quell’anno per una sopraggiunta cattiva annata della
produzione del grano, i fornai pretesero dal Comune un
aumento del pane di 5 centesimi al chilo. Grazie alla sua opera
non solo non venne concesso l’aumento, ma addirittura il suo
prezzo diminuì di colpo poiché il pane venne prodotto
direttamente dal Comune, che affidò ai fornai solo il compito di
venderlo. A tale provvedimento bisogna aggiungere anche le
numerose opere pubbliche cui dette impulso.
Furono opere sue: il prolungamento del Viale Regina
margherita a ovest con il Viale Mario Rapisardi e ad est con il
viale XX Settembre, la creazione della Piazza Esposizione,
divenuta poi Piazza G. Verga e ancor prima campo di calcio per
la squadra catanese, la costruzione del carcere di Piazza Lanza,
che sostituiva quello borbonico di piazza Lupo, la realizzazione
della rete tranviaria a Catania, la costruzione dell’Ospizio dei
Ciechi, l’Ospedale Garibaldi di Piazza Santa Maria di Gesù, gli
scavi archeologici dell’anfiteatro romano di Piazza Stesicoro,
che erano state sepolte subito dopo il terremoto, la costruzione
dell’aeroporto di Fontanarossa, la stessa passeggiata a mare
adiacente alla stazione di Catania Centrale, che lo stesso Crispi
aveva prospettato. Insomma nessun altro uomo politico a
Catania è riuscito a fare quanto da lui realizzato nei suoi 28
anni di vita politica. A ben ragione, dopo la sua morte avvenuta
per causa naturale nel 1920 partecipò, quasi al completo tutta la
cittadinanza, che, nel cimitero di Catania ha costruito un
mausoleo per onorare la sua salma.
Ancora oggi, i Catanesi, nel giorno della festa dei morti, non
mancano di deporre anche un solo fiore sulla sua tomba e in
Piazza Roma, a Catania, gli hanno dedicato un istituto tecnico
di Scuola media superiore.
A causa dei suoi trascorsi giudiziari, alcuni hanno definito il
De Felice un populista e addirittura un demagogo. In verità, per
l’acume politico dimostrato e per la capacità di mostrare un
pensiero poliedrico costante di operosità non è possibile
attribuirgli tali demeriti alla luce dei pasticci messi in atto dei
veri populisti e demagoghi. Il rispetto che egli aveva per il
popolo, in quanto simbolo dell’umanità, non va confuso con il
forsennato ricorso a piacere alle masse popolari con
provvedimenti del tutto fatui e appariscenti, quali donazioni,
giochi e divertimenti. Non circenses, sed panem oportet donare
populo, dovremmo dire oggi.
PINA LICCIARDELLO
Chi è Pina Licciardello per essere da me citata tra i figli
della Sicilia degni di essere commentati e ricordat? Non è una
scrittrice, anche se ha tutte le capacità per esserlo, ne una
musicista e nemmeno una grande attrice, ma semplicemente
una modesta insegnante di scuola superiore profondamente
immersa nel suo ruolo ed a tal punto di essersi posto
l’obbiettivo di insegnare non solo agli studenti a lei affidati, ma
a tutte le persone disposte ad ascoltarla, mettendo a
disposizione di tutti le sue profonde conoscenze della Sicilia da
lei acquisite nel tempo
Lei ha semplicemente realizzato un sito su INTERNET con
un titolo che sembrerebbe pretenzioso, ma in effetti è una vera
fonte di cultura e notizie sulla Sicilia veramente infinite. Il
nome del sito è: GOCCE DI PERLE. Vi si accede tramite Google.
Dire che trattasi di una vera fonte di notizie, storiche, culturali,
geografiche, turistiche interessanti la Sicilia è poca cosa. In
effetti si è in presenza di un vero manuale per conoscerla a
fondo.
Intanto non appena si apre il sito in questione si ha la
possibilità di scegliere la lingua da utilizzare. Cosa,
quest’ultima, che gli dà la veste dell’internazionalità. Indi si ha
la possibilità di accedere con un semplice “Click” nei vari
settori che, pensate un po’, ne comprende anche uno battezzato
“LE VOSTRE PERLE”, in cui sono pubblicate le opere scritte dai
vari autori che lo richiedono ed anche uno finale di dialogo con
quanti chiedono chiarimenti e notizie.
Da quanto detto emerge che Pina Licciardello è veramente
un raro esempio di insegnante per vocazione ed una profonda
conoscitrice della nostra isola e dei suoi usi e costumi di tutti i
tempi.
Poiché Essa mi h accolto con molta simpatia, ho pensato di
doverla citare in questo mio commentario, pubblicando anche
l’ultima lettera che le ho inviato nel libro degli ospiti e che
riporto:
Gentilissima Pina,
Troverai dal portiere l’ultima mia fatica. Penso che sarà
proprio l’ultima per un cumulo di motivi, che cercherò di
spiegarti. Allego alla presente copia della prima di copertina e
il testo in pdf. – Non ti invio la bozza originale nel formato più
semplice poiché … è un altro libro! Vera Ambra ha tagliato,
movimentato, rimodellato il tutto, comprese le foto esplicative,
che ha sostituite. Lei ha avversione per testi che superano
circa le cento pagine (“ne facciamo un altro libro”).
Ad ogni buon conto se trovi difficoltà ad inserire il pdf nel
tuo sito, non farlo trovando una motivazione tecnica. Ti dicevo
che ho deciso di volere smettere d’imbrattare carta per diversi
motivi. Uno di essi è che tutto sommato ho
già detto tutto quanto mi consente il mio stato culturale…
Non farei che rimescolare e riproporre sempre gli stessi
argomenti ormai riti e ritriti … Ho paura di diventare noioso.
Ho parlato di tutto ciò che ho saputo o potuto: la guerra, un
po’ filosofia e di politica, l’amore, gli affetti familiari, la
pandemia, l’Etna, Catania, la Sicilia. Ho scritto poesie anche
in siciliano, oltre che in italiano. Insomma non sento di poter
raccontare altro al mondo intero. Il secondo motivo è che non
mi sento bene di salute.
Questi due ultimi anni mi hanno distrutto. Non mancavano
gli acciacchi di mia moglie, nel momento in cui ti scrivo non
sto bene: mi è venuto il fuoco di Sant’Antonio, l’herpes zoster
che sarà magari una sciocchezza, ma che è tremendo e mia
figlia dice che ne avrò per una decina di giorni.
Saluti a te e a tuo marito.
Note sull’Autore
Giuseppe Nasca, chiamato familiarmente Pippo, nasce a
Catania il 2 Febbraio 1937 nel periodo “nero” dell’Italia,
Frequenta le scuole dell’obbligo ed il Liceo Scientifico a
Catania. Si iscrive nella facoltà d’ingegneria di Catania, ma
superato il biennio propedeutico, abbandona gli studi per
entrare nelle FFSS come capostazione. Attualmente in
pensione, vive nell’isola amministrativa di Tremestieri Etneo.
Nonostante l’indirizzo scientifico degli studi e l’attività
prettamente operativa, spinto da una passione innata per lo
studio delle lettere, continua a coltivare ed ampliare le nozioni
acquisite al Liceo, cimentandosi in scritti (racconti, saggi,
poesie), che inizia a pubblicare dopo l’entrata in quiescenza (1
Luglio 1996) e partecipando con successo a numerosi concorsi
di premi letterari, tra i quali Le Rosse Pergamene di Anna
Manna, L’Accademia del Parnaso di Gero La Vecchia e
Akademon di Aci San Filippo.
Ha pubblicato con Libroitaliano World di Ragusa:
“Quando l’alba del tramonto incombe”, una raccolta di
poesie in italiano e con Anninovanta-Antasicilia Onlus:
“Sicilianaeneide” una rivisitazione completa dell’omonima
opera virgiliana in versi dialettali siciliani.
Con Lampidistampa ha pubblicato:
“I me’ pinseri”, Raccolta di liriche in dialetto siciliano;
“I salateddi”, raccolta di poesie satiriche in dialetto
siciliano;
“Scarabocchiando briciole di sogni”, raccolta di liriche in
italiano.
Con Akkuaria, oltre al presente volume, ha pubblicato:
“Ju fazzu ‘n-soccu mi piaci fari”, un saggio su lingua e usi
siciliani;
“La Fede del Gatto e del Topo”, raccolta di racconti
fantastici;
“Lu stranu viaggiu”, un poemetto in versi siciliani;
“Ilaria e Catania” racconti ambientati a Catania;
“Di Tia leggiu lu chiantu”, una rivisitazione in dialetto
siciliano delle poesie più celebri del Leopardi;
“C’era na vota nta l’antica Grecia”, rielaborazione dei più
celebri miti greci in versi siciliani, preceduti da presentazione
in italiano.
“L’importanza di chiamarsi Asdrubale”, trenta vicende di
non comune cronaca.
“Gli sproloqui di Pippo”, Libertà di pensiero sul freddo
ragionamento della convenienza.
“Dare tempo al tempo” (Spigolando su pensieri e
sentimenti) – raccolta di poesie in italiano.
“Mamma li Turchi” Romanzo ambientato nel catanese.
“Divinità del vino” Raccolta di poesie dedicate al vino.
“Tu dormi tenendomi la mano” Raccolte di poesie.
“Manuela Filiberta di Savoiano” Romanzo.
“Tutta Catania e dintorni in versi” Raccolte di poesie.
“Cronaca di un trapasso” Narrativa.
“Soffi scomposti: Zibaldone di poesie” Raccolta poetica.
“Catania tra fatti e fattacci” Raccolta di racconti.
“C’era una volta a Catania” Racconti sparsi.
“La guerra degli Scazzamureddi” Ricordi, Racconti e
Quarantene al tempo del Covid-19
“Antichi miti e leggende di Sicilia” Raccolta
“U fumu di l'Etna” Raccolta poetica.
“Pasticcio di colori” Raccolta poetica.
“Fatti e Ri-fatti” Racconti nati nella pandemia.
“Lu caputrenu cu’ li cugliuna” Ricordi al tempo del Covid
“L’asino di Via Belfiore” Ricordi al tempo del Covid
Suoi scritti, quali racconti, saggi, commenti e poesie,
compaiono nelle antologie pubblicate da Akkuaria.
INDICE
Prefazione di Grazia Maria Scardaci Pag. 7
COMMENTI ALLE OPERE DI VERA AMBRA
La polvere e il vento “ 13
Pudore “ 15
DIgnità calpestata “ 18
Al giungere della nave “ 20
Pegaseium nectar “ 23
Il gabbiano e la luna “ 27
Insabel “ 29
Piume baciatemi la guancia ardente “ 33
Viaggio nella memoria “ 41
Un uomo nell’ombra “ 45
Prefazione Catania: alla scoperta della catanesità “ 47
Catania: alla scoperta della catanesità “ 51
Parola al cioccolato “ 53
COMMENTI ALLE OPERE DI ALCUNI AUTORI DI AKKUARIA
Le cose che non esistono di Alessandra Felli “ 57
Nel nome della verità di Maria Stella Sudano “ 61
Azzurrogusto di Mariella Sudano “ 57
Ulisse sono io di Gabriella Rossitto “ 64
Donna, meraviglia del creato di Paolo Salamone “ 68
Tra le tue dita di Dario Miele “ 70
Itaca dispersa di Dario Mele “ 74
Il fiato delle stelle di Maria Rita Coppa “ 77
Quando cadevano le nuvole di Marta Limoli “ 79
178
Inno al linguaggio struggente Di Valeria Battiato Pag. 81
Sicilia fra miti e leggende a cura di M.Stella Sudano “ 83
Il trionfo dell’Arcobaleno di Giancarlo Grassano “ 85
Deliri Emozionali di Maria Tripoli “ 87
Due giovanissimi Autori a confronti
L’arte di appassire in silenzio e Petali di margherita
di Giuseppe Giorgio Pignatello e Martina Luvarà “ 91
Cercando le radici nel vento di Gabriele Stefani “ 94
COMMENTI SULLE OPERE DI AUTORI VARI
Non chiamarlo padre di Adriana Di Grazia “ 99
La camelia del partigiano di Claudia Tortora “ 101
Volevo la luna di Franco Di Blasi “ 106
Secondo me di Sebastiano Ministeri “ 109
Macerata magliana di Anna Pasquini “ 115
“Oltre lo specchio” La mannaia di Oilerua
di Alfredo Scaglia “ 121
Le rosse pergamene di Anna Manna 124
Ancora un commento su “Lr rosssse pergamene” “ 127
Alla tavola rotonda di Anna Manna “ 130
ANDANDO A TEATRO
Pensaci, Giacomino “ 135
Una serata al Metropolitan di Catania
Con Tullio Solenghi e Massimo Lopez. “ 137
La Capinera “ 141
Teatro Greco Taormina “ 144
Una serata al Massimo Bellini “ 145
179
I FIGLI DELLA SICILIA
Rosa Balistreri Pag. 151
GIuseppe Pitrè “ 157
Tommaso Campailla “ 164
Giuseppe De Felice Giuffrida “ 167
Pina Licciardello “ 172
Gentilisima Pina “ 173
Note biografiche dell’Autore “ 175
180