Il caro estinto
Prefazione di Adriana Di Grazia
Quante volte ci siamo chiesti cosa accadrà dopo che
avremo lasciato la nostra vita terrena?
Un interrogativo che ci pone dinanzi ad una duplice risposta:
il nulla totale oppure una nuova dimensione, scevra
da affanni, della quale la fede ci ha sempre parlato.
In ogni caso è ineluttabile che l’istante del trapasso rappresenta,
per ogni essere umano, un momento di grande
turbamento e paura.
Ed è proprio per esorcizzare tale paura che Pippo Nasca
affronta il problema della morte utilizzando l’ironia, quale
potente strumento per ridimensionare il dramma e attenuarne
il peso.
E bisogna ammettere che riesce abbastanza bene, perché,
con una comicità intelligente e misurata, rappresenta
la morte come una continuazione della vita terrena, dove il
“caro estinto”, con occhio aguzzo, finalmente “inosservato”,
può disquisire, in primis, sull’incompetenza del medico
del pronto soccorso che ha diagnosticato il suo sintomo
come un “malessere passeggero”, prescrivendogli un sedativo
più energico del semplice “canarino” assunto in casa
dal paziente, quale vecchio infallibile rimedio della nonna
Lucia, buon’anima e, in secundis, esaminare gli intervenuti
a presenziare la funzione religiosa e porgergli l’estremo
saluto.
Ritrovandosi, quindi, in una posizione “diversa”, ossia
rinchiuso in uno “spazio ristretto”, ai piedi dell’altare di
una chiesa che non ha mai frequentato in vita, ha tempo
di meditare “serenamente”, in quanto gli affanni terreni
non possono più toccarlo. Avendo egli esercitato in vita la
professione di medico, si ostina a domandarsi come abbiano
potuto, al pronto soccorso, commettere un errore così
grossolano tale da averlo spedito al creatore in quattro e
quattr’otto.
Agghindato e immobile, ma abbastanza vigile nel nuovo
stato, mentre il sacerdote officia la messa, ripercorre
con la mente le sue origini e quelle della sua famiglia, i
luoghi frequentati, le tradizioni, le amicizie, gli amori,
tracciando un breve excursus della propria vita vissuta e
riconoscendone errori e successi.
La sua attenzione si sposta poi sulla folla degli ignari
convenuti presenti, individuando in essi l’elemento comico
di alcuni gesti o espressioni. Mette in risalto chi sbircia
l’orologio, quasi chiedendosi quando tutto finirà, chi versa
qualche lacrima o chi si compiace già del vantaggio che
trarrà da quella scomparsa, ridimensionando in tal modo la
negatività del momento.
Ne viene fuori un’ironia pacata, perché nessuno penserebbe
mai di essere oggetto attento di studio proprio da chi
ormai si trova in un’altra dimensione, e lo scherno per alcuni
personaggi che nella vita “altra” mostrano un’esteriorità
diversa, ma dei quali l’estinto conosce l’intima sostanza,
come la sua paziente che, tra una visita e l’altra,
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era diventata la sua amante e adesso si trova lì, accanto al
marito, all’oscuro della loro tresca, o altri che compilano
“diligentemente” la cartella per i poveri, offrendo non
meno di venti euro, e si stupisce di tanta generosità che
non aveva mai riscontrato in vita.
Nulla sfugge al suo occhio attento e sornione.
Non mancano anche le pagine di malinconia quando il
caro estinto, in uno spazio ormai alquanto limitato ed impossibilitato
a muoversi, osserva i figli e la sofferenza della
moglie o quando si accorge della presenza di alcuni conoscenti
che non vedeva da tempo e non immaginava sarebbero
mai venuti. E allora si abbandona a ricordi del
passato.
Tale atteggiamento ironico però non denota superficialità
o mancanza di rispetto, bensì è frutto di una delicatezza
interiore. Infatti, sovente, le persone più malinconiche
utilizzano lo strumento della comicità che consente loro
di descrivere ciò che provano e possono tirarlo fuori.
Inevitabile comunque la riflessione sulla precarietà della
vita umana e sul problema della vita oltre la morte, alla
cui soluzione non perverremo mai, a meno che qualcuno
non torni a riferirci, ma nessuno fin’ora lo ha mai fatto.
Lo stile è, come sempre nei componimenti di Pippo
Nasca, scorrevole e ben strutturato e, nonostante l’argomento
trattato, ne viene fuori una narrazione ironica e non
impegnata, capace di regalarci a tratti un sorriso e la cui
comicità, in alcune osservazioni, alleggerisce l’approccio
con la morte che induce sempre smarrimento nell’animo
umano.
Adriana Di Grazia
***************
Sola nel mondo eterna,
a cui si volve
ogni creata cosa,
in te, morte, si posa
nostra ignuda natura;
lieta no, ma sicura
dall’antico dolor.
Giacomo Leopardi
Nota introduttiva
Questo argomento, relativo all’estremo addio in genere,
ha suscitato in me il desiderio di mettermi nella situazione
mentale del caro estinto e osservare questo mondo che, inconsapevole,
gira attorno a lui, convinto di non essere oggetto
di un’indagine proprio da chi non è più ritenuto idoneo
a farlo.
Una specie di giudizio del morto, che non è morto, ma
che è costretto a comportarsi da tale, essendo impossibilitato
a esprimersi.
Un’indagine muta, che ispeziona i convenuti e li osserva
nei loro gesti spontanei, mostrando le proprie ambasce
e i propri intimi pensieri, distanti dallo statico immobilismo
del sentire di chi osserva.
Questa mia libera e fantasiosa riflessione mi è possibile,
poiché non è abbastanza noto ciò che avviene a un
uomo dopo il trapasso. Anzi, diciamo che non è noto per
niente, salvo che non facciamo entrare in ballo la Fede che
anima le varie religioni del mondo.
Tenendo conto di questa mia ignoranza sull’argomento,
posso liberamente esporre il mio pensiero, dire ciò che voglio
secondo i modelli dei vivi, sicuro di non essere smentito
o criticato, perché, tanto, chi muore, tace e tace per
sempre diventando per niente influente il suo pensiero non
espresso, ne colto.
È questa la filosofia del mio “cogitare” dopo. Quanto,
invece, detto prima è un’altra cosa, se ricordato.
Ma qualcosa ancora voglio aggiungere ai concetti sopra
esposti, di cui il mio ignoto personaggio non poteva sapere
o dire non avendone avuto l’esperienza diretta.
La morte al tempo del coronavirus subentrato ai nostri
giorni e i suoi corollari erano ignoti a chi è morto prima
della suddetta pandemia, né avrebbe nemmeno avuto
modo di avere un funerale e raccontarne l’esperienza, dal
momento che essendo quest’ultimo un assembramento di
persone non avrebbe potuto aver luogo perché non consentito
dal D.L. (decreto legge) di emergenza in proposito.
A lui, oggi, oltre alla morte subita, sarebbe stato imposto
il silenzio della solitudine e non solo, non potendosi
celebrare, come di consueto, il suo funerale e nemmeno la
vicinanza e assistenza dei parenti, nell’atto di rendere l’anima
a Dio. Niente conforto, niente estrema unzione, niente
funerale.
Solamente morire come un cane, essere sanificato, affidato
a personale prezzolato per la sua solitaria tumulazione
nel silenzio e nell’assenza di una benché minima onoranza
o calda lacrima che bagni la sua bara.
Un’altra sofferenza psicologica che si sarebbe aggiunta
a quella fisica della morte. Un supplizio dell’anima in
nome della salvezza della vita degli altri.
L’Autore
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1
Mi ritrovai seduto in mezzo al letto. Accanto c'era mia
moglie che dormiva avvolta nel lenzuolo. Sentii d’improvviso
un conato di vomito e corsi veloce verso il bagno inciampando
nella poltroncina accanto al letto.
Sono arrivato appena in tempo a non sporcare quanto
stava intorno, vomitando nel lavandino.
La testa mi girava come un’elica del ventilatore.
Stavo male.
Al primo seguì un altro conato di vomito. Guardai nel
lavandino e lo vidi colorato rosso. Pensai fosse sangue.
Guardando meglio mi accorsi che quel rosso era quello dei
peperoni arrostiti sulla brace e che mia moglie aveva condito
con olio e sale. Evidentemente non ero riuscito a digerirli.
Li avevo mangiati per cena con ingordigia.
Fu d’obbligo preparare un canarino e sapendo come
fare, non svegliai mia moglie per non farla preoccupare.
Andai in cucina, presi un tegamino d’acqua, v’immersi
una scorza di limone e la lasciai bollire per qualche minuto.
Versai il contenuto in una tazza, vi aggiunsi lo zucchero,
lo bevvi lentamente e mi si rasserenò subito l’intestino.
È questo il vecchio rimedio della buon’anima di nonna
Lucia che non mi ha mai tradito.
Nonostante il canarino e la corsa in piena notte al Pronto
Soccorso, le cose non sono andate tanto bene per me.
Era avvenuto in me qualcosa che sapeva di nuovo, anzi
di troppo nuovo.
Quel rosso del vomito, quei peperoni arrostiti, gustati
con gran piacere, quel languore e senso di stanchezza mi
fecero pensare a qualcosa di brutto.
Ed era ciò che pensavo durante la corsa al Pronto Soccorso,
mentre l’ambulanza mordeva l’asfalto.
A quanto pare, sono morto, anche se mi sento vivo e
vegeto. Certamente non sento più dolore fisico né stimolo
alcuno, però continuo a sentire e a vedere intorno a me.
Come temevo, quel rosso non era solo quello dei peperoni
arrostiti, ma del sangue che mi fuoriusciva dal duodeno,
silenzioso e copioso.
Il mio sospetto, non fu condiviso dal medico di turno, il
quale lo ritenne un malessere passeggero da superare con
qualche sedativo più energico del “canarino”.
Il mio corpo ormai è chiuso in questa bara depositata ai
piedi dell’altare di una chiesa dove non ho mai messo piede
da vi
In verità questa chiesa l’ho sempre vista dal di fuori,
ossia ho sempre visto la sua facciata nel periodo in cui lavoravo
come medico in quest’ospedale.
È la cappella dell’ospedale.
Al tempo avevo molto altro da fare che pensare a entrarvi.
Certamente avrò contribuito a inviarvi qualcuno
nelle stesse condizioni in cui io mi trovo adesso.
Confesso che qualche errore l'ho commesso nell’esercitare
la professione di medico, conclusosi con un funerale
proprio qui.
Mi distraggo per un istante e penso a questi luoghi,
dove ho vissuto tanti anni della mia vita, fin da quando da
giovane studente laureando in medicina entrai per la prima
volta in quest’ospedale, accedendovi dalla via Lago di Nicito.
Appresi in questo frangente che l’ospedale Garibaldi,
era sorto come lazzaretto sul territorio del famoso lago di
Nicito, distrutto dalla lava dell’ultima colata eruttiva dell’Etna
sulla città, avvenuta nel lontano 1669.
Chissà, forse anche per questo non mi è mai passato per
la testa di entrare in questo posto da vivo, anche se mi professo
un buon cristiano. Adesso è toccato a me.
Ci sono arrivato direttamente spedito da un poco accorto
collega al Pronto Soccorso, il quale non si è reso conto
che c'era in atto un’emorragia al duodeno.
Ha tirato fuori delle conclusioni sul mio stato di salute
che non avevano né testa né coda. Si è inventato uno stato
di stress, da curare con il riposo assoluto e così è stato!
Il sangue è andato via tutto, il cuore si è fermato ed io
ho raggiunto lo stato di assoluto riposo, quello eterno.
Mi chiedo ancora come abbia fatto costui a diventare
medico e riuscire a farsi reclutare tra quelli addetti al primo
intervento del pronto soccorso. Certamente un medico
può anche prendere degli abbagli, ma da lì a non riconoscere
un’emorragia in atto ce ne vuole.
Io lo ascoltavo ma non ero in grado di intervenire, capivo
il suo discorso ma non avevo la forza per dirgli che sta-
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va sbagliando e che se non avesse fermato l’emorragia,
avrei finito per morire.
Ed eccomi dunque, qui a meditare e osservare.
Mi sono accoccolato sulla bara in cui mi vedo steso
lungo e agghindato, pronto per essere tumulato. Accanto
un cuscino di fiori con un nastro viola e le scritte in oro.
Ascolto un anziano sacerdote officiare la messa e dopo
le varie formule rituali aggiunge pure il suo formale discorso
sulla mia vita.
Dice tante cose che forse non hanno nulla a che fare
con me. Non avevo per niente in vita tutto quel fervore
che dice, riguardo alla mia fede.
Non nascondo che le mie origini hanno un retaggio non
cristiano. Da quanto ne so, e da quanto ho appreso dal
nonno, sembra che la mia famiglia appartenesse a un nucleo
d’origine israelita adeguatasi poi alla fede cristiana.
Certamente la mia antica famiglia aderì al cristianesimo
accettando il battesimo e tutto il resto, però molte usanze
ataviche si sono perpetuate nel tempo e non sono scomparse
del tutto.
Premesso che la circoncisione non era più tra le usanze
di famiglia, continuo dicendo che mio nonno si chiamava
Giosué, mio padre Giuseppe e questi nomi si ripetevano di
generazione in generazione. Penso che il chiamarmi anch’io
Giosué sia anche una conferma di questa mia origine
e anche il cognome, Catania, che è quello di una città italiana,
caratteristica di tutte le famiglie di origine ebraica,
mi fa nascere questo sospetto.
Un’altra cosa che penso sia adeguata a questa origine è
il possesso tra le vecchie cianfrusaglie di famiglia di una
vecchia reliquia di sapore israelitico: un particolare candelabro
in oro, non molto grande, con sette braccia disposte
simmetricamente su uno stesso piano. Mio padre mi diceva
di averlo avuto in eredità da suo padre e così a risalire
nel tempo.
Non parliamo poi dalla tendenza familiare volta all’accu-
mulo di beni e di ricchezze tramandate da padre in figlio
e grazie alle quali la mia famiglia ha sempre vissuto
bene, disconoscendo le ristrettezze economiche in cui la
Sicilia ha navigato nel tempo.
Devo però dire che la circoncisione non era prevista tra
i canoni e le abitudini della mia famiglia né mai si aveva
la tradizione di frequenza di sinagoghe, talmud o feste di
sentore ebraico. Le usanze della mia famiglia fin dai tempi
più antichi erano quelle tradizionali cristiane. Tutti i matrimoni
venivano celebrati in chiesa e anche i Battesimi e le
Cresime.
Per tutte queste considerazioni penso che la mia famiglia
sia d’origine ebraica, ma completamente integrata nel
cristiane-simo.
Non sono stato un buon medico; ho commesso anch’io
degli errori. Ero stato semplicemente un uomo come tanti,
ma si sa che quando uno muore, di lui si parla solo bene.
È come ringraziarlo per aver tolto l’incomodo di essere
vissuto in questo mondo, lasciando spazio ad altri, ansiosi
di sostituirlo.
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I riti funebri in chiesa hanno la funzione santificatrice
del morto, che i parenti vogliono raggiunga il paradiso,
esattamente come presso gli antichi Greci e Romani si era
soliti mettergli in bocca l’obolo da consegnare a Caronte
per attraversare il fiume infernale Acheronte ed entrare
nell’Averno.
Allora la mia famiglia d’origine non abitava a Catania,
ma in uno dei paesetti che le fanno da corona, lungo le
pendici dell’Etna.
Il paesetto in questione è Adrano
Mio padre era un facoltoso agricoltore, di vantata nobile
discendenza, che aveva avuto il vivo desiderio di avere
un figlio medico e per questo, mi aveva tenuto lontano dai
suoi campi e dai suoi affari. Per questo motivo la mia città
di adozione, da subito dopo l’età scolare, diventò Catania,
ma non nascondo che il richiamo della campagna l’abbia
sempre avuto. Infatti, intrapresa la mia attività di medico,
molto redditizia ai miei tempi, non ho fatto altro che accumulare
altre proprietà terriere di cui mi sono sempre occupato,
arricchendo sempre di più la mia famiglia. Buon sangue
non mente.
Nonostante medico, affiorava in me l’atavica passione
per la terra ed anche l’amore per la rupestre Adrano, che
durante le vacanze estive tornava a essere l'abituale dimora
di sempre, dove la mia fantasia galoppava intorno a
quell’ammasso roccioso, da dove, secondo la leggenda,
venne fuori dall’inferno il focoso Ade con il suo cocchio
per rapire Proserpina.
Mi appassionava la mitologia greca e l’intreccio delle
vicende umane a essa connesse e, del resto non ho mai
avuto tanti grilli per la testa. Ho sempre fatto una vita morigerata,
dedicandomi con serietà allo studio e, nonostante
la mia accesa fantasia che mi faceva giocare con “Guidon
selvaggio e con Astolfo”, tiravo dritto verso il traguardo
che mi ero prefisso, anzi, che mio padre aveva stabilito e
pensavo pure di dovermi sposare con una ragazza di buona
famiglia del paese, che mi desse la soddisfazione di
averne una mia, abbastanza numerosa.
Adesso sono qui a meditare su tutto ciò e disposto al riposo
assoluto oppure ad altro che non sono ancora in grado
di valutare, Mi sento proprio come sospeso tra cielo e
terra.
A pensarci bene, mi chiedo, da questa parte della barricata,
se ne valga la pena provare la girandola della vita
sulla terra, provare dolori gioie, emozioni e quant’altro
che improvvisa-mente, quando, alla fine, il corpo viene
scompaiono assorbito dalla natura e l’anima continua a vagare
nello spazio di un infinito sconosciuto e incerto in balia
di eventi senza una meta stabilita e ben individuata.
Io son qui adesso, ma non so cosa sarà di me senza il
mio corpo. Non so proprio quello che mi succederà.
Non so in verità se andrò incontro a un’altra morte oppure
continuerò a vivere in eterno e trasmigrare in un altro
corpo, secondo le tante teorie in proposito di natura fideistica.
Il sacerdote che con il turibolo sparge incenso attorno
alla mia bara e la bagna con spruzzi di acqua che definisce
benedetta, sostiene che io sia già in paradiso per le mie
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opere meritorie, anche se, forse, tra se e se, non pensi che
abbia trovato alloggio in un profondo sito dell’inferno.
Nell’attesa che qualcosa avvenga resto qui a guardare e
a considerare il mio passato alla luce di un posto di vita
nuovo, acquisendo, intanto, la certezza che il dolore fisico
è scomparso del tutto.
Non è che la mia malattia sia guarita, ma certamente
quest’ultima non può più nuocermi. Si è fermata, raccogliendo
i frutti della sua vittoria, ma io ho incassato il vantaggio
di non averla più tra i piedi e di non dover subire
altre conseguenze dolorose.
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Lì, intorno alla bara, silenziosa, miseramente esposta
tra quattro candelabri accesi, vi è sempre un’umanità diversa
ma pur sempre la stessa nelle movenze, nei gesti e
nelle aspettative.
Ciò costituisce la novità movimentata di ogni singolo
funerale, che, di per sé, è statico e ripetitivo. Non posso
dire in tal senso che il mio esca fuori dalla norma.
Nella folla dei convenuti è possibile cogliere anche nei
semplici gesti, la varietà dei vari sentimenti che aleggiano
tutti intorno e che, non sempre, fanno riferimento al caro
estinto, che silenziosamente ascolta non potendo altrimenti
fare.
C’è chi, di tanto in tanto, sbircia l’orologio (non certo il
caro estinto) quasi per chiedersi quando finirà, chi versa
qualche lacrima di dolore, chi intimamente soddisfatto
pensa ai vantaggi che ne trarrà da quella scomparsa, oppure
chi è costretto a essere lì per le circostanze sociali.
È tutta una folla di persone che assiste, convinta di non
essere osservata e studiata, da chi sembra impossibilitato
di farlo.
A nessuno forse, è mai saltato in testa di essere attentamente
osservato, studiato e giudicato proprio dal caro
estinto, che immobile, sornione e silenzioso, ha modo di
esprimere il suo pensiero, libero da ciò che sono le comuni
convenzioni civili.
Ecco, dunque, che il funerale da triste e commemorativa
esequia estrema al defunto, diventa uno scenario di 19
vita, dove tutti i personaggi convenuti occupano il loro
ruolo ben definito, immemori del loro futuro funerale e
proiettati a vivere ancora per molto tempo ignorando, magari,
che la morte può anche attenderli, lì, sul sagrato della
chiesa.
Quello a cui si assiste non è il proprio funerale, ma
quello di un altro ed è così che la vita continua e che la
morte diventa un evento lontano e il partecipare a quel rito
assume quasi l’aspetto di uno scongiuro o di uno spettacolo
teatrale dal quale non ci si può esimere.
Mentre ascolto le formule rituali della Santa Messa che
mi raccomandano al Padreterno, guardo in silenzio gli
astanti che hanno preso posto nei banchi della chiesa e rispondono
sommessamente alle invocazioni del prete.
Egli nel sermone a me dedicato ha detto testualmente:
“Egli non è morto: vive! È accanto a noi e sta osservando
il vostro dolore con serenità e vorrebbe consolarvi con il
suo sorriso".
Mi viene il sospetto che egli mi abbia visto seduto qui a
meditare. Riflettendo dico che non è possibile poiché mica
sto sorridendo. Sono in verità molto incavolato e sicuramente
mostrò di avere il broncio. Mi ero abituato a stare
insieme al mio corpo. Ci stavo bene e mi sarebbe piaciuto
restarci ancora. Pazienza qualche dolorino, qualche acciacco,
qualche problema con le tasse, ma, tutto sommato
la combinazione tra il mio corpo e la mia anima mi dava
piacere.
Mi piaceva sentire il profumo dei fiori che adesso non
riesco a percepire nonostante ci sia seduto quasi sopra, mi
piaceva ascoltare le voci, mentre adesso intuisco solamente
quanto dicono osservando i gesti e il movimento delle
loro labbra.
Mi piaceva il contatto fisico con le persone, mentre
adesso non riesco a sfiorare nessuno. Mi piaceva avere
fame e sete, mentre adesso non sento alcuno stimolo. Solamente
con gli occhi, che sembrano due palloncini rotanti,
riesco a percepire la scena che ruota intorno a me. Forse
non sono nemmeno gli occhi a eseguire questa operazione,
ma la luce che emana dal mio spirito.
Ancora non mi sono abituato a questo nuovo stato e
non so nemmeno se perderò anche questa mia facoltà di
vedere.
Mi stava proprio bene indossare il mio corpo. Nei libri
di medicina non se ne parlava proprio di questa separazione
tra anima e corpo. In verità essi si occupano semplicemente
del corpo e non si pongono il problema dell’anima,
che non è tangibile, lasciando ad altre branche dello scibile
umano questo problema.
Fino a quando vivevo non mi ero mai soffermato a meditare
sui rapporti tra queste due entità in seno ad una persona.
Ho sempre pensato che i sensi fossero la meccanica
espressione del corpo, così come il suono di una tromba
altro non fosse che l’effetto del soffio percepito in precedenza.
So esattamente cosa avverrà del mio corpo, che adesso
giace immobile dentro una cassa di zinco rivestita in legno,
ma sconosco il seguito e l’epilogo di tutta la vicenda.
Il sacerdote ha detto che in questo momento io sto osservando
tutti. Ha detto pure che sto sorridendo…
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Non vorrei che mi abbia visto sul serio, poiché un sorriso
lo sto accennando nel vedere tanta gente venuta a darmi
l’ultimo saluto!
Il prete mi ha fatto venire dei dubbi… Ma no! Non mi
ha visto! Egli sta mentendo e le sue parole sono dettate dal
ministero che sta esercitando. Se mi avesse davvero visto,
si sarebbe accorto che con il turibolo dell’incenso ha urtato
la mia figura attraversandola senza alcun ostacolo.
Forse più in là, a funerale finito, saprò come vanno le
cose dopo il trapasso, ma temo di non avere più la capacità
di riferirle al mondo dei vivi. Vedo, ascolto, penso, so di
non essere visto né sentito, non riesco a comunicare e non
ho ancora visto angeli o demoni a prelevarmi. Non so cosa
avverrà in seguito. Sono in attesa di saperlo anch’io.
In vita ho sentito parlare di un giudizio dopo la morte.
Se le cose vanno con assoluta lentezza in questo campo
come tra i vivi, forse per me è ancora troppo presto saperlo.
Non so proprio e poi non so nemmeno come fare per
chiamare l’avvocato… Mi sento veramente confuso.
3
Però! Accidenti quanta gente è arrivata! Vi sono, tutti
insieme, dei parenti e amici che avevo perso di vista, dei
medici miei colleghi e anche degli infermieri. Ho notato
pure qualcuno dei miei assistiti.
No, tra i medici non è presente quello stupido che non
aveva capito che in atto c'era in me una banalissima emorragia
facilmente tamponabile. Forse sarà impegnato a far
fuori qualche altro malato per liberare qualche altro posto
letto in ospedale.
In compenso è venuta pure lei, una mia ex compagna di
lavoro, con la quale ho avuto del tenero. Non è in compagnia
d’alcuno. Sfido io! Con quei presupposti che aveva e
che di certo ha ancora, non poteva non restare sola.
Una vera arpia: egoista, superba, padrona di sé, ma anche
un'ottima compagna a letto.
Non è che inizialmente mi piacesse tanto! In verità non
ho capito bene come sia stato possibile l’accaduto. Non ricordo
di averle fatto mai la corte. La prima volta che avvenne
il contatto fisico, mi stavo sforzando di spiegare ciò
che si doveva fare riguardo alla terapia di un assistito,
quando lei mi prese le guance tra le sue mani e mi piantò
un bacio sulle labbra. Fui sorpreso... Ma non me la sentii
di non corrispondere.
Era uno di quei pomeriggi che si era costretti a stare insieme
solo per fare il punto sul lavoro da svolgere il giorno
dopo. Non era la prima volta che restavamo da soli a
discutere, ma mai era successo una cosa simile. Non so
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lei, ma io non ci pensavo nemmeno. Mi sentii come se
fossi stato concupito, però mi piacque.
Ero giovane e non avevo esperienza in materia di donne.
Durante uno di quegli incontri pomeridiani, mi scappò
di dirle: “Ti amo”, credendo di farle cosa gradita. “No,
mio caro”, rispose “io non ti amo, mi piaci e basta. Tutto
finisce qui”.
Me lo disse chiaro e tondo che a lei piaceva comportarsi
come gli uomini in tutto: prendere ciò che le piaceva e
lasciarlo quando ne avesse avuto voglia. E mi lasciò di
punto in bianco, dicendomi che aveva trovato di meglio.
Rimasi sbalordito, ma non mi dispiacque più di tanto. Solamente
adesso mi chiedo per quale arcano motivo sia venuta
al mio funerale.
Io non l’ho più cercata e non l’ho per niente pregata.
Ho accettato il suo modo di pensare e agire, anche se incominciai
a studiarla nel comportamento e mi resi conto che
anche nelle altre vicende umane agiva allo stesso modo.
Per lei non esisteva altro Dio che se stessa. Era l’espressione
dell’egoismo al massimo della sua espressione in
tutti i campi, sia quello amoroso, che quello sociale. Non
una lacrima per chi moriva o soffriva, niente sentimenti o
sentimentalismi. Avendola capita, non soffrii per il suo
improvviso cambio di rotta nei miei confronti e ci badavo
anzi a tenerla alla larga.
A vedere una lacrimuccia rigarle il viso ormai pieno di
rughe e abbracciare fraternamente i miei, mi viene il sospetto
che voglia solamente dimostrare la grande stima
che aveva di me, al fine di ottenere chissà quale vantaggio
dalla mia famiglia. Vorrei avvisare i miei di quanto fosse
egoista costei, ma non so come fare. Non riesco a parlare e
a spegnere nemmeno una candela! Figuratevi se posso far
sentire la mia voce! Però mi viene anche il sospetto che la
vecchiaia e la solitudine abbiano realizzato il miracolo di
farla rinsavire e diventare finalmente un essere umano.
Buon per lei, se così fosse.
La sua presenza mi induce a riflettere sulla psiche femmi-
nile, che, in genere, la società vuole debole, remissiva,
degna di protezione e di tante altre attenzioni. Lei di tutto
questo non necessitava punto. Me lo disse chiaramente.
Tra l’altro aveva una decina di anni più di me ed era sinceramente…
appetibile.
Tra le sue mani mi sono sentito un pupo, uno zimbello,
un giocattolo con il quale lei si divertiva. Io ero alla prima
mia esperienza con una donna e mi sentivo non solo gratificato,
ma ringalluzzito e facevo di tutto per rendermi il
più accetto possibile. La colmavo di tutte le attenzioni
possibili e di regali, la cercavo telefonicamente, anche per
solo augurarle la buona notte o il buongiorno.
Non nascondo che avevo perso un po’ la testa. Del resto
era un bel pezzo di donna, sicura di se e la sua disposizione
era completa. Ero lì, lì per chiederle di sposarci,
quando mi arrivò come un fulmine la sua decisione, secca,
sicura, decisa.
Restai di stucco… Accennai a chiederle dove avessi
sbagliato e se, per caso, l’avessi offesa.
– Ma no, mio caro, non hai sbagliato nulla sei stato stupendo!
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– E allora… perché? – Rimbeccai
– Perché non mi piace più. A me piace cambiare. Non
voglio sottostare a nessuno. Non voglio legarmi con nessuno.
Voglio restare sempre padrona di me stessa. Non
voglio figli. Non voglio una famiglia, Voglio restare indipendente.
Ho capito che tutto questo tu vuoi, ma io no!
Per questo dobbiamo interrompere questo rapporto.
Non ti nascondo di aver incontrato un altro uomo che,
in questo periodo, mi fa sentire più donna di quanto sai
fare tu. – Era un suo coetaneo.
Che potevo fare? Le dissi solamente di restare amici e,
nel caso che ci ripensasse, io ero sempre disponibile.
Non mi nascondo che rimasi sbalordito da quella decisione
e da quel comportamento molto diverso delle ragazze
mie coetanee della vecchia Adrano, dove, di tanto in
tanto venivo invitato a delle festicciole da famiglie che
avevano qualche figlia da accasare.
Ero un buon partito sicuramente. Medico di sicuro avvenire,
famiglia facoltosa, di sani principi morali, costituivo
un buon obiettivo di matrimonio da parte delle castigate
ragazze del mio paese d’origine.
Non nascondo che passare dallo stato di uomo desiderato
a quello di uomo piantato mi fece psicologicamente
stare male. Però, mica potevo continuare a correre dietro a
qualcuna che non ne voleva sapere più.
Non potevo, perché uomo, costringere una donna a
starci. Alla fine sarebbe avvenuta una infelicità maggiore
per entrambi.
“Quisque faber suae fortunae”, dicevano gli antichi latini.
Mi convinsi che così doveva essere anche in amore.
La mollai del tutto e non la cercai più. Però! Accidenti!
Mi aveva svezzato e mi aveva dato una lezione di vita, che
la poneva come antesignana del futuro 1968. Non si parlava
ancora, a quei tempi della futura rivoluzione sessuale
da parte delle donne dell’anno che ho nominato, ma si
vede che il seme già cominciava a germogliare e dava i
suoi frutti.
Per questo è rimasta come una pietra miliare nella mia
vita, anche perché cominciai a essere più guardingo nei
confronti delle donne. Nel caso non lo avessi capito, lei mi
fece comprendere che il pianeta donna ha le sue esigenze
particolari e che non è del tutto debole e sa essere deciso e
caparbio nel raggiungere gli obiettivi che si presuppone.
Averla conosciuta è stato per me un vantaggio non indiffe-
rente per il futuro.
27
4
Ma guarda! C’è anche quella mia paziente che tra una
visita e l’altra, era diventata un'amante fissa.
È in compagnia del marito, che non ha mai capito niente
della malattia costantemente accusata dalla moglie, delle
sue emicranie e del bisogno costante di farsi visitare dal
medico.
Il medico ero io, che la trattavo con gentilezza e, quando
la visitavo, non omettevo di accarezzarla e di rivolgermi
a lei con ogni riguardo. Mi sono maledettamente innamorato
di lei fin dal primo momento che è venuta a farsi
visitare. Aveva degli occhi dolcissimi e, poi, era ancora
giovane, anche se sposata da qualche anno.
Io ero ormai sulla soglia della terza età e nonostante
fossi sposato e serenamente tranquillo dal punto di vista
sessuale, tutte le volte che veniva, restavo turbato dalla
sua presenza. Lei parlava ed io la ascoltavo come se fossi
in paradiso. Mi parlava di lei, del suo rapporto coniugale,
che non era dei più felici.
Mi disse un giorno che suo marito era rozzo e non capace
di recepire la tenerezza di cui si sentiva pervasa come
quando parlava con me.
Fu quella volta che la abbracciai teneramente mentre
lei si abbandonava tra le mie braccia. Era a seno nudo,
poiché la stavo visitando. Le baciai il collo delicatamente
e scesi con le labbra sul suo seno senza quasi rendermene
conto.
Lei reagì abbracciandomi, solleticandomi il collo con
dolcezza e offrendomi le labbra che baciai.
Non andai oltre. Mi sentii colpevole di essere andato di
là dal mio compito professionale. Pensai a mia moglie che
amavo veramente, ma che ormai non riusciva ad andare
oltre l’espres-sione di un affetto spirituale. Aveva i sintomi
precoci di una vecchiaia galoppante che giustificavo e
mi sentii ancora più colpevole per quello che provavo.
Riuscii a dominare i miei sentimenti. Compilai la ricetta
per le medicine da comprare e le feci semplicemente
una carezza sulla guancia, rosea come una pesca.
Mai più! Non sarebbe successo mai più di quanto era
accaduto quel giorno. Ero fermo nel mio proposito. Dovevo
dominare quel sentimento che era inconsapevolmente
sbocciato per lei. Non era semplice attrazione sessuale
quella che sentivo, ma amore profondo, desiderio di abbracciarla
anche senza averla, proteggerla, colmarla di attenzione
e di carezze, farla mia per sempre. Ma tutto ciò
cozzava con la situazione in cui mi trovavo e in cui lei si
trovava.
Passarono appena due giorni da quell’episodio. Il terzo
giorno Lei si presentò allo studio. Varcato l’uscio e chiusa
la porta, mi sentii abbracciato da lei e tra un bacio e l’altro
sulla guancia e sulle labbra mi disse con voce tremante:
“Ti amo. Sono perdutamente innamorata di te. Ti prego
non respingermi.”
Fu quello l’inizio della nostra relazione, che fino ad
oggi continua.
Ma che sto dicendo: fino ad oggi? Certo! Io sono ormai
morto, finito. Verrò tumulato. Non potrò abbracciarla, ba-
29
ciarla e averla. A onor del vero, la nostra relazione è da
parecchio uscita fuori dai binari del solo desiderio sessuale
e del suo realizzarsi.
I nostri incontri clandestini si sono fatti col tempo molto
meno rari… Non posso però non ammettere che ogni
incontro è stato rubare un pezzo di paradiso, che, qui, il
sacerdote sta cercando di descrivere, finché la mia salute
me lo ha concesso.
Ogni incontro era una fuga dalla realtà, un attimo di serena
atarassia spirituale e fisica, dove l’attrazione sessuale
era solo un piccolo contorno a completamento. Mi bastava,
talvolta, sfiorarle solamente il viso, accarezzarle il collo,
stringerla fortemente tra le braccia e sentire i palpiti del
suo cuore sintonizzati con i miei.
I rapporti con mia moglie erano ormai diventati quelli
del dottore con l’ammalata, mentre quelli dell’ammalata
che avevo in cura erano diventati quelli di una moglie con
il proprio marito.
Mia moglie era ormai preda della sua malattia e non mi
riconosceva più. Mi dava del lei e a volte non ricordava di
avermi mai conosciuto.
Le volevo bene e non potevo abbandonarla. Aveva bisogno
di aiuto e non glielo potevo negare. Nulla può cancellare
una vita vissuta insieme.
La mia amante era diventata la mia confidente, la mia
tutto, la mia compagna con la quale condividere gioie e
dolori.
Lei mi confidò di aver cessato ogni rapporto con il marito
che si era fatta anche lui un’amante e glielo aveva anche
detto. Stavano insieme, ma separati di fatto in casa,
per non creare dei traumi ai loro due figli ancora puberi.
Non gli aveva detto di noi due.
Lo riteneva non importante, anzi dannoso rivelarglielo.
Era questa una situazione non più sostenibile, nella
quale eravamo entrambi immersi come due pesciolini rossi,
che non sapevano cosa fare per evadere.
La mia fine ha dato per lo meno l’esito di farla cessare.
Ed è così che lascio la mia vita terrena consapevole di
lasciare non una, ma due vedove. E pensare che da ragazzo
sognavo di voler conoscere una sola donna da sposare e
amare per tutta la vita.
Sono certo che mancherò senza meno a entrambe. Sarei
però curioso di sapere se la mia moglie clandestina continuerà
a essere “ammalata” o se finalmente dirà al marito
di essere guarita del tutto
Per quanto mi concerne il mio progetto iniziale di vita
con le donne, ha subito una modifica non prevista. Esso
prevedeva una sola donna e invece ho fatto inconsapevolmente
tris…
31
5
Nonostante il ricordo di questo groviglio di sentimenti
e di passione parzialmente soddisfatta, che però tutti ignorano,
non posso lamentarmi di questo mio ultimo contatto
umano. Proprio un bel funerale ricco di presenze che hanno
fatto parte della mia vita.
Scorgo anche altre persone che non ho mai avuto il piacere
di conoscere da vivo. Molto probabilmente amici e
amiche dei miei figli. Insomma, la chiesa è completamente
piena. Posso ritenermi veramente soddisfatto. Non mi
aspettavo proprio, da vivo, di avere intorno tanta gente più
o meno dispiaciuta per la mia dipartita.
Vedo pure, all’ingresso della chiesa una ben nutrita
schiera di gente che compila “la cartella”, quella prevista
per l’offerta ai poveri in suffragio dell’anima benedetta, la
mia. Le offerte sono tutte ben laute. Circa tutte di venti
euro a cartella. Raramente ne spunta qualcuna di cinque o
dieci.
Non ho mai visto tanta generosità in altre occasioni. Ad
esempio nel caso di elemosina a poveracci che la chiedono
in posizioni molto precarie e mi viene da riflettere sulla
Carità e l’amor di Patria ai nostri tempi.
A tal proposito mi viene in mente questo episodio, avvenuto
qualche giorno fa.
Uno dei tragitti che percorrevo sempre in macchina per
recarmi da casa mia a quella di una mia sorella abitante a
Gravina di Catania, prevede il percorso di un’ampia arteria
stradale che culmina in un incrocio con un’arteria di
collegamento importate. Tale incrocio è governato da un
semaforo a tempo, un vero disastro per la scorrevolezza
del traffico, sia all’andata che al ritorno.
Quel semaforo, che passa dal rosso al verde e viceversa,
in un continuo alternarsi, quasi statico, costringe gli automobilisti
a soste forzate e ripetute.
Di queste ultime ne approfitta qualche povero extra-comunitario,
generalmente di colore, munito dell’occorrente
per eseguire un non richiesto e rapido lavaggio del parabrezza,
per racimolare qualche centesimo di euro, per
sbarcare il lunario.
Purtroppo è questa una scena che si ripete quasi in tutti
gli incroci con semafori delle strade del catanese, dove
questa povera gente staziona creando anche dei piccoli
problemi connessi al variare repentino della luce dal rosso
al verde e viceversa.
Per quanto mi concerne, ormai ero abituato a questo
genere di incontri ai semafori e se proprio non volevo la
prestazione, facevo segno di no con il dito e in questo
caso, talvolta, prendevo alcuni centesimi spiccioli che tenevo
sempre nel cruscotto della macchina porgendoli al
questuante di turno.
Certo non era un lavoro che facevo sempre, poiché non
sempre avevo a disposizione delle monetine. Ma tutte le
volte che affrontavo il semaforo in questione facevo sempre
in modo di avere degli spiccioli a portata di mano.
Questo perché a presenziare questa postazione semaforica
era sempre la stessa persona: un uomo dell’apparente
età di circa cinquant’anni, zoppicante, emaciato e apparen-
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temente sofferente, che suscitava in me il desiderio di poterlo
in qualche modo aiutare.
In attesa del verde, egli si presentava allo sportello della
macchina molto rispettosamente ed io, facendo segno di
no, gli porgevo una monetina da 50 centesimi o anche da
un euro. Ne ricevevo un sorriso di ringraziamento, che ricambiavo
con un cenno di saluto.
Tra me e lui si era ormai stabilito quasi un filo di reciproca
intesa, che tutte le volte mi lasciava una certa amarezza
nell’intimo, certamente non estinta da quel piccolo
obolo.
Proprio alcuni giorni fa, un pomeriggio, di ritorno dalla
casa di mia sorella, mi sono fermato con la macchina,
come di rito, al semaforo in attesa che diventasse verde.
Alla mia sinistra si presentò il solito questuante ed io, abbassato
lo sportello, facendo segno di no, gli ho dato una
monetina da 50 centesimi.
Mentre eseguivo questa operazione, che tra l’altro non
ostacolava il traffico, essendo il semaforo sempre rosso,
dalla macchina accanto un signore dall’aspetto ben pasciuto,
dal posto di guida della sua BMW, incominciò a strombazzare
con il clacson, facendomi segno di no e blaterando
non so cosa.
Lo guardai di sfuggita, pensando che avesse l’intenzione
di dirmi qualcosa, ma, capito dal suo gesto cosa intendesse
dire, essendo arrivato il verde, misi in moto la macchina
e svoltai a destra come di consueto.
Anche la BMW del signore in questione svoltò a destra
e nonostante marciassi con una certa celerità consentita
dalla viabilità, sentii il gracchiare rabbioso del clacson
della macchina che mi seguiva e notai, guardando dallo
specchio retrovisore, che il guidatore mi faceva cenno di
fermarmi. Pensai che forse il signore in questione avesse
notato qualcosa che non andasse nella mia macchina, per
cui, appena possibile accostati a destra e mi fermai. Fui
sorpassato dalla macchina che mi seguiva e che si fermò
davanti a me.
Dal posto di guida saltò fuori un uomo di una certa età,
ma molto più giovane di me, come un dannato e, lasciando,
tra l’altro, il motore acceso, si accostò allo sportello
del mio posto di guida cominciando ad arringarmi con
veemenza.
– È per colpa di persone come lei, che questa gente si
permette di vivere alle spalle di noi italiani. – mi disse e,
rincarando la dose aggiunse – Lei è un traditore della patria,
un buonista di merda, che sta rovinando l’Italia con
questo suo comportamento. Questa è gente che deve morire
di fame, che ci sta invadendo, che ci sta togliendo il
pane dalla bocca!
Come si permette di dar loro di che vivere? Se ne accorgerà
quando verranno a comandarci. Non lo faccia più!
Le invettive continuavano a ruota libera, come se io
avessi commesso un reato nell’aver fatto l’elemosina.
Lo guardai sbalordito e annichilito.
Fui incapace di rispondere.
Cercai di reagire, ma guardandolo negli occhi notai che
era esagitato al massimo e che sembrava recitare una litania
appresa a memoria, frutto di chissà quale imbottitura
politica.
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Valutai attentamente la situazione. Accennai a reagire,
ma poi capii che sarebbero state parole perse. Mi limitai a
chiudere il vetro dello sportello, lasciandolo sbraitare. –
Tanto prima o poi si stancherà – pensai.
E intanto la fila che si era formata dietro di me incominciò
a strombazzare con il clacson perché si riprendesse
la marcia delle nostre due auto.
Alla fine il signore in questione, tronfio per avere compito
la sua missione di difesa patria, salì in macchina e con
fare rabbioso partì a razzo.
Mi mossi anch’io con la mia macchina, molto più lentamente
e perplesso.
Non credevo ai miei occhi e alle mie orecchie. Ma cosa
avevo fatto di male? Avevo semplicemente dato cinquanta
centesimi di elemosina a un povero cristo, messo lì sotto il
sole ad attendere la grazia di Dio.
Mi chiedevo se vi fosse in Italia una nuova legge che
impedisse di essere caritatevoli.
No! Non mi risultava.
L’episodio, però, mi lasciò a riflettere sul cattivo impatto
della propaganda politica sulla gente. Quel signore
che mi aveva arringato, non mi sembrava, poi, persona
fuori dal normale, anche se un po’ su di giri, Egli ripeteva
come un automa tutte le frasi fatte che circolano sui moderni
telefonini riguardo a invasioni silenti di gente di altra
razza, di difesa del suolo italiano, di accuse di buonismo,
sinonimo di tradimento dei doveri del cittadino e,
nello stesso tempo, mi chiedevo se, a lungo andare, qualcuno
non pretendesse di limitare anche la libertà in Italia
di fare l’elemosina in nome della difesa della patria.
Mi sembra che il popolo sovrano sia molto sensibile all’individualismo
strombazzato a chiare lettere e indirizzato
verso un unico obiettivo. PRIMA GLI ITALIANI. (ANCHE
SE PRIMA SI DICEVA PRIMA I PADANI) e anche
se non si dice chi dovrebbe venire dopo, sembra molto
evidente, che va tradotto con “SOLO GLI ITALIANI”.
Qualcuno potrebbe obiettare che quel “SOLO” non viene
in effetti pronunziato, ma sancito a tutti gli effetti, quando
si passa alla descrizione poco lusinghiera degli immigrati,
considerati sempre delinquenti all’arrembaggio, anche se
oggi sono sporchi negri e ieri erano sporchi terroni.
Altro che carità cristiana, mostrando il crocifisso in
mano e il rosario al collo, questo è perfetto egoismo, che
la fa a pugni col Vangelo e con la mia educazione di cattolico.
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6
Nelle prime due file davanti all’altare vi sono i miei figli
con i relativi compagni di vita, che una volta si chiamavano
sposi e ora, in alcuni casi, non si sa come chiamarli
di preciso, e mia moglie, rigorosamente bardati a lutto.
Tutti sprizzavano dispiacere e dolore.
In verità, mia moglie, dai capelli ormai bianchi e con
una veletta nera che copriva la sua canizie, non mi sembrava
molto dispiaciuta. Anzi non lo era affatto, pur avendo
lo sguardo mesto, ma quasi assente.
Con gli occhi smarriti, chiedeva a chi le stava accanto,
chi fosse morto. Non si rendeva conto che lì nella bara ci
fossi io, suo marito. Tanto non ricordava di averne uno.
Soffriva di demenza senile galoppante e già da qualche
anno mi dava pure del lei, dimenticandosi di essere mia
moglie.
Sicuramente la figlia glielo aveva detto di essere rimasta
vedova, ma non lo aveva recepito o forse, avendolo capito,
lo aveva già dimenticato.
Povera donna! Un tempo non era così.
La ricordo giovane e pimpante, con i capelli nerissimi,
il rossetto appena accennato sulle labbra, gli occhi di un
castano puro e il seno non tanto prominente, ma invitante.
Sempre attenta agli interessi della famiglia, me compreso.
Forse un po’ attaccata al denaro… Beh! Diciamo che era
un poco avara per costituzione mentale. Risparmiava su
tutto, nonostante cercassi di convincerla che non ne avesse
di bisogno e che un po’ di liberalità non le sarebbe stata di
nocumento.
Anche nel modo di vestirsi era sempre stata parsimoniosa
e non ricercata. Per il resto era sempre stata un porto
sicuro per la mia vita e un riferimento costante per la famiglia.
Peccato che con il tempo, la malattia avesse appannato
i suoi riflessi e le sue virtù.
Adesso stava lì, seduta, insulsa, compunta e convinta di
partecipare a un lutto che la toccava, senza saperne la causa.
Mi faceva una gran pena nell’osservarla e avrei voluto
consolarla, come facevo quando ero in vita.
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7
Mia moglie, l’ho conosciuta per caso a una festicciola
in famiglia; era la sorella minore di un mio compagno di
università. Quando la conobbi, frequentava l’ultimo anno
del magistrale. Le feci la corte e in meno che non si dica
riuscii a entrare nelle sue grazie.
Non fu facile!
Ho fatto la trafila della corte prevista nei nostri paesetti
interni della Sicilia e dire che Adrano era il simbolo mitologico
della volontà dell’uomo sulla donna, in amore
Era stato lì ad Adrano, che il Dio Ade era uscito fuori
dall’Averno con il suo cocchio trainato dai cavalli infernali
per rapire Proserpina, che nulla sapeva di lui.
Era proprio lì ad Adrano, quindi, che era stata inventata
la “fuitina” di sicula usanza, che autorizzava l’uomo solamente
al diritto di poter scegliere la propria moglie e a costringerla,
volente o nolente, a sposarlo.
Nonostante ciò e nonostante io fossi, un buon partito, la
mia futura moglie si fece pregare prima di concedermi il
consenso.
Rose rosse con bigliettini amorosi a profusione, passeggiate
sotto il balcone della casa avita e anche la serenata,
che allora era il massimo della manifestazione amorosa
dell’aspirante marito.
Portare la serenata era l’impegno ufficiale nei confronti
della famiglia e dell’intera cittadina del proprio amore. Ricordo
ancora la canzone e il cantante che, defilato, la cantò
al suono della chitarra, mentre io ben in vista sotto il
lampione vicino al balcone attendevo la sentenza del sì o
del no.
Il no era un bel secchio d’acqua buttato dal balcone da
uno dei due genitori e il si era l’apparire dell’amata sullo
spalto della ringhiera dove si soffermava ad ascoltare e infine
con un gesto affettuoso indirizzava un bacio con il
palmo della mano verso il richiedente.
A raggiungermi fu quest’ultimo, che sancì il nostro fidanzamento,
mentre la luna disposta a canoa e le stelle facevano
da testimoni, dopo l’ennesima recita della canzone
allora in voga e che ricordo ancora: “Creola, dalla bruna
aureola, per piacer sorridimi…"
Il padre di lei pretese che firmassi il contratto di promessa
di matrimonio con l’elenco della dote. A me, onestamente,
questa formalità non piacque, ma dovetti acconsentire
perché quella era la prassi e i due capi di famiglia
pretesero che fosse resa pubblica “pi’ l’occhiu di la genti”.
Ci fidanzammo, dunque, “ufficialmente”, come soleva
dirsi allora, e dopo qualche anno dal suo diploma di maestra
ed io dalla laurea in medicina, ci sposammo.
Era per me la donna ideale che rincorrevo nei miei desideri
giovanili.
Bellina, intelligente, semplice, sicura di se, di sani principi
morali e, cosa molto apprezzata da mio padre, anche
di appartenenza a una cospicua e facoltosa famiglia di
Adrano.
Allora, ma anche adesso, il problema e l’assillo della
“roba”in Sicilia era molto forte, anzi molti matrimoni erano
basati sul concetto della convenienza economica. Non
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era certo il mio caso. Ero cosciente di far parte di una famiglia
facoltosa e il desiderio di accrescere quanto avevo
già di mio non mi toccava. Quello che cercavo era trovare
una brava compagna per tutta la vita e lei rispondeva a
questo mio requisito.
Non avevamo, quindi, problemi economici. Sia la mia
famiglia che quella di lei stavano economicamente bene e
ci misero nelle condizioni di autogestirci.
Ricordo il matrimonio che fu celebrato in pompa magna
nella chiesa madre. Parteciparono alla festa quasi tutti
gli abitanti del paese. Eravamo abbastanza noti e inoltre vi
era tutta una caterva di parenti. Un bel ricordo. Tutto filò
liscio come l’olio ed eravamo felici.
Sono tentato di descrivere tutta la cerimonia e l’addobbo
della chiesa, ma, vista la circostanza attuale di una
bara, tra l’altro la mia, preferisco sorvolare, perché la circostanza
mi farebbe star male.
Dico per dire, poiché non riesco a recepire alcunché
che mi faccia soffrire. Sono sereno e guardo tutto con
molta rilassatezza. Dico solo che lei era diversa da come
la vedo adesso svampita e basita. Allora era splendente nel
suo abito bianco e aveva un sorriso di piena felicità.
Tuttavia, mi va di ricordare una cosa che adesso non
avviene più e che si verifica solo in occasione dei funerali:
l’effetto scenico della processione matrimoniale.
Ai nostri giorni la sposa arriva in chiesa con una macchina
agghindata con i fiori bianchi e accompagnata dal
padre, raggiunge l’altare, dove l’attende lo sposo. Dopo la
cerimonia entrambi escono dalla chiesa e, sorbito il lancio
del riso sul sagrato, salgono in macchina e vanno via per
poi ripresentarsi insieme al banchetto di nozze.
Talvolta, al massimo dell’estrosità, in coda alla macchina
viene legata una corda con delle latte vuote, sicché, appena
si mette in moto si sente il loro rumoroso tintinnare.
Allora non andava esattamente così.
Lei giungeva in carrozza e all’uscita dalla chiesa, dopo
il fatidico sì, si formava un corteo a piedi con in testa i due
sposi seguiti dal codazzo degli invitati, che li accompagnava
nella loro nuova casa. Il “rinfresco” di ringraziamento
ai convenuti generalmente avveniva prima nei locali
della parrocchia.
La nostra vita è stata pure serena e ricca di affetto reciproco.
Ha dato i suoi frutti che sono i nostri figli. Sì! Avete
ragione, io sono stato un po’ discolo nel senso che non
abbia resistito alle tentazioni che ho già descritto. Lo confesso!
Però non le ho mai fatto venire meno il mio affetto.
Lei è sempre stata al di sopra di tutto e di tutte. Possono
testimoniare le due signore che ho già nominato e che
adesso sono presenti in chiesa in veste di amiche.
Purtroppo nell’ultimo periodo le cose tra noi due non
andavano come prima a causa della sua malattia, ma non
ho mai cessato di rispettarla e amarla. Ho accettato un affetto…
parallelo in un momento di debolezza per non cadere
in depressione.
Sentirmi trattare da estraneo, mi turbava e mi rendeva
nervoso. Ingoiavo amarezza, ma nello stesso tempo cercavo
di colmare la mia solitudine.
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Temo per lei, per la sua malattia, per il sostegno che le
mancherà non potendo esserle accanto. La sua malattia le
impedirà di valutare la mia assenza.
Forse non si ricorderà nemmeno che io sia esistito. Sarà
forse un bene per lei, ma questo pensiero, ossia quello di
essere ritornata bambina e indifesa mi turba. Spero che i
nostri figli la accudiscano per benino e non la facciano
soffrire.
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La faccenda di morire in tempi differenti non è una
cosa veramente ben fatta dal Padreterno. Bisognerebbe andare
al-l’altro mondo insieme, quando si vive in coppia.
Glielo vorrei dire al prete che sta officiando di suggerirlo
al suo principale, ma non mi ascolta! È tutto preso nel
suo ruolo e non mi sente.
Ho cercato di tirargli la tonaca per attirare la sua attenzione,
ma non riesco a farlo. Avevo finanche pensato di
soffiare su una candela, spegnerla e approfittarne per attirare
la sua attenzione, ma le candele non sono come una
volta. Al posto della fiamma libera vi è una lampada elettrica.
Hai voglia di soffiare! Non si spegne nulla e intanto
il prete continua a confabulare con Domineddio implorando
benedizioni per me.
Nonostante sia medico, quindi addentro a eventi di medicina,
non vi nascondo l’apprensione a ogni parto sia per
il nascituro, sia anche per lei.
Volevamo una famiglia numerosa.
Proprio per questo mi son fatto costruire una villetta, si
fa per dire, con una caterva di stanze. Ho pensato alla
grande. Ogni figlio nato doveva avere un suo appartamento
in grado di consentirgli di viverci con la futura moglie.
Avevo realizzato in tutto una trentina di stanze su tre livelli,
divisibili in appartamenti singoli, con tutto un piano
sottostante adibito a posti macchina e cantine.
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D’intorno al fabbricato ho realizzato una piscina e un
campo da tennis, oltre ad un piccolo giardino con fiori
d’ogni tipo e colore.
Non ho badato a spese. Me lo potevo permettere grazie
al mio lavoro e a quanto avevamo ricevuto entrambi in
eredità dai nostri genitori.
In verità non abbiamo mai fatto dei viaggi. A me è
sempre piaciuta la quiete tra le quattro mura, il riposo e le
piccole distrazioni innocenti della casa.
Tutto il santo giorno ad aver a che fare con gente ammalata,
piena di problemi fisici ed anche psichici, mi
stressava e mi faceva nascere nell’animo il desiderio di serenità.
Anche per lei era così.
Io mi rilassavo facendo dei lavoretti manuali nel piccolo
laboratorio che mi ero costruito in un angolo della casa
e lei passava il suo tempo libero facendo dei ricami, oppure
facendo dei piccoli lavoretti di pittura.
Indubbiamente non aveva un gran talento, ma non glielo
ho mai detto. Ho sempre lodato le sue opere, che di tanto
in tanto mostrava alle amiche.
Insomma, abbiamo fatto insieme una vita serena e in
piena libertà in seno ad una casa che per quanto a grandezza
e comodità non aveva da farci lamentare.
Adesso quello che mi turba, nonostante il prete qui assicura
il pubblico che starò bene in seno all’amore divino,
è sapere come mi troverò a essere costretto nel piccolo
spazio della bara per l’eternità.
Non ne ho l’idea.
Certamente non avrò bisogno del mio corpo che resterà
fermo e privo di movimento e, poi, chi l’ha detto che andrò
a vivere con esso sotto terra?
So benissimo che non potrò muovermi come da vivo.
Mi riferisco naturalmente al mio corpo! Sarà necessario
trovarmi un altro motivo per far passare il tempo, che
come accenna il prete, sarà eterno. Sarà dura, ma non so
quello che succederà dopo che si saranno concluse le operazioni
del funerale.
Non ho proprio l’idea di sapere cosa succederà dopo.
La mia esperienza è stata sempre quella di convivere con
il mio corpo e non ho alcun sentore di quello che avverrà e
proverò, avendo la certezza di essere costretto a vivere per
l’eternità senza il supporto di quanto avevo a disposizione.
Staremo a vedere.
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A questo punto, la mia attenzione viene distratta da
quanti sono in prima fila insieme a mia moglie: i miei figli.
Non sono tutti.
Ne manca uno e non c’è nemmeno sua moglie. Non
glielo hanno fatto sapere che io sono andato al Creatore.
Forse hanno fatto bene. Sarà necessario farglielo capire
con discrezione e attenzione. Il suo stato di salute mentale
potrebbe creargli un danno enorme.
Non sono presenti nemmeno i suoi figli, per il semplice
fatto che non ne ha.
Chissà cosa starà facendo in questo momento? Sarà impegnato
a giocare con le macchinine elettriche o forse a
giocherellare con il suo cane o a bearsi delle sue infantili
trovate.
Povero Adorino! Purtroppo non ha avuto fortuna nel
nascere. È venuto al mondo prematuro a causa di una passeggera
indisposizione di mia moglie durante la gravidanza.
Alla luce delle mie conoscenze mediche in proposito,
che non ho mancato di approfondire, non so darmi una
spiegazione dell’accaduto.
Figuratevi: era il primo dei miei figli ed io e mia moglie,
eravamo tremendamente in apprensione per l’imprevisto
evento. Quando venne al mondo, fu necessario metterlo
nell’incubatrice. Sembrava che tutto andasse per il
meglio; di giorno in giorno cresceva bene e sembrava non
aver avuto alcun danno dalla sua prematura nascita.
I veri guai vennero dopo.
Egli cresceva fisicamente bene. Aveva un aspetto normale,
ma qualcosa non funzionava al livello di apprendimento.
Nonostante crescesse nel fisico, il suo cervello era
rimasto quello di un neonato, incapace di connettere e di
articolare un ragionamento. A livello di funzionalità nella
crescita del corpo il suo cervello funzionava perfettamente,
ma al livello di apprendimento, niente.
Incominciò la via crucis di ricerche scientifiche, di consulti,
di tentativi atti a integrare la sua deficienza.
Il consulto definitivo di un mio illustre collega, conosciuto
per l’occasione, fu inappellabile e senza speranza.
Egli accertò che una delle cellule madri del cervello, in
fase di formazione, non aveva avuto il tempo di realizzarsi.
Pertanto tutto ciò che dipendeva dalla suddetta cellula,
non esisteva più e non poteva realizzarsi alcun processo
cognitivo.
Era come se, per fare un paragone, fosse nato senza la
cellula che poi sarebbe servita a far proliferare quelle necessarie
per far crescere la mano. Questo, sostanzialmente,
significava che mio figlio nonostante crescesse e fosse un
bel ragazzo, era destinato a comportarsi come un bambino
appena nato. Non restava che il tentativo di stimolare le
altre cellule nervose a sostituire quelle mancanti. Un’impresa
ardua, che, dette un certo successo. Ma non tanto
quanto bastasse. Infine era un uomo ormai cresciuto, ma
con il modo di agire e di comportarsi di un bambino, incapace
di poter esercitare con libertà un lavoro o una professione,
pur avendo tutti gli altri istinti comuni a una persona
normale.
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Per ovviare allo scempio, cui era esposto Adorino, non
mi restò che la sola alternativa di provvedere ad assicurargli
una vita serena e di costruirgli intorno un mondo capace
di comprenderlo e di non nuocergli. So quanto l’umanità,
quella normale, sia cattiva e non abbia alcun riguardo
per chi, più sfortunato, nasce con dei difetti, nonostante le
leggi protettive varate in proposito dalla società.
Per prima cosa lo misi nelle condizioni economiche di
non dover avere di bisogno materiale da alcuno, compresi
gli altri miei figli venuti successivamente. Gli costituii un
patrimonio personale in grado di esentarlo dallo svolgere
una chicchessia attività per sostenersi durante la sua vita a
prescindere dalla mia presenza o da quella dei suoi fratelli.
Insomma gli assegnai, oltre alla proprietà della casa, un
patrimonio che gli rendesse a vita il necessario per vivere.
Ma ciò non bastava! Dovevo affidarlo a una persona più
giovane di lui, che lo amasse, lo rispettasse e accettasse di
accudirlo amorevolmente per tutta la vita.
Questa era la cosa più difficile! Come si fa a trovare
una giovane donna capace di fare ciò? Bisognava che
avesse un istinto materno fuori dal comune, che gli volesse
bene e accettasse di vivergli accanto rendendolo felice e
nello stesso tempo essere lei felice di farlo.
Incominciai a osservare e a studiare le giovani infermiere
che avevo nel mio reparto ospedaliero ed anche
quelle di altri reparti. Ne coglievo la professionalità, ma
soprattutto le sottoponevo a un’analisi attenta e dettagliata
delle loro personalità.
Finalmente incontrai un’infermiera che, secondo il mio
giudizio, andava bene per i miei disegni.
Feci pure un’attenta analisi della sua posizione familiare.
Viveva con la madre, non era per niente ricca e con il
suo lavoro badava al suo sostentamento e a quello della
madre. Pensai che anche questo fatto avrebbe giocato a
mio favore per il disegno che avevo di affidargli a vita
mio figlio.
Per il resto, conduceva una vita morigerata. Diversamente
di alcune sue colleghe, era una fedele aderente alla
chiesa cattolica e alla sua morale, che ammiro e condivido
nonostante la mia poca dimestichezza per le cose religiose,
e inoltre aveva un modo dolcissimo di porgersi ai malati
che le erano affidati.
Insomma, pensai di aver trovata la persona adatta per
Adorino. Il problema era per me cosa fare per coinvolgerla
e comunicarle il progetto al quale volevo destinarla.
Con molto tatto, la invitai a casa mia per farle conoscere
mia moglie, che, dissi, aveva bisogno di essere accudita.
Precisai che per quanto concerne la medicina, mia moglie
aveva proprio bisogno che qualcuno la seguisse perché
non era capace di fare le punture ai figli, che, come si
sa, hanno sempre bisogno di essere seguiti per crescere
sani e in salute. Ella accettò la mia offerta anche economica
per il servizio richiestole.
La faccenda andò avanti per qualche mese. La osservai
ancora più attentamente e notai che il mio Adorino, ormai
cresciuto, era felice di vederla tutte le volte che veniva.
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Lei lo trattava con molta gentilezza ed anche mia moglie
sembrò legare moltissimo con lei. Parlai con mia moglie
del mio progetto, che era quello di affidarle a vita l’incarico
di badare ad Adorino.
Mia moglie trovò anche lei possibile una cosa simile.
Mi disse di lasciarle un po’ di tempo, non tanto per riflettere,
ma per studiare meglio la situazione. Aveva bisogno
di conoscere meglio la ragazza e la sua indole. Dopo qualche
mese ancora, mi disse che effettivamente la giovane
infermiera era di sicuro una ragazza con la testa sulle spalle
e che mostrava anche una certa simpatia nei confronti di
Adorino, che intanto, gioiva ogni volta che lei veniva a
casa.
Acquisito questo parere, un bel giorno, affrontai la situazione
con la giovane infermiera.
Le dissi che mia moglie era molto contenta di Lei, che
mi aveva chiesto di invitarla a far parte della nostra famiglia
come collaboratrice e pertanto, la invitavo a dimettersi
dal suo lavoro di infermiera e di accettare la mia proposta
di assunzione a tempo indeterminato.
Naturalmente, parlai anche della proposta economica.
Le offrii uno stipendio doppio di quello che le dava l’ospedale
e di metterla in regola con la questione previdenziale.
Inoltre le assegnavo una congrua somma assicurativa di
garanzia indipendentemente dai diritti previdenziali. Sì!
Largheggiai un po' con le offerte, per convincerla ad accettare.
Accettò!
Le consigliai di non interrompere completamente il
rapporto con l’ospedale nel caso si dovesse pentire e di richiedere
una aspettativa di almeno due anni, nel caso dovesse
pentirsene. Accettò pure questo mio consiglio.
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11
Dopo qualche anno, avvenne un fatto inaspettato.
La madre di lei si ammalò e, purtroppo morì, lasciandola
sola. Il padre aveva già preceduto la madre avendola lasciata
orfana in tenera età L’evento funesto mi dette l’occasione
di affrontare il secondo passo del mio progetto.
– Maria, le dissi, sono veramente dispiaciuto per il tuo
lutto. Mi preoccupa il fatto che tu resti sola a casa senza
tua madre. Ti chiedo di venire ad abitare con noi. La casa
che ho è grande. Scegli uno degli appartamenti liberi. Fermo
restando il tuo rapporto di lavoro con me, ti chiedo di
far parte della mia famiglia. Ti tratterò come se fossi mia
figlia.
Maria accettò e accettò pure di sposare il mio Adorino,
diventando di fatto mia figlia. La pregai solamente, come
medico, di non mettere al mondo dei figli adottando le
precauzioni previste, poiché non era possibile prevedere le
trasmissioni dell’anomalia di Adorino agli eredi.
Le raccontai della disavventura di mio figlio nel nascere,
la resi edotta delle limitazioni cui egli era sottoposto
non certo per colpa di qualcuno; la pregai di volerlo accudire
sempre non solo come marito, ma anche come quel
bambino che era rimasto.
Aggiunsi che le sarei stato grato per tutta la vita e… lo
sono ancora, anche se non sono più dentro il mio corpo.
Una storia questa, finita bene, poiché Maria si era già affezionata
ad Adorino e quest’ultimo manifestò tutto il suo
entusiasmo per avere una compagna di giochi per tutta la
vita.
Maria si è rivelata effettivamente una ragazza buona e
amorevole, sempre pronta a fare del bene e a rispettare
quel suo marito-bambino, ad avere rispetto e attenzioni filiali
per me e per mia moglie.
Come medico e come uomo avrò avuto le mie pecche e
ammetto di non essere sempre riuscito a svolgere bene i
miei compiti, ma questa operazione inerente all’avvenire
di mio figlio è il mio capolavoro. Ritengo di aver fatto del
bene anche a Maria, per la ricaduta affettiva manifestata
da lei nei confronti della mia famiglia e in particolare di
mio figlio e sono certo che qualche lacrimuccia avrà bagnato
il suo viso a causa della mia dipartita.
Credo nella riconoscenza.
Quando ripenso alla vicenda di mio figlio Adorino, mi
sento turbato e frustrato per non aver saputo, da medico,
trovare una soluzione idonea a farlo rientrare fisicamente
tra le persone normali.
Ho certamente trovato una valida soluzione alternativa,
ma dal punto di vista prettamente medico, niente! Per questo
ho sempre sentito il disagio per la sua mancata guarigione.
Proprio per questo adesso sento il bisogno di fuggire da
me stesso in quanto medico per rifugiarmi in un posto remoto
e asettico, dove cancellare questa mia pena.
Ma se ciò è problematico per le persone vive, figuriamoci
per i morti, che non possono nemmeno muoversi e in
più costretti a restare immobili in eterno.
Questo sarà il mio cruccio per l’eternità.
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12
Vedo accanto a mia moglie, mio figlio Secondo insieme
alla sua compagna. Indovinato! L’ho chiamato Secondo,
perché è arrivato secondo.
Il primo è stato Adorino.
Prima che venisse al mondo, quest’ultimo, nell’intento
di voler interrompere quel continuo rincorrersi di padre in
figlio dei nomi Giuseppe e Giosuè, avrei voluto chiamarlo
Primo, ma la faccenda di essere nato prematuro, mi fece
cambiare opinione. Lo chiamai Adorino, perché era adorato
da me e mia moglie.
Quasi un pegno per l’amore che gli portavamo.
Il successivo figlio, che adesso in chiesa sta assistendo
al rito che mi riguarda insieme alla sua compagna, lo chiamai
Secondo. La moglie, da cui si è separato, non la vedo
tra i partecipanti al mio funerale. Non è venuta.
Forse ha fatto bene; non credo che la sua presenza sarebbe
stata gradita. Lo ha capito anche lei. Però, era una
bella donna, bionda procace, ben fatta e curata in ogni piccolo
particolare. Avrebbe dato lustro alla mia festa!
Con lei, Secondo non ha avuto il tempo di avere dei figli,
ma forse era stata lei a decidere di non averne. Era
molto su di se e a tutto pensava piuttosto che a circondarsi
di marmocchi. Non nascondo di averla giudicata subito
una narcisista e una poco di buono e che non legai molto
con lei.
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Ritenni, non a torto, che Secondo non avesse fatto
un’ottima scelta, ma non gli manifestai la mia opinione.
Ho sempre rispettato le decisioni dei miei figli.
Nemmeno mia moglie era riuscita a legare con lei.
Venne comunque accettata in famiglia senza alcuna limitazione
affettiva.
Non so dove e come l’avesse conosciuta. Probabilmente
in una balera, oppure per strada. Non so; mio figlio non
me lo ha mai confidato.
Un bel giorno si è presentato a casa con questo bel pezzo
di figliola e mi ha detto senza tanti complimenti: –
Papà mi sono innamorato. Ti presento Stefania.
Che cosa potevo rispondergli? Niente! Non avevo alcun
potere per oppormi e nemmeno per accettare la sua
decisione.
Erano entrambi maggiorenni. Secondo era anche laureato
in lettere e filosofia. Ovviamente, non aveva alcun
lavoro e, da quanto potei capire, nemmeno lei aveva un lavoro.
Dai primi approcci, capii che non doveva avere una
istruzione profonda. Infatti seppi dopo che aveva la licenza
di scuola elementare, cioè, quella della scuola dell’obbligo
di una volta. Per il resto si presentava bene. Capelli
biondi, labbra e unghie regolarmente rosse, una minigonna
da capogiro, gambe affusolate e seno prorompente. Il povero
Secondo aveva perso la testa per lei, che lo aveva
ubriacato di sesso.
Ho motivo di presupporre che Secondo non fosse stato
il suo primo amore. Anzi ritengo che fosse l’ultimo arrivato
di una nutrita precedente schiera.
Non espressi il mio giudizio negativo. Avevo il problema
di Adorino, che aveva ancora bisogno di essere accudito
e di cui mi preoccupavo. Secondo non aveva bisogno di
essere accudito. Aveva tutte le facoltà mentali e fisiche per
prendere le decisioni che volesse. Era anche in possesso di
tanto di laurea, che attestava la sua piena maturità.
Non aveva bisogno di una mia approvazione. Dovevo
piuttosto ringraziarlo per avermi fatto conoscere la fidanzata,
ma non sapevo che era già sua moglie…
Rimasi letteralmente basito, quando appresi che erano
già sposati, quando me l’aveva presentata.
Ai miei tempi non era affatto così. A scegliere la donna
da dare in sposa ai figli era il padre e vi era tutta una procedura
con la sua famiglia. Ormai le cose erano cambiate
e, poi, onestamente, non me la sentivo di far pesare la mia
volontà sulla scelta dei miei figli.
Quando me la fece conoscere, dissi: – Benissimo! Mi
complimento per la scelta. Ditemi quando volete sposarvi.
Mi dissero, lasciandomi di stucco, di essersi già sposati
al municipio da circa un mese e, quindi che erano marito e
moglie. Non era necessario andare in chiesa. Bastava il
rito civile.
Non nascondo che masticai amaro e che pure mia moglie
ci rimase male.
Non mi restò che assegnargli uno degli appartamentini
della villa che avevo già da tempo costruito. Mi chiese di
dargli i soldi per arredarlo. Glieli detti. Per me non era un
problema. Grazie a Dio, a mio padre, a mio suocero e alla
mia professione, il denaro non era per me un problema.
Gli aprii anche un conto in banca, assegnandogli una so-
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stanziosa sommetta. Mi sembrava inopportuno chiedere a
Secondo che lavoro facesse e se gli rendesse abbastanza
per vivere.
Da quanto emergeva da certi discorsi precedenti, credo
che insegnasse in un istituto privato e che scrivesse qualche
articolo per un giornale. Poca roba, ma non aveva alcuna
necessità o impellenza. Si pranzava e si cenava tutti
insieme, a mie spese chiaramente.
Entrambi passavano il tempo allegramente e senza pensieri.
Mi aspettavo che lavorassero per regalarmi il primo
nipote, ma non spuntava niente all’orizzonte né mi permettevo
di avanzare richieste in tal senso.
La vita scorreva limpida e beata per entrambi ed era anche,
in un certo senso, regolare. Avevano entrambi il giorno
assegnato nella settimana per andare a teatro o al cinema
o per andare a ballare. Avevano molti impegni con gli
amici e inoltre lei, la Stefania, ogni martedì immancabilmente
si assentava per andare a trovare sua madre che, diceva,
abitasse nel messinese; passava la notte da lei e il
mercoledì rientrava in tempo per pranzare.
Appresi che il padre era morto quando ancora lei era
bambina e che la madre si era risposata con un signore del
messinese. Non ho mai conosciuto né l’uno, né l’altra. Né
lei manifestò mai l’intenzione di presentarceli. Mio figlio
l’aveva lasciata libera di poter andare a trovare sua madre
quando volesse. Anche lui non aveva avuto modo di conoscere
questi suoi suoceri, accettando supinamente quanto
lei le aveva detto.
Sembrava che Secondo e Stefania vivessero d’amore e
d’accordo e che tutto tra loro due filasse liscio. Infatti, mai
una lite, mai uno screzio, mai una discrepanza. Bacetti e
abbracci a profusione.
Tutto così, finché un fatidico martedì lei, partendo
come al solito, in macchina verso Messina per andare a
trovare la madre, non dimenticò a casa lo “smartphone”,
che incominciò a squillare sul comodino.
Secondo, per correttezza e rispetto della “privacy” della
moglie non aprì il telefono e lo lasciò squillare a vuoto.
Ma ecco, che dopo appena dieci minuti esso ritornò a
squillare. Non rispose nemmeno questa volta.
Passati altri dieci minuti sentì il suono caratteristico del-
l’avviso di un “SMS”. A questo punto il buon Secondo
pensò che forse la madre di Stefania avesse qualcosa da
comunicarle d’urgenza e pensò di fare cosa buona leggendo
il messaggio.
Armeggiò con il dito ed ecco comparire un messaggio
un poco strano firmato da un “tuo Ugo”. Il contenuto era
inequivocabile: Ugo stava crepando dal desiderio di baciarla
e chiedeva piccato perché non avesse risposto alle
sue due precedenti chiamate vocali. Secondo rimase di
stucco. Non poteva essere! Qualcuno aveva sicuramente
sbagliato numero.
Ma poi un dubbio atroce lo punse. Cominciò a scorrere
gli SMS precedenti.
C’era sempre il solito Ugo che vomitava salamelecchi a
iosa, con allusioni dettagliate sull’ultima volta. Andò a
scorrere gli SMS inviati da Stefania al solito Ugo e scoprì
la corrispondenza d’amorosi sensi tra i due con i dettagli e
i particolari del piacere provato di volta in volta. Apprese
pure, per l’occasione, di essere un insulso e sopportato in-
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comodo tra loro due, ma che non conveniva essere lasciato
perché pieno di soldi, ma se lui, Ugo, volesse… Ugo rispondeva
che lui non voleva e che gli stava bene così.
Anzi, diceva, che lo stimolava molto di più il fatto di mettere
le corna a suo marito.
Povero Secondo! Lui così fiero e pieno di sé si sentì
non solo cornuto, ma anche offeso! Venne da me a dirmi
dell’accaduto e mi chiese consiglio su cosa fare.
“Che consiglio vuoi? – risposi – Le soluzioni sono due:
o ti stai zitto e sopporti oppure la butti fuori di casa” Scelse
di buttarla fuori di casa.
Quando Stefania ritornò a casa preoccupata di sapere
dove avesse smarrito il suo telefono mobile, ebbe la brutta
sorpresa di trovare una valigia pronta davanti all’uscio con
le sue cose e un bigliettino con un epiteto che la qualificava.
Bussò alla porta, che restò chiusa. Prese dalla sua borsetta
le chiavi che anche lei aveva della casa ed entrò. Non
vi era nessuno. Cercò il suo telefonino, ma non lo trovò.
Capì di averlo dimenticato a casa e che era finito in
mano di Secondo, che aveva scoperto la sua tresca con
Ugo.
Attese il rientro del marito, preparando la scena madre.
Gli disse che aveva equivocato, che Ugo per lei era come
un fratello. Quando si accorse di non essere creduta si gettò
ai suoi piedi e gli chiese perdono, che, ovviamente, non
ottenne.
A questo punto giocò la sua carta estrema. Gli disse
chiaro e tondo che lei non sarebbe andata via, che quella
era la sua casa e che ad andarsene, se non ci stava, fosse
proprio lui. Sperava in tal modo che Secondo, per tema di
non subire la nomea di cornuto, accettasse di tenerla in
casa senza ricorrere alle vie legali. Ma non fu così poiché
mio figlio dette l’incarico all’avvocato di chiedere il divorzio
per infedeltà e ottenne di sbatterla fuori di casa per
via legale.
Scomparsa Stefania, a prendere il suo posto in veste di
compagna c’è adesso Caterina, che, in verità conosco
poco. Aspetto più modesto di quello di Stefania. Non è
bionda ma castano-chiaro. Non mi ha parlato di matrimonio
né potrà parlarmene visto questo mio incidente di percorso.
Sembra essere dispiaciuta per la mia scomparsa. Non
so che dire. Forse si sposeranno o forse no. Non lo so.
Per una mia scelta etica, mi sono imposto di non limitare
la libertà dei miei figli, anche se dovessero sbagliare. In
special modo adesso non posso intervenire, anche volendo,
per l’acquisita mia nuova dimensione umana.
Sono intervenuto solo nei confronti di Adorino, perché
proprio lui aveva bisogno di essere guidato.
Quello che mi dispiace è che nemmeno Secondo mi ha
dato il piacere di farmi stringere tra le braccia un nipotino.
Forse lo farà in seguito, ma io non potrò averne più la gioia.
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Non solo nei confronti di Secondo sono mai intervenuto
riguardo ai rapporti di cuore, ma nemmeno in quelli di
Terzilia, l’ultima mia nata ed anche collega di lavoro.
Dopo i due maschi a ingrandire la mia famiglia, è arrivata
lei, particolarmente gradita da mia moglie, felice di
avere infine una bambolina da coccolare.
È cresciuta bene Terzilia.
Carina, brunetta, affezionata a me e a sua madre, particolarmente
studiosa, ma dotata di una autostima forse eccessiva,
che la rende caparbia e pertinace.
Brava a casa, brava a scuola ed anche stimata da tutti.
Aveva scelto, dopo la maturità classica, di frequentare
la facoltà di medicina, nonostante il mio diverso consiglio.
Ritenevo che sarebbe stata molto impegnativa la professione
di medico per una donna.
Io, da uomo, ne sapevo qualcosa.
Le consigliai di scegliere una facoltà che le consentisse
di vivere una vita professionale più serena e meno irta di
responsabilità, ma lei scelse di seguire le mie orme.
“Papà – mi disse – Io credo nei tuoi stessi ideali. Voglio,
come te, dedicare tutta la mia vita ad alleviare le sofferenze
dell’umanità e aiutare il prossimo a superare il dolore".
Mi venne a tappo di risponderle che avevo semplicemente
seguito il desiderio di mio padre di avere un figlio
medico, e che lei farebbe bene a seguire il mio consiglio.
Ma non lo feci.
Non mi andava che mia figlia cancellasse quel bel giudizio
che aveva nei miei confronti. Sentirmi giudicare da
lei come un santo taumaturgico, pieno di idealismo eroico
mi riempiva di soddisfazione e orgoglio.
Non la ostacolai, quindi, anzi cercai in ogni modo di
spianarle la strada da seguire.
I risultati vennero e furono strepitosi.
Dopo la laurea con trenta e lode, seguì la specializzazione,
il dottorato e l’incarico al policlinico a tempo indeterminato.
Anche lei, come Secondo, un bel giorno mi disse che
frequentava un ragazzo, che le piaceva. Era un giovanotto
laureato di fresco in medicina. Me lo fece conoscere e
concessi loro il beneplacito di frequentarsi e di cui veramente
non ne avevano sentito il bisogno.
Instaurai con lui un buon rapporto. Giudicai che Terzilia
avesse fatto un’ottima scelta.
Certamente non gradivo tanto le gite e i viaggi che facevano
di tanto in tanto insieme, come se fossero già sposati.
Affiorava in me la vecchia mentalità del padre tradizionalista
e suggerii a mia figlia di sposarsi subito. Mi rispose
netta e concisa che non era ancora pronta per affrontare
il matrimonio.
Accettai la sua risposta e lasciai correre. Andavano d’amore
e d’accordo lei e Corrado e, coerente con me stesso
rispetto a Secondo, non mi intromisi più di tanto nei loro
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rapporti. Erano abbastanza maturi per autodeterminarsi e
decidere del loro futuro.
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Infine Terzilia cominciò a parlare di futuro matrimonio
con sua madre, scegliendo e preparando il corredo e accettando
tutti i consigli necessari per la buona riuscita della
festa di rito, che doveva avvenire in chiesa con l’abito
bianco, i fiori d’arancio e tutte quelle cose che ancora la
tradizione imponeva.
Ma ecco che di punto in bianco il loro rapporto cessò.
Ci rimasi male, ma mi preoccupai anche dello stato d’animo
di Terzilia. Le chiesi cosa fosse successo di così grave.
– Niente, mi rispose, non fa quello che dico io. – Ma
cosa? – le chiesi io.
Appresi così che Corrado, essendo orfano di padre, intendesse
abitare con lei, dopo il matrimonio, nella casa di
sua madre a Palermo.
Replicai, che era una cosa buona anche per lei, ma Terzilia
non la pensava così e gli disse chiaro e tondo che a
tale soluzione preferiva scegliere di non vederlo mai più.
E Corrado questo fece!
Non nascondo che mi preoccupai delle conseguenze di
quella rinuncia sullo stato d’animo di Terzilia.
Con mia grande sorpresa, la faccenda non le procurò
alcun disagio.
Restai sorpreso nel constatare che non anteponeva i
suoi sentimenti ai principi in cui credeva. Fu in quell’occasione
che capii quella frase in latino che lei era solita
scrivere sulla prima pagina dei suoi diari scolastici: NIHIL
OBSTAT PRINCIPIIS.
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Dopo circa sei mesi da quella separazione… consensuale
appresi che Corrado si era sposato con un’altra e che
Terzilia era… in stato interessante, non causato da lui, ma
da Giancarlo, medico anche lui, conosciuto subito dopo.
Non nascondo di essere rimasto sbalordito nel constatare
quell’improvviso e repentino risvolto, ma non mi restò
che accettare la situazione e badare alla soluzione del problema
di mia figlia, ossia il suo stato di salute.
che insieme allo stato di gravidanza si era manifestata
l’esistenza di un fibroma, la cui esportazione avrebbe
comportato, oltre all’aborto, la perdita dell’utero e l’impossibilità
di poter avere in futuro altre gravidanze.
Pertanto Terzilia optò di non ricorrere in nessun caso
all’aborto terapeutico e di portare avanti la gravidanza.
Tale soluzione non venne accettata dal padre, Giancarlo,
che non intendeva assumersi la responsabilità di avere
un figlio, non accettando, il richiesto matrimonio da parte
di Terzilia e nemmeno il riconoscimento della paternità
del nascituro.
Terzilia accettò che il matrimonio non avesse luogo.
Gli spiattellò in faccia che non aveva che farsene della sua
presenza, ma pretese il riconoscimento della paternità di
suo figlio da parte di Giancarlo. Il netto rifiuto di quest’ultimo
causò un’antipatica, quanto odiosa causa giudiziaria,
conclusasi con la definitiva separazione dei due, ma con il
riconoscimento coatto e giudiziale della paternità, dimostrata
dall’inconfutabile esame del DNA.
Nelle more del giudizio, Giancarlo si alienò delle proprietà
che aveva ereditato dal padre, poiché pensava che
l’azione di Terzilia fosse diretta a estorcergli del denaro.
Cosa, quest’ultima, non presa in considerazione da mia figlia,
che di soldi non ne aveva bisogno proprio.
Era semplicemente arrabbiata perché Giancarlo aveva
osato definirla donna di facili costumi, facendo palesare
l’ipotesi che quella gravidanza fosse frutto di chissà quale
altra relazione strumentalizzata al fine di ricattarlo.
Adesso Terzilia era lì in prima fila ad assistere al mio
rito funebre insieme al suo figliolo, mio unico nipote e che
porta anche il mio cognome, avendo ella rinunziato a dargli
quello del padre pur avendone ottenuto giuridicamente
il diritto.
Di quel Giancarlo in chiesa non c’era nemmeno l’ombra.
Con mia grande sorpresa, tra gli astanti, invece, c’era
lui, Corrado con aria contrita e silenzioso. Lo seguii con lo
sguardo e alla fine della cerimonia, lo vidi abbracciare
quel mio unico nipote e mia figlia Terzilia, a cui vidi
spuntare dagli occhi stupiti, le lacrime, che non erano, proprio
quelle, frutto della mia dipartita. Lei, dopo averlo abbracciato,
la vidi poggiare il viso sul petto di lui e poi
guardarlo in estatica contemplazione.
Dovevo proprio morire per darle la certezza di quello
che io avevo intuito circa la bontà di quell’uomo, la sua
correttezza e l’amore che le aveva sempre portato.
Lo sentii pronunziare con voce emozionata:
– Mi dispiace per il tuo dolore. Vorrei tanto poterti
sempre abbracciare e amarti, ma non posso venir meno ai
doveri della mia famiglia. Ti voglio bene. –
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Lo vidi baciarla sulla fronte, allontanarsi e perdersi tra
la folla degli astanti, mentre un mesto sorriso si stampava
nella mia anima.
Dovevo proprio morire per assistere a una scena di profonda
sensibilità da parte di un uomo, dopo tutte quelle
atrocità ascoltate dalla cronaca nera nei confronti delle
donne.
Non omisi di considerare quanto sciocca fosse stata
mia figlia per essersi fatto scappare una simile persona, in
ottemperanza a quel maledettissimo “nihil obstat principiis”.
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Toh! Ma guarda! C’è anche Piggy. Vecchio birbone,
sei venuto anche tu a darmi l’estremo saluto. Non me lo
aspettavo proprio. Vedo che sei ridotto un po’ maluccio.
Cerca di riguardarti, altrimenti ti può capitare quello
che è avvenuto a me.
Ti confesso che sto scomodo dentro la bara. Soprattutto
non dimenticare, come ti ho sempre raccomandato, di tenere
sotto controllo la pressione arteriosa. Se supera i limiti
previsti danneggia il cuore, che può scoppiare e, in ogni
caso, non regola bene la circolazione del sangue e a lungo
andare danneggia le arterie e tutti gli organi e diventi un
po’ cieco e mezzo sordo.
Non ho mai dimenticato le bravate che combinavamo
insieme specialmente nel periodo della festa della matricola.
Adesso è quasi scomparsa. Anzi non so se la si fa più.
Ma allora, che divertimento!
Adesso ti vedo lì. Compunto e mostri il tuo dispiacere
per la mia dipartita. Però io di te conservo sempre la tua
immagine sbarazzina non solo dei vecchi tempi della gioventù,
ma anche quelli della maturità.
Ricordo ancora, quando venivo a trovarti nel tuo reparto
vestito da clown Indossavi il camice bianco, ma il viso
colorato. Occhiaie disegnate e naso a patata rosso con al
collo lo strumento per misurare la pressione e nel taschino
a sinistra del camice bianco una biro nera e una rossa.
Portavi anche nella tasca delle caramelle o dei dolcetti
di cioccolato, che usavi per ingraziarteli. La prima volta
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che ti vidi restai sorpreso, ma tu mi spiegasti che visitavi i
tuoi piccoli pazienti in quella positura per non spaventarli
e farli sentire a loro agio. Li visitavi giocando e scherzando.
Un sistema metodico veramente efficace. Tutti i bambini
hanno paura del dottore, che fanno loro la bua con le
punture e maneggia a volte degli attrezzi che sembrano
quelli di tortura.
Mi sarebbe piaciuto che fossi venuto agghindato in
questo modo per dare una nota d’allegria a questo rito mesto
che mi raccomanda al Padreterno.
Certamente chi è ammalato si trova in una posizione
non certo comoda e felice. Immagino che per i bambini sia
molto più doloroso. Far capire loro che si voglia giocare,
senza far recepire la gravità del loro male, sia una cosa
ben fatta. Li aiuta a superare le limitazioni e a guarire prima.
Suvvia non ti affliggere per il fatto che io me ne sia andato.
Avviene sempre così nella vita. Lo sai benissimo.
Pensa a curare te stesso sempre per poter essere di aiuto ai
tuoi piccoli pazienti.
Vedo che sei sempre solo. Dopo quel disastroso matrimonio
decidesti di restare “single” e vedo che continui a
esserlo.
Dice il proverbio: “Megghiu sulu ca malu accumpagnatu!”
16
È venuta pure la vecchia signora Carapelli, agghindata
come al solito, sempre in guerra con i suoi capelli.
Nemmeno in questa occasione ha evitato di bistrarsi gli
occhi e mostrare la sua eleganza, nonostante i vistosi solchi
sulla guancia, mascherati dal rossetto.
Del resto, lo faceva quando veniva allo studio per farsi
visitare e lo fa anche oggi per darmi l’estremo saluto.
– Buongiorno – saluto – carissima signora Anna Carapelli
dagli occhi belli, dai fluidi capelli, e tutti gli attributi
in “elli” che conosco.– –
Ma Lei non mi ascolta. Diciamo che non mi può ascoltare,
trovandosi in uno stato diverso dal mio. Ma forse mi
sta ascoltando perché vedo che si sta stropicciando l’orecchio.
Boh! Intanto parlo e se non avrà recepito, pazienza!
Non ho nulla ormai da perdere e il tempo per me non ha
alcun significato.
Rivedendola, mi viene in mente l’episodio che, l’ultima
volta allo studio, finita la visita medica, le ho ricordato
con un po’ di “innocente” malizia e che mi premuro di richiamarle
alla mente.
Se sorriderà come allora, sicuramente mi avrà ascoltato.
Allora ci frequentavamo, insieme ad altre coppie di
amici, con i quali si era soliti partecipare a delle gite anche
e sopratutto all’estero.
73
Lei, carissima Anna, sempre procace elegante e bella,
con gli occhi stupendamente bistrati, era sposata con Mario,
un mio caro collega nativo del Nord, un poco smilzo,
pelato, occhialuto e una pronunciata pancetta da commendatore.
Sarebbe stato in verità anche lui simpatico, se non
avesse avuto il vezzo di decantare a ogni piè sospinto la
superiorità della razza bianca rispetto a quella negra, che
definiva addirittura un errore della natura.
Era di tanto convinto, che lavorava ad un suo particolare
studio, mirante a dimostrare la sua tesi e che, purtroppo
per lui, non è riuscito a completare, avendomi preceduto
nell’aldilà.
In occasione di una gita a Parigi, durante la quale era
previsto uno spettacolo al famoso Crazy-horse, per un banale
errore della guida nella distribuzione dei biglietti
d’ingresso precedentemente acquistati, Lei, Anna, prese
posto accanto a me e Mario andò a finire in un altro poco
distante, sicché io mi trovai ad avere a sinistra mia moglie
e a destra Lei.
Lo spettacolo di cui parlo consisteva in un balletto di
odalische velate insieme con un solo maschio, un nerboruto
e statuario negro, quasi in costume adamitico, con uno
slip che a stento copriva i suoi intimi attributi abbastanza
prorompenti.
Le sue movenze facevano risaltare la sua “tartaruga”, i
suoi muscoli e tutto il resto.
Le odalische, semi-nude, gli giravano attorno come i
pianeti intorno al sole dimenandosi e toccandolo in una
ridda confusa e suadente al suono della musica, ora dolce,
ora squillante, ora enfatica. Ovviamente mostravano di essere
attratte dal gigante negro che troneggiava al centro
del palcoscenico, investito da luci psichedeliche che ne accentuavano
le forme e i muscoli.
Lo scopo dello spettacolo era quello di rappresentare
lubrici pensieri di lussuria che suscitava la figura statuaria
del gigante negro nelle odalische. Al colmo dell’esplosione
di luci e di movenze di queste ultime, avvenne che a un
certo punto dello spettacolo, mi sentii stringere la mano da
Lei, Anna, che, quasi in delirio, esclamava: “Mamma mia,
ma questo è un DIO negro! Magari fosse così il mio Mario!”
E dire che Mario la tartaruga l’aveva pure lui davanti,
ma posta al contrario sulla pancia!
Fu così che mi resi conto dell’avversione di Mario, settentrionale,
per i negri, sporchi, brutti e… sottosviluppati.
No! Non ha sorriso la Signora Carapelli… Evidentemente
non ha recepito il mio ricordo. Prendo atto che la
mia voce non potrà più essere sentita da alcuno.
Ma cosa fa, Signora Carapelli? Le ricordo che è venuta
al mio funerale e che dovrebbe stare più attenta allo svolgimento
del mesto rito che mi riguarda, invece di badare
ad aggiustarsi i capelli a ogni piè sospinto. Stia tranquilla!
Sta proprio bene. È sempre elegante come sempre.
Ma che fa? Sbircia di tanto in tanto verso destra? Ma
chi sta guardando!? Deve volgere lo sguardo verso l’altare
ai cui piedi c’è la mia bara. Capisco che è venuta non certo
per il dolore della mia perdita, ma sicuramente per ave-
75
re l’occasione di fare bella mostra di se. Mica siamo nel
mio studio, dove la vedevo occhieggiare e atteggiarsi a
donna fatale.
Ma vediamo verso chi ha rivolto lo sguardo… Ma sì! È
lui il mio giovane infermiere, quello di sempre. L’avevo
capito che Lei gli aveva messo gli occhi addosso da parecchio.
Adesso ne ho la conferma.
Certo non è prorompente come il dio negro visto a Parigi,
ma è sempre un bel ragazzone.
Come sempre, ogni occasione è buona per arrivare al
dunque. Sarei proprio curioso di sapere fino a che punto
sia riuscita ad attirarlo nella rete.
Da quanto mi è dato ricordare, mi sembra che i suoi attacchi
siano andati sempre a vuoto, come quello nei miei
confronti al Crazy-horse.
Il giovanotto non sembrava per niente turbato delle sue
attenzioni e non lo sembra nemmeno adesso.
17
Vedo lì, in fondo alla chiesa, anche Giulia. Poverina. È
ridotta un po’ maluccio. Nonostante gli anni è venuta anche
lei a darmi il suo estremo saluto.
Era da parecchio che non la vedevo più. Esattamente da
circa una decina di anni, data in cui andò in pensione.
Era tra le più attive delle infermiere che facevano parte
del mio reparto ospedaliero. Instancabile veramente e inoltre
mostrava una bontà e una professionalità non comune.
E dire che la sorte non era stata tenera nei suoi confronti.
Fu durante uno di quei giorni che la vidi mesta, quasi
con le lacrime agli occhi, che mi raccontò la sua storia.
Orfana di padre fin da bambina era vissuta con la madre
che aveva finito per relegarla in un collegio per rifarsi
una nuova vita con un altro uomo.
Lei, pertanto era vissuta distante dall’affetto materno,
con il bagaglio delle buone norme apprese nel collegio
delle Orsoline che si erano occupate di lei.
Non pensò mai di restare con loro e diventare suora.
Tuttavia, grazie a loro, frequentò un corso interno per infermiera
ottenendo un attestato che le servì per poter accedere
al servizio ospedaliero nazionale. Fu in quel periodo
che conobbe un uomo che le disse di amarla.
Lo sposò a cuor leggero, sicura di aver trovato l’uomo
che la rendesse felice per tutta la vita. Ma non fu così.
Dopo la nascita della figlia Luisa, le cose cominciarono a
77
non andare per il giusto verso. Egli la abbandonò per
un’altra donna.
Delusa, ma fortemente motivata, dedicò tutta se stessa
all’educazione della figlia e al lavoro.
La cocente delusione, inoltre, la spinse a trovare conforto
in se stessa e nelle sue capacità espressive. Le nacque
in animo la volontà di scrivere i suoi pensieri per poterli
un giorno rileggerli e così conoscere ancora di più la
sua indole.
Cominciò a scrivere una sua biografia, una specie di
diario, dove esprimeva i suoi sentimenti annotando tutti i
trascorsi della sua vita. Parlò delle sregolatezze della madre,
della tentata violenza del patrigno, della sua “fuga”
presso il convento delle Orsoline, del suo disgraziato amore
per un uomo che aveva tradito le sue aspettative, degli
sforzi per superare gli attimi di crisi e infine il trionfo della
sua tenacia.
Incoraggiata dall’illustre poeta siciliano Buttitta, che
ebbe modo di conoscere, grazie a questa sua nuova passione,
si cimentò a scrivere delle poesie in vernacolo e affrontò
pure la fatica di sbarcare nei racconti pure in vernacolo.
Avendo poca dimestichezza con la lingua italiana
trovò molto spontaneo scrivere in dialetto. Ciò le permise
di descrivere con molta naturalezza i suoi sentimenti.
Incoraggiata sempre dal Buttitta, cominciò a pubblicare
i suoi scritti. Fu così che mi regalò alcuni dei suoi libri che
adesso si trovano nella mia biblioteca, che purtroppo non
avrò più modo di curare.
Ebbi in questo modo la possibilità di conoscerla meglio
e di apprezzarne le qualità di donna forte e volitiva.
La persi di vista poiché io dovetti cambiare ospedale
per motivi inerenti al servizio sanitario nazionale e ora eccola
qui e vederla mi ha fatto piacere. Nel senso che lei
prova per me dell’affetto. Non pensate che sia felice che
io sia morto!
79
18
Vedo anche alcune delle mie pazienti che sono venute a
salutarmi… Ma si me l’aspettavo che venisse la signora
Mariuzza Barbagianni, l’eterna ammalata di sempre e
sempre alla ricerca della gioventù perduta.
Accipicchia, quante malattie! Qualcuna, anzi quasi tutte
immaginarie, poiché il resto faceva parte del suo stato
di età. In effetti, la vera propria e sola patologia che avesse
era “la diabete”, come chiamava “il diabete” e veniva soprattutto
per farsi fare “gli analisi” periodici.
A nulla bastavano le dosi di insulina e il fervido consiglio
di non mangiare dolciumi di cui era ghiotta. A lungo
andare l’eccesso di zuccheri le aveva provocato dei danni
alla retina degli occhi e, per questo, quest’ultima andava
soggetta a interventi di ricucitura con il laser, in verità antipatici,
ma non per niente pericolosi e dolorosi.
Aveva il terrore di diventare, prima o poi, cieca, ma
non sapeva astenersi dal mangiare un bel cannolo alla ricotta
o al cioccolato e tutte quelle specialità dolciarie di
cui Catania abbonda.
Elegante, come sempre, ha il solito foulard azzurro al
collo, cui non ha saputo rinunciare nemmeno in questa occasione
dove troneggia il nero, poiché richiama il colore
dei suoi poveri occhi, che dice di adorare come fossero i
suoi figli.
Tutte le volte che veniva a farsi visitare era un fiume
inarrestabile di richieste e di malanni, che accusava in
continuazione. Non mancava di farsi prescrivere delle medicine
“da banco” che non avevano necessità di ricetta. Le
prendeva perché la facevano stare meglio.
Fu a causa di questo suo male agli occhi, che fu vittima
di una truffa, organizzata a suo danno dal famoso mago
che si faceva chiamare “Horus”, che, come le spiegò personalmente,
era il nome di un falco egizio, che aveva una
lunga storia legata al suo occhio. Le disse chiaro e tondo
che in lui si era incorporato lo spirito di questo uccello,
dotandolo della forza di vincere tutti i mali che riguardavano
la vista.
Lei, che era andata dal mago proprio per guarire di quel
male che i medici non erano riusciti a guarire, prese per
oro colato tutto quello che le diceva di fare.
Le disse che per guarire del suo male bisognava dare
l’illusione al diavolo di essere pagato con moneta contante
e per fare questo bisognava prendere sette milioni delle
vecchie lire, metterli in una busta, dire un’orazione particolare,
che solo lui conosceva, e murare la busta in una
parte nascosta della propria casa. Passati sette mesi da tale
operazione, durante i quali si sarebbe realizzato il miracolo,
la busta con i soldi poteva essere recuperata, gabbando
in questo modo il diavolo. Quel numero sette era importante,
perché richiamava i sette peccati mortali. Insomma
quel sette era il numero che piaceva al diavolo, che altro
non era se non un angelo, giudicato cattivo, ma in effetti
sempre di natura divina.
Lei si convinse della bontà di questa operazione e un
bel giorno il mago, munito di busta capace a contenere i
sette milioni, che dovevano essere di carte da cento mila
lire, di una piccozza e di una cazzuola con del gesso in
81
polvere, andò a casa sua e, scelto un angolo della lavanderia,
vi aprì una fessura nel muro abbastanza bastevole a
contenere la busta. Indi, presi i soldi che erano già da lei
approntati, li contò religiosamente, li introdusse nella busta
in questione e depositata quest’ultima nella fessura, la
murò con il gesso. Non mancò di recitare la sua orazione
segreta.
Passati i sette mesi, durante i quali lei andava dicendo
di stare meglio con gli occhi, telefonò al mago perché venisse
a recuperare i sette milioni di lire che erano stati murati.
Il mago trovò sempre una scusa per rimandare sempre
l’operazione di recupero.
Alla fine lei si decise di chiamare un muratore per disseppellire
la busta e recuperare i soldi, ma, con suo disappunto
al posto delle carte da cento mila lire, trovò dei corrispondenti
pezzi di giornale delle stesse dimensioni. Telefonò
al mago rendendolo edotto del fatto; egli rispose che
il diavolo era stato più furbo di loro e aveva scoperto l’inganno
operando un sortilegio a suo favore e che bisognava
accettare il suo operato per non fare ritornare il male.
Non fu dello stesso parere suo figlio informato dell’accaduto,
che denunziò il mago per truffa e circonvenzione
di incapace. Il mago venne condannato a un paio d’anni di
reclusione con l’obbligo di restituire i sette milioni. Cosa
quest’ultima che non avvenne mai essendo risultato povero
in canna.
Nonostante tale disavventura, lei ha continuato ancora
a frequentare maghi e fattucchiere alla ricerca di miracoli
per i suoi occhi, specialmente da quando l’oculista non le
ha detto che non c’era più possibilità di ricucire la retina
con il laser.
La vedo ammiccare a destra e a manca piegando in
avanti il collo per vedere meglio intorno a se. In effetti, oltre
alla retina danneggiata, soffriva di una miopia abbastanza
pronunciata che nemmeno l’età è riuscita a correggere.
Nell’insieme ha l’aspetto di una vecchia gallina in attesa
del gallo che la cerchi, agghindata come sempre con vestiti
colorati e le piume, volevo dire i capelli, freschi di
parrucchiere.
Immagino quante volte si sarà guardata allo specchio
prima di uscire per partecipare al mio funerale provando e
riprovando quel cappellino ridicolo che indossa.
83
18
La presenza al mio funerale di queste donne, dall’apparente
diversità di carattere e di interessi, mi fa tristemente
pensare al fenomeno dei nostri giorni di frequenti vessazioni
nei loro confronti, generalmente mogli, compagne di
uomini colpiti improvvisamente da manie omicide non
giustificate.
La stampa nazionale ha usato per questi genere di delitti
il termine di “femminicidio”. In effetti trattasi di omicidi,
termine con il quale la nostra giurisprudenza assomma
la privazione della vita con violenza nell’ambito del genere
umano.
In effetti il termine coniato a carico delle donne dice
qualcosa in più rispetto all’omicidio in genere. Si vuole
con tale termine indicare non solo l’omicidio di una donna,
ma, in particolare, la causa che lo determina, ossia, la
ribellione della donna nei confronti del padre o del marito
padrone. Sicché un uomo che uccide una donna, ad esempio,
in corso di una rapina è un omicidio sicuramente e
semplicemente. Ma se la donna, invece, viene uccisa dal
suo uomo, entra in gioco il termine di femminicidio poiché
si vuole anche indicare la causa di tale delitto, ossia,
come ho detto, la ribellione in difesa della propria personalità.
Purtroppo la donna nell’ultima parte del secolo scorso,
forte dei diritti acquisiti grazie al suo ingegno e alle sue
prerogative culturali, ha preso una figura ben diversa di
quella atavica, dominata in tutto e per tutto dall’uomo considerato
da sempre una figura preminente nella società.
Ricordo, a tal uopo, la figura del Pater familias romano,
padrone di vita e di morte non solo degli schiavi, ma anche
della moglie.
“Ubi tu Caius, ibi ego Caia” era il termine con cui la
moglie acquisiva il titolo di moglie, ma anche la prerogativa
di poter essere ripudiata senza alcun motivo. Era esplicitamente
detto che Caia doveva seguire Caio e non viceversa.
La prerogativa acquisita dalla donna di poter contrastare
lo strapotere dell’uomo, non è stato gradito in generale
dall’uomo la cui reazione si manifesta con la violenza,
unico mezzo per domare il sesso più debole fisicamente. È
questa dunque, la causa del “femminicidio”, molto difficile
da sradicare, poiché comporta la rieducazione culturale
della società umana.
Ritengo che il problema debba essere affrontato alla
base. Bisogna rieducare le masse alla mutata situazione
dei rapporti tra uomo e donna, da far poggiare sempre più
sulla parità dei due sessi nei confronti della giustizia sociale.
Siamo in presenza di un fenomeno sociale, dovuto a un
cambiamento radicale del vecchio modo di pensare e per
adeguarlo alle nuove generazioni, ha bisogno di essere affrontato
principalmente agendo sulla cultura fin dall’età
scolare.
85
Bisogna far capire fin dalla più tenera età alle masse
popolari che la parità tra i due sessi è una realtà e un valore
acquisito della società. Del resto è sotto i nostri occhi
che oggi la donna è un elemento che riesce a pari dell’uomo,
a disimpegnare i lavori che prima erano di sua esclusiva
competenza. È da dire inoltre che in alcuni campi le
donne riescano ad ottenere dei risultati superiori a quelli
degli uomini.
In questo cambiamento del modo di sentire la nuova
società, proiettata nel futuro, purtroppo lento, necessita per
accelerarlo una rigorosa applicazione delle leggi varate e
soprattutto una rieducazione costante e mirata delle nuove
generazioni, introducendo nuovamente la soppressa materia
scolastica definita Educazione civica fin dalle scuole
elementari, arricchendola dei significati che sono emersi
nel tempo nella politica e nel rispetto della personalità di
tutti i cittadini non solo relativamente al grado d’istruzione
ma anche al sesso.
19
Un’altra considerazione mi nasce spontanea a proposito
della mia professione di medico e di giustizia sociale.
Esercitare la professione di medico non è cosa facile! Lo
dico non a caso, ma in seguito alla mia esperienza in questo
campo.
Fin da quando ho cominciato a trattare la salute del
prossimo mi son chiesto se, da medico, dovessi restare impassibile
nei confronti del dolore altrui per poter meglio
esercitare il mio mandato etico oppure partecipare emotivamente
alla sofferenza del mio assistito di turno.
A questo mio quesito detti una risposta che maturò con
il tempo. Indubbiamente non potevo restare impassibile
nei confronti di chi soffriva a causa di un dolore e, pertanto,
dovevo praticare tutte le mie attenzioni per alleviarne
gli effetti, ma, nello stesso tempo, dovevo razionalmente
restare immune da sentimentalismi e applicare freddamente
i provvedimenti da prendere per vincere la malattia, attingendo
dal mio repertorio medico tutti gli elementi utili
alla bisogna. Ecco: dovevo essere comprensivo e cosciente
della sofferenza del paziente e contemporaneamente conservare
la freddezza necessaria per poterlo curare nel
modo più efficace.
Era questo quello che doveva restare alla base del mio
operare con la gente a prescindere da qualunque altra questione,
compresa quella economica.
Uno dei problemi etici della mia professione è stato
senza dubbio quello della richiesta da parte di un ammala-
87
to terminale di accelerare la sua morte per evitare le sofferenze
dell’agonia.
Può un medico aderire alla richiesta avanzata in tal senso
da un ammalato? Secondo la legge italiana non lo è stato
possibile perché impedito dalle leggi giuridiche in atto.
Solo di recente la Cassazione si è pronunciata in un celebre
caso in senso favorevole, consentendo al medico di
“aiutare” a morire il malato senza speranza se da lui richiesto.
Certamente su tutta la questione influisce moltissimo la
posizione religiosa del medico. La religione cattolica sostiene
che tale facoltà sia esclusiva competenza divina, essendo
solo Dio il padrone della vita di ogni singolo uomo.
Chi cattolico non è sostiene che padrone della propria vita
è l’uomo stesso, che può, quindi, decidere di morire quando
più gli fa comodo. Di una simile diatriba si ha contezza
anche in occasione dell’aborto volontario, ormai ammesso
dall’attuale normativa.
È mio pensiero, ormai senza alcun valore per il semplice
fatto di non essere più tra i vivi, che il caso di coscienza
non debba sussistere e che il medico del SSN debba adeguarsi
alle leggi che lo stato emana. In caso di crisi di coscienza
religiosa nell’applicare i dettami statali, il medico
deve semplicemente dimettersi dal suo incarico di strutturato
statale e così restare libero di seguire la sua fede religiosa.
Un’altra delle note etiche che interessa la professione
di medico è quella economica.
Entrato a far parte del SSN, non mi sono preoccupato
più di tanto della questione economica. A me bastava
quanto lo Stato mi dava per il mio servizio e non pensai
mai di esercitare un’attività professionale di tipo privato di
sicuro rendimento economico, pur restando disponibile a
intervenire fuori dal mio mandato statale, a titolo prettamente
umanitario e non retribuito.
Mi sembra più che giusto che il medico venga retribuito
in relazione alla sua professionalità, ma mi sembra anche
giusto che non sia motivo di un eccessivo arricchimento
sulle sventure del prossimo.
Purtroppo non tutti i miei colleghi la pensano in questo
modo, attratti dal miraggio del guadagno ad ogni costo.
L’esercitazione della professione medica è una grandissima
fonte di ricavo economico, poiché la gente, quando si
tratta della propria salute, è molto disponibile a spendere
senza alcun risparmio o limite.
Qualcuno, acquisito il titolo e la fama di illustre medico
specialista in determinate branche della medicina, si appresta
a mettere su degli studi privati, dove la gente, nella
speranza e acquisita certezza di essere curato bene, paga
salate parcelle.
Io ne conosco parecchi di questi medici, che mettono
su degli studi in alcune cittadine della provincia, dove ricevono
dei pazienti da visitare, previa prenotazione extra
servizio sanitario nazionale e a pagamento.
Quando tu hai, purtroppo, la necessità di entrare in uno
di questi studi, ti sembra di entrare in un museo della
scienza medica.
89
A parte il diploma della laurea, che troneggia sul muro,
è possibile rilevare quadri appesi con attestati di merito, di
partecipazione a congressi e conferenze, nonché incarichi
svolti presso famosi ospedali e prestigiosi corsi universitari
esteri.
Il povero paziente, ancor prima di essere visitato, acquisisce
la certezza di essere capitato nelle mani giuste di
chi risolverà il suo problema medico, predisponendolo a
una cieca fiducia.
Ad accoglierlo vi è sempre una gioviale e gentile segretaria
che trova il modo di farlo già sentire guarito al solo
vederla.
Alla fine della visita, sarà proprio lei a incassare la salata
parcella chiedendogli se, per caso, avesse necessità
della fattura. La risposta è quasi sempre negativa e sembra
la dichiarazione di fiducia completa nei confronti dell’illustre
luminare, che lo stesso lavoro dovrebbe svolgere senza
nulla a pretendere perché già pagato dallo stato presso
la sede dove presta la sua opera di medico del Servizio Sanitario.
L’illustre luminare, strutturato, generalmente la mattina
arriva sul posto di lavoro, si chiude nel suo studio, dove ha
pure messo un comodo sofà, in attesa di essere chiamato
per eventuali consulenze, che possono anche non arrivare,
e dedicarsi magari ad altre attività personali.
Compiute le sei ore di presenza mattutine, dedicate,
praticamente al riposo assoluto in ufficio, è libero e pronto
a dedicarsi al suo redditizio lavoro privato pomeridiano.
Certamente non tutti i medici si comportano in tal
modo. Vi sono quelli che lavorano senza nulla a pretendere
oltre allo stipendio, magari oberati dal lavoro che altri
non svolgono e che sono in prima linea in occasione di
malattie contagiose, rimettendoci pure la pelle.
Cosa, quest’ultima, che avviene poiché a furia di tagliare
spese definite “superflue” le strutture mediche del SSN
risulterebbero anche prive di presidi atti a garantirne la sicurezza.
Un’eventuale improvviso evento le troverebbe
certamente sguarnite e aperte a ogni tipo di pericolo contagioso.
20
Non potevano mancare i miei vecchi amici ferrovieri a
venirmi a dare l’ultimo saluto.
Tra i diversi incarichi sanitari avuti, v’è stato quello di
Medico di Reparto delle FS.
Per chi non lo sapesse l’azienda autonoma delle Ferrovie
dello Stato aveva una propria organizzazione sanitaria
che vegliava sulla salute dei suoi dipendenti. Diciamo che
in verità “controllava” la loro salute ai fini della sicurezza.
Se l’assenza per malattia superava un certo numero di
giorni, veniva chiamato in causa l’Ufficio Sanitario di
sede a Catania in viale Africa per verificarne l’idoneità
alle sue mansioni. Inoltre le assunzioni dei vincitori di
concorso venivano sottoposte a una rigorosa visita sanitaria
in questo luogo prima di essere immessi in servizio.
91
Un gruppo eterogeneo di personaggi quello dei ferrovieri!
Ne ho conosciuti di “lenze” che ricorrevano a finte
malattie per avere dei giorni di libertà dal servizio, ma anche
di altri che eroicamente se ne stavano in servizio pur
avendo qualche linea di febbre.
Là in fondo alla chiesa li vedo tutti insieme, un po’ in
disparte dagli altri, contriti e attenti al rito, come vuole la
circostanza.
Vedo fra loro “U Cavaleri Tanu”, un vecchio capostazione
in pensione, così chiamato perché qualcuno gli aveva
affibbiato il soprannome di “Cavaliere de’ pira.”
I “pira” in siciliano sono le pere e l’espressione in questione
stigmatizza il carattere di una persona che si sente
più importante di quello che è effettivamente, insomma,
“Cavaleri di nenti”.
Di fatto “u Cavaleri Tanu” non aveva alcun titolo nobiliare
o di merito , ma il sentirsi chiamare Cavaliere finì per
fargli credere di averlo proprio quel titolo. Sempre estroso
nel vestire anche questa volta non era riuscito a rinunziare
ai pantaloni alla zuava, al giubbotto nero con gli alamari e
il cravattino a fiocco sulla camicia bianca. Era sempre in
guerra con il suo diretto superiore per motivi banalissimi,
il quale un bel giorno me lo spedì con lettera riservata sospettando
che non avesse tutti i venerdì a posto. In verità i
venerdì li aveva più che a posto. Tanto che un bel giorno
non scrisse una lettera di accuse nei confronti del suo
capo, che vennero ritenute calunniose. Fu in seguito a questo
fatto che venne invitato a scegliere tra la denunzia alla
magistratura o una sua richiesta esplicita di trasferimento
in Sardegna. La sua risposta fu: “Il cavaliere Tano sceglie
la via dell’esilio e non quella del disonore” . Trasferitosi
in Sardegna, ne ritornò qualche anno prima di andare in
pensione, in posizione di inidoneo al servizio Movimento,
e adesso eccolo lì, insieme agli altri, venuto a salutarmi,
forse memore dei miei non recepiti consigli di comportamento.
Vi sono accanto a lui i tre rappresentanti sindacali istituzionalizzati
CGL CISL e UIL, persone abbastanza note
e per questo soggette ad avere dei soprannomi. Già! In
Ferrovia gli agenti più in vista hanno dei soprannomi accoppiati
al loro cognome per via di qualche difetto, vizio o
funzione. È una costante! Ne trovi tutta una sfilza. Quelli
riguardanti i tre sindacalisti in questione erano: “Sogni di
gloria”, “Scarpuzza lucida”, “U Vampiru”.
“Sogni di gloria” era un assistente di stazione che aveva
fatto un solo giorno di servizio ferroviario, quello dell’assunzione.
Per il resto era stato sempre distaccato al sindacato.
Il soprannome era dovuto alla sua tendenza ad andare
sempre più avanti nella carriera di sindacalista facendo,
appunto, sogni di gloria.
Una volta chiesi a uno dei ferrovieri perché lo chiamassero
“Sogni di Gloria”. Mi sentii rispondere tranquillamente:
– “Dutturi, chissu è tuttu fumu e nenti arrustu”. –
Traduco: questi e tutto fumo e niente arrosto. In effetti i
sogni di gloria erano i suoi e non quelli degli iscritti. Debbo
dire che tutto sommato era persona compita, educata e
istruita. In verità rappresentava bene il sindacato e si occupava
anche di tematiche sociali che esulavano dallo stretto
contatto con i ferrovieri, curando i contatti con il mondo
politica, a cui, forse aspirava pure.
93
“Scarpuzza lucida” era un manovratore che mai una
sola volta era andato sui binari ad attaccare o staccare i vagoni
fin dalla sua assunzione come manovale. Il soprannome
era dovuto al fatto che tutti i manovratori calzano dei
robusti scarponi, forniti dall’Azienda, venendo in contatto
con la breccia dei binari che lui non aveva mai indossato e
pertanto le scarpe che calzava erano sempre lustre e pulite.
Appunto un paio di scarpuzze sempre lucide. Anche lui
era nel mirino delle “cattive lingue” perché sapeva badare
più agli affari suoi che a quelli degli iscritti. Non aveva
per niente sogni di gloria, non avendo una grande cultura,
ma bastevole a industriarsi con piccole attività amministrative
gestite dal sindacato, che gli rendevano una certa
notorietà ed anche dei notevoli vantaggi personali. Sempre
elegante con giacca alla moda, cravatta regolarmente rossa
su camicia bianca e mocassini neri lucidissimi.
L’altro, il terzo, sindacalista, credo che facesse parte
del personale degli uffici, lo chiamavano “il Vampiro”.
Lungo, dinoccolato, magrissimo, orecchie a sventola, non
stava tanto bene in salute ma era intelligentissimo, sapeva
parlare con molta calma, sempre convincente; doveva il
suo soprannome al fatto che un bel giorno, anzi un cattivo
giorno per lui a causa di un intervento chirurgico, dovette
ricorrere a una trasfusione di sangue, donato da alcuni ferrovieri.
Gli fu subito appioppato questo soprannome, che
richiamava in un certo senso la figura di Dracula.
Erano dei personaggi in vista tra i ferrovieri a causa
della loro funzione sindacale e per questo motivo soggetti
a critiche da parte di alcuni o lodati da altri. Qualcuno li
chiamava con riferimento alla religione induista la “Sacra
Trimurti”. In effetti rappresentavano le tre organizzazioni
sindacali maggiori nell’ambito ferroviario. Come tali esercitavano
un certo potere ed erano soggetti a critiche o lodi
da parte dei colleghi un poco per invidia, ma talvolta per
stima.
Ho sorriso nel guardarli e mi son detto: – Sono a posto.
Ho la benedizione di Santa Romana Chiesa col prete ed
anche la raccomandazione della “Sacra Trimurti” non posso
non andare in Paradiso.
Però che fantasia, questi ferrovieri! Un bel giorno mi
vidi arrivare allo studio anche “Vecchia Romagna”. Se
pensate che si trattasse della classica bottiglia di liquore di
quella marca, vi sbagliate. Era un vecchio ferroviere che
mi ha già preceduto, il quale aveva il vizietto di bere un
cicchetto di liquore in media ogni due ore durante le ore di
servizio. Per questo motivo gli avevano appioppato il soprannome
del suo liquore preferito e quando parlava se ne
sentiva l’effluvio caratteristico. Ai fini della sua sicurezza
e dell’esercizio, mi venne segnalata la faccenda per costatarne
la sua idoneità al servizio, che era di particolare delicatezza.
Lo sottoposi a visita sanitaria, gli dissi che dalle
sue analisi risultava che beveva e gli prescrissi una cura
disintossicante, che, ovviamente, non riuscì a mettere in
pratica, per cui decise di andare in pensione qualche annetto
prima.
Un altro soprannome che mi fece sorridere fu “Naso
bugiardo”. Se fosse bugiardo non lo so proprio, ma aveva
un naso veramente monumentale, rosso a patata che gli
scendeva sulla bocca come una colonna a forma di cono.
95
Non mancava nemmeno un soprannome che ricordava
un imperatore romano: “Nerone”. Lo chiamavano così
perché, addetto all’amministrazione del personale di un
grosso impianto, non accontentava mai il personale che gli
chiedeva qualche giorno di congedo. Ora che ricordo, Un
altro era soprannominato “Forchettone” per via che a tavola
era un vero atleta della forchetta, un buongustaio, come
io stesso ho constatato quella volta che fui invitato a partecipare
a una loro cena presso la “Taverna degli Amici”.
Un altro ferroviere aveva il soprannome di “Padre Coppo
Lino”, poiché era molto religioso e ogni domenica andava
a messa e prendeva la comunione. Un altro ancora, per le
sue lodi alle scampagnate tra amici a base di lauti arrosti,
lo chiamavano “Birra e sasizza”.
Il più simpatico soprannome, però, che sentii fu quello
di “Mandrake”, appioppato a un capostazione che veramente
somigliava a questo personaggio dei fumetti di una
volta. Sarebbe bastato mettergli in testa il cilindro al posto
del berretto rosso ed era lui! Un altro era chiamato “Pallino”
perché non era molto alto di statura e un altro ancora
“Feliciotto” perché rideva sempre su tutto, anche quando
c’era da piangere.
Si raccontava sempre di un certo capotreno, che fu soprannominato
“Lu capu trenu cu li cugliuna”, come lui
stesso si autodefiniva, famoso per non aver potuto relazionare
sul foglio di corsa il ritardo del treno perché le stazioni,
come scrisse nel rapporto, erano state tutte invase dall’inchiostro
del calamaio ed erano andate tutte distrutte.
Allora non c’erano le penne biro, e ogni bagagliaio era
fornito del vecchio pennino e del calamaio per le incombenze
del capo treno. A suo dire un “salto” del treno (sobbalzo
del bagagliaio sul giunto tra due rotaie) aveva rovesciato
il calamaio provocando la macchia sul quadro del
modulo dove andavano riportati le ore di arrivo e partenze
nelle singole stazioni.
Non venivano risparmiate neanche le donne dal beccarsi
i loro salaci soprannomi. Alcuni erano veramente feroci.
Ne ricordo qualcuno. Un bel pezzo di figliola, assunta
come conduttore (agente adibito al controllo dei biglietti
dei viaggiatori) e proveniente da Bologna, si beccò subito
il soprannome di “Boccuccia di rosa”. A quei tempi era famosa
una canzone con questo appellativo cantata da un
autore di cui non ricordo più il nome. La sua aria sbarazzina
e il comportamento improntato a un tipo di libertà ancora
poco in voga e la sua provenienza da Bologna, le dette
questo tipico appellativo.
Un’altra ragazza venne battezzata “Camilla”, nome che
si prestava ad ambigui riferimenti di tipo sessuale ogni
qual volta la si chiamava, così come emergeva dalla famosa
commedia in siciliano che era uno dei campi di battaglia
dell’attore catanese Turi Ferro. Un’altra ragazza ebbe
l’onore di beccarsi il soprannome di “Nilde”, con chiaro
riferimento alla storica compagna di Togliatti, la quale
ebbe anche un ruolo importante nella politica italiana. Le
somigliava in parte, ma il soprannome fu frutto del suo
matrimonio, dopo l’assunzione in ferrovia, con un sindacalista
della CGIL, legata al carro del vecchio PCI.
Certamente non li ricordo tutti questi soprannomi, ma a
pensarci bene sopra, non basterebbe un libro delle dimensioni
di quelli scritti da colui che chiamavano il “Mostro”,
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così inteso per la profonda cultura non comune nel mondo
operativo dei ferrovieri e per la sua frenetica attività di
scrivere racconti, poesie, romanzi e saggi, pubblicati dopo
la quiescenza con la casa editrice Akkuaria.
21
Ritorno a pensare a colui che non ha riconosciuto la
mia banale emorragia interna, cosa quest’ultima, che
avrebbe potuto farmi restare qualche anno ancora tra i viventi.
Indubbiamente la sua, è stata una leggerezza non facilmente
perdonabile, ma se tengo conto delle mille esigenze
cui sono sottoposti i medici del Servizio Sanitario in
questo periodo a causa della carenza di personale sottoposto
a tagli operati da politici che a tutt’altro pensano piuttosto
che alla salute dei cittadini, mi chiedo quanto sia
condannabile il suo operato.
L’assistenza sanitaria nazionale sta attraversando un
periodo in cui non si tiene conto delle necessità imposte
per la salute dei pazienti, ma da quelle dell’economia. Per
esperienza personale ai nostri giorni sembra che venga
considerato un bravo medico non colui che riesce a salvare
più vite, ma colui che riesce a far spendere meno all’amministrazione
statale.
Adesso che mi trovo nella situazione che mi vuole dall’altra
parte della barricata, molto probabilmente il mio
giudizio potrebbe non essere sereno nei confronti dello
stato. Però, certamente, qualche cosa non va come dovrebbe
e non solo nella sanità.
Non credo sia il momento di disquisire di politica. Pertanto
chiudo qua il discorso e concludo semplicemente
considerando che chi nasce, prima o poi, deve morire a
prescindere dalla causa che ne determina la morte.
Con questo voglio semplicemente dire che il medico
che mi visitò al pronto Soccorso, probabilmente, oberato
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dall’eccessivo lavoro, non si trovava nelle condizioni ideali
di lavorare e di valutare con attenzione i casi che gli si
presentavano.
Mi piace, a questo punto ricordare quanto scrisse Cicerone
nell’anno 44 a.C. nel suo trattato.”Cato maior de senectute”
(Catone il vecchio sulla vecchiaia), e che ricordo
a memoria:
«Ciascuna parte della vita ha un suo proprio carattere,
sì che la debolezza dei fanciulli, la baldanza dei giovani,
la serietà dell'età virile e la maturità della vecchiezza portano
un loro frutto naturale che va colto a suo tempo.»
Tutto sommato, per quanto mi concerne, non posso non
ammettere di aver percorso con dignità e con decoro questi
quattro stadi della vita di cui parla il buon Cicerone,
che aveva presso a poco la mia stessa età quando lo scrisse
qualche hanno prima di morire. Come lui dice, ho colto
tutti i frutti da lui descritti e, tutto sommato, ho raggiunto
una veneranda età e non posso lamentarmi. Ogni scusa è
buona per raggiungere il traguardo finale. A me è toccata
questa.
Certamente qualche annetto in più non sarebbe stato
non gradito… Come si dice: Zucchero non guasta bevanda!
Tuttavia mi rassegno.
22
Malinconicamente il rito è ormai finito. Fuori è già
buio e quattro uomini smontano il catafalco per raggiungere
con la mia bara sulle spalle il furgone mortuario e portarmi
al cimitero in attesa del tumulo successivo.
A questo punto, vedo apparire accanto a me la trista signora
in nero con la falce protesa. Mi preoccupo di chiederle:
– Che cosa mi resta da fare adesso?
– Nulla – mi sento rispondere.
– Ma allora che sei venuta a fare? Vuoi goderti lo spettacolo
finale? Dimmi almeno che cosa mi resta da fare
dopo che il furgone parte per condurre la mia salma al cimitero.
– Ti rispondo subito. Sono venuta non per te, che non
hai più bisogno di me, ma per un signore che si trova
adesso presente e che dopo aver preso la sua macchina e
avviatosi verso casa sarà da me abbracciato e lui non lo sa.
Per quanto riguarda la seconda domanda, dovresti averlo
già capito. Quando tutti saranno usciti dalla chiesa,
uscirai anche tu insieme agli altri, ma nessuno si accorgerà
di te che te ne starai zitto perché sai che nessuno ti ascolta
e nessuno ti vede.
Da quel momento che metterai la tua ombra al di là dell’uscio
resterai libero di fare ciò che vuoi.
Potrai metterti a gridare come vuoi, nessuno ti sentirà e
le tue urla si confonderanno con il fruscio del vento, con il
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rumore delle auto che partono e la tua voce si confonderà
con tutti i rumori della natura.
Parimenti avverrà che potrai sfiorare chiunque e ogni
cosa senza che alcuno ti scorga.
Sarai il nulla nel nulla.
La tua vista si confonderà con la luce del giorno e della
notte. Assumerai con gli occhi tutti i colori che esistono
nel mondo. Sarai uno di essi senza alcuna possibilità di distinzione.
Sarai immerso interamente dalla natura e farai parte di
essa, ascolterai i clamori del mondo, continuerai a turbarti,
a vivere ignoto tra elementi ignoti o semplicemente percepiti.
Esisti ma non sai di esistere, vivi ma non sai di vivere
e la tua memoria verrà rispettata tra i viventi fino a quando
verrà da loro ricordata.
– Ma Signora mia, tu stai dicendo cose che sono tutte
diverse di quelle che ha detto il sacerdote con i paramenti
sacri durante l’omelia. L’Apocalisse, la Resurrezione dei
morti, il Paradiso, l’Inferno…
– Non dico cose assurde né contrastanti.
Quello che ha detto il prete verrà dopo, ma molto tempo
dopo, quando Dio vorrà se lo vorrà. A te basti sapere
che tu continuerai a vivere e a sentirti vivo fino a quando
qualcuno si ricorderà di te nel mondo. Per il resto fai parte
della natura del pianeta e della galassia che corre verso il
buco nero che assorbirà tutto.
– Ma questo significa che morirò una seconda volta?
– Esatto – rispose sarcastica – quando la Terra sarà inghiottita
dal buco nero insieme al sole e se ne perderà la
memoria, mentre l’universo continuerà ad esistere.
23
Dopo questo discorso, con il quale apprendo che finirò
anch’io nel buco nero, come Dio vorrà, mi voltò le spalle
e si avviò verso l’uscio seguendo la persona che mi aveva
precedentemente indicata e che a momenti avrebbe abbracciato..
Seguii mogio-mogio, anche io tutti quanti e guardai
meglio la persona che la Signora mi aveva indicato.
Era lui Don Giuseppe Romualdo Daidone, alias Peppi
Romualdu, conosciuto nella sua Aidone come “u Baruneddu”.
Un mio vecchio compagno di liceo.
Quella dei Daidone era un’antica famiglia della città di
Aidone da sempre e quella di Peppi, u Baruneddu, una
della figura più significative della cittadina.
Monarchico convinto, difensore dichiarato della dinastia
dei Savoia, famoso oratore dei comizi per il ritorno
“do’ Riuzzu” quando vi fu il referendum e ancora oggi sagace
propugnatore del suo ritorno sul Regno d’Italia,
Egli si vantava di appartenere a una delle famiglie più
aristocratiche di Sicilia, insignita da onorificenze reali fin
dai tempi del Borbone.
Purché ritornasse in Italia la monarchia, sarebbe stato
disposto ad accettare anche un Borbone al posto di un Savoia.
A chi gli facesse osservare che i monarchi d’Italia erano
appunto i Savoia, rispondeva che non era una questione
di vitale importanza. Quella che contava era l’idea monarchica.
103
La repubblica era una forzatura. Nel mondo tutto ruota
intorno all’idea di sempre: la monarchia. Uno stato è veramente
stato se retto da un Re e non da un presidente. Che
fosse un Borbone o un Savoia aveva poca importanza.
Egli sosteneva che quando fu necessario mandare a
casa Franceschiello per sostituirlo con Vittorio Emanuele
II, le esigenze del momento lo imponevano, come aveva
ampiamente dimostrato il Principe di Salina nel suo romanzo,
che considerava un documento storico d’Italia.
Purché tutto restasse come prima, fu necessario sostituire
il Borbone con un Savoia, poiché, altrimenti sul Regno
delle Due Sicilie avrebbe messo le grinfie Mazzini e
quel suo degno compare Garibaldi.
Quella dei Savoia, fu una scelta obbligata. Oggi, essendo
passato molto tempo dalla scelta di allora, sarebbe tutto
un altro discorso. Certamente era del parere che quel Vittorio
Emanuele IV non aveva dimostrato di meritare il trono,
ma c’era sempre da scegliere nella dinastia Savoia.
Erano questi i sogni politici di Peppi u Baruneddu, che
nella sua vecchia casa teneva sempre agghindata la sala
del trono, dove ancora, di tanto in tanto, avvenivano delle
convocazioni dei responsabili del PNM (Partito Nazionale
Monarchico), da lui tenuto in piedi e a sue spese, nonostante
non apparisse più il suo simbolo nelle liste elettorali
In verità codesto partito era scomparso dopo il Referendum
che scelse la Repubblica, ma lui si intestardì a mantenere
in piedi quel simbolo in attesa di tempi migliori e che
raccoglieva ancora gli ultimi monarchici.
La sua speranza era che in Italia ritornasse a splendere
il fulgore della corona. Sosteneva che nel mondo tutto era
monarchico e che la Repubblica fosse una semplice figura
statale incapace di reggere il confronto con la monarchia.
Il Duce, pace all’anima sua, era stato la rovina della
monarchia in Italia. Egli aveva solo infinocchiato il povero
Vittorio Emanuele III, facendogli credere che gli Italiani
erano tutti con Lui.
Il povero “Baruneddu” era anche lui un nostalgico dei
tempi passati, convinto che la soluzione di tutti i problemi
italiani consistesse nello scegliere la persona giusta cui
mettere in testa la corona.
A chi gli facesse osservare di essere fuori dal tempo,
egli rispondeva che non era importante se lui fosse in armonia
o meno con il tempo. “Io sono nato monarchico e
morirò monarchico, sia che regni o non regni il Re in Italia.
È una questione di fede.”
Nella sua vecchia casa di Aidone, proprio in quel salotto,
che un giorno avrebbe dovuto ospitare il Re e il suo seguito,
ogni anno veniva festeggiato l’evento che ricordava
la fatidica data della fondazione del Regno d’Italia.
Era una festa da ballo con tutti i criteri di cui si era tenuto
conto nella ripresa cinematografica del film sul Gattopardo,
dove facevano bella figura vecchie cariatidi d’aristocratica
memoria accompagnate da giovani virgulti coinvolti
nell’atmosfera romantica di vecchi tempi.
Ma domani, sicuramente, quella sala fungerà da camera
ardente a Peppe Romualdi, u Baruneddu dei tempi passati,
l’ultimo dei monarchici.
Meno male che il rito funebre sia finito e che egli non
abbia chiesto di commemorarmi. Aveva tutto il diritto per
105
farlo, essendo stato da tempo non solo mio paziente, ma
amico.
Chissà cosa sarebbe uscito dalla sua bocca! Sicuramente
avrebbe tirato in ballo la sua teoria dell’Italia monarchica
e mi sarei dovuto sorbire anche un comizio fuori dal
tempo.
Un’altra nota di colore, questa volta politico, si sarebbe
aggiunta a questo mio addio alla vita.
24
Ormai la penombra incombe e le prime stelle compaiono
in cielo. Una leggera brezza agita le foglie degli alberi.
La luna occhieggia tra i rami. La gente è andata tutta via.
La porta della Chiesa è rimasta chiusa e il sagrato malinconicamente
deserto
L’unica presenza è la mia, quella di un’ombra invisibile
accoccolata sui gradini assorta in mille pensieri che non
avranno più vita.
L’occhio vaga fino all’orizzonte e al mio orecchio
giunge vago, indistinto, il rumore della strada e, di tanto in
tanto, sento il clacson dell’autoambulanza che arriva al
pronto soccorso, l’unico segno di un ultimo barlume di
vita nel pieno clangore del silenzio quasi morente.
Addio mondo in cui ormai vivo e da cui sono escluso
fino a quando Dio vorrà nei secoli dei secoli.
Addio mondo di guai e di gioie, mondo d’imbrogli e
soavi avventure, dove tutto sembra bello, arcano raggiungibile
fino a quando la falce non coglie il tuo ultimo respiro
e tu non resti fermo, lesso e insensibile agli stimoli
esterni.
Tutto sembra passare e cambiare nel mondo, ma in effetti
tutto continua a muoversi nell’infinito e logico aspetto
di una realtà immobile costante e ripetitiva.
Tutto è, tutto è stato e tutto sarà anche nel futuro, come
sempre nei secoli.
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A uomini succederanno altri uomini, ma il pensiero,
per quanto evoluto, resterà nell’alveo di una volontà divina
e suprema che tutto avvolge e sconvolge.
Sono destinato a brancolare nel buio, nella luce, nella
penombra e in ogni angolo del mondo, a restare insulsa
erma di un mondo che fu, nell’attesa che il mondo stesso
finisca o diventi eterno, a seconda della volontà di Dio.
Il vento sibilerà sui monti ghiacciati e sulle pianure desolate,
il crepitio delle armi si mescolerà al vocio concitato
dei popoli in guerra e a essi si mescolerà in eterno il soffio
leggero del mio spirito insieme a quello di tutti i passeggeri
del mondo e resterà ininfluente rispetto alla volontà divina
o a quella momentanea di chi è ancora in vita, anche
se i falsi profeti continueranno a spiattellare anatemi, distruzioni,
punizioni e vittorie che mai si realizzeranno.
Continuerò a cogliere i sorrisi, le risa e il pianto concitato
del mondo, senza la possibilità di intervenire e nemmeno
il desiderio di farlo nel muto ascolto di fiabe e leggende
mai vissute.
Noi, come tutto il creato restiamo figli di una logica divina,
che non possiamo comprendere e seguiremo in eterno
la sorte connessa al nostro illusorio stato di libertà finché
Dio vorrà o ha già predisposto.
25
È già passato un giorno ed io sono sempre lì accoccolato
sui gradini del sagrato della chiesa che ha visto il mio
funerale. Non so cosa fare o dire…
La porta della chiesa si è riaperta improvvisamente. Un
furgone si è fermato davanti al sagrato. Ne vedo uscire
fuori una bara portata a spalla da quattro uomini che la
vanno a depositare ai piedi dell’altare.
Un altro funerale! Dopo di questo ve ne sarà un altro e,
poi, un altro ancora e così di seguito.
La storia si ripeterà, ma i personaggi saranno diversi e
uguali ai miei, carichi dei loro problemi e delle loro aspettative,
che incidentalmente sono paralleli a quelli del defunto.
Solo il prete sarà lo stesso per un po’, ma dirà le solite
cose che io ho dovuto ascoltare con l’augurio del “RiP”
(Riposi in Pace).
Vi saranno le solite “cartelle” per i poveri, le solite lacrimucce
sincere o d’occasione, la solita muta partecipazione
imposta dalle circostanze e la solita disillusione del
defunto che assiste muto e inerme allo scenario che gli si
para davanti.
Un’altra anima si aggiunge alla infinità delle altre vaganti
in attesa di entrare nel buco nero.
Così sarà per sempre nei secoli dei secoli, come lo è già
stato nel passato.
Cambieranno le modalità religiose del rito a seconda
del tempo, ma lo scenario dei convenuti sarà sempre iden-
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tico, anche se agghindato in modo diverso, a seconda degli
usi e costumi del momento.
Coraggio! È tutto nella norma.
Allegria! Allegria!
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