RICORDI, RACCONTI E QUARANTENE AL
TEMPO DEL COVID 19
II° VOLUME
In questo volume ho raccolto cose da me scritte in tempi non sospetti di coronavirus e riletti nel periodo incriminato in parte già editi ed in parte no
PARLA MESSER ASINO
1-
Molti si meraviglieranno al sentire che un asino racconti la sua storia, specialmente per iscritto. Ma che volete? Io sono un asino moderno, un asino che si distingue tra tutti gli altri … Ma, infine, non c’è da meravigliarsi nel leggere ciò che ha scritto un asino mettendo in confronto le cose strane che accadono nel mondo.
Adesso ho l’onore di presentarmi a Lor Signori: mi chiamo Tonio, ma come vedrete ho cambiato, cioè, ho avuto altri nomi.
Sono di pelatura grigia; il mio dorso, come tutti i miei confratelli, è sormontato da una croce biancastra; la mia faccia, sebbene sfiorita dall’età, conserva ancora i lineamenti d’un asino fiero e ribelle; le due orecchie lunghe ed aguzze danno una soddisfazione incalcolabile e ringrazio Nostro Signore di averle tirate a dovere al mio primo avo.
Sono appena meno alto di un cavallo normale, ma ho una coda e quattro robuste gambe da invidiarlo.
Il mio carattere è irascibile e mal sopporta le bastonate.
Ogni qualvolta mi arrabbio faccio saltare tutto in aria a suon di calci, meno colpi a dritta ed a manca, non guardo nulla, colpisco e mordo anche il mio padrone, se capita.
2-
Adesso che mi sono presentato e mi conoscete in qualche modo, incomincio la mia storia e vi prego di stare molto attenti affinché possiate considerare noi, poveri asini, costretti a lavorare senza posa, ingiuriati da mattina a sera e bastonati continuamente.
Dunque ascoltate.
Venti anni fa ero appena nato. La mia mamma mi colmava di mille gentilezze, mi leccava gli occhi, la bocca, il viso e sempre più mi voleva bene.
Oh, la mia povera mamma quant’era buona! Quanto sofferse per me! Quante volte la disubbidivo! Eppure essa mi perdonava sempre con un dolce rimprovero sugli occhi miti , che sembravano dirmi: - Perché mi affliggi? Non vedi come soffro ogni qualvolta mi disobbedisci? Su, da bravo, ascolta la tua mamma.
Vissi un anno con la mia povera mamma. Imparai, sotto la sua guida, a distinguere l’erba medica, a galoppare, a saltare, a giuocare ed a fare le capriole. Ma non pensate che mia madre si sia occupata soltanto della mia educazione fisica! Affatto, anzi teneva molto a parlarmi del mondo e mi diceva spesso:
- Guardati specialmente dall’uomo, poiché è una bestia ragionevole che molto spesso non ragiona. –
Non mi diceva di più. Poverina! Voleva tacermi tutto ciò che aveva passato nella vita per non scoraggiarmi al mio entrare nel mondo ed io non capivo, non afferravo il significato di quelle parole.
Un giorno, lo ricordo come fosse ora, la capii.
La mia povera mamma veniva dal mulino con due enormi sacchi sul dorso, accompagnata dal nostro padrone, un omaccione pingue, lurido, schifoso di bocca più di una iena e di carattere cattivo. Figuratevi! Bastonava anche la moglie ed i figli.
Io li seguivo a breve distanza .
Per disgrazia anche noi asini ci stanchiamo e mia madre, al colmo della stanchezza cadde a terra sfinita sotto il peso dei due sacchi, uno dei quali per sbadataggine dello stesso padrone era aperto. E’ logico, quindi, che un poco della farina andasse perduta per terra. Ahi! Ne avreste voluto? Quel villano spilorcio, come se vedesse le sue pupille al posto della farina versata per terra, prese una pietra, si scagliò sulla povera caduta e giù legnate da orbi.
Non lo trattenevano i ragli, ora più ansanti di mia madre; anzi impossessatosi di una frusta seguitava la musica ritmica dei colpi accompagnandoli con brutti motti e con dei morsi.
Io risentivo di quei colpi; il mio cuore sanguinava,
avevo la sensazione di ricevere quei colpi sul mio dorso e quando vidi il sangue uscire dalle narici di mia madre non resistetti più. Il sangue mi montò alla testa, non vidi più nulla, l’ira mi invase … Seguii il suo esempio e poiché mi volgeva le spalle e stava inchinato verso mia madre, gli assestai un terribile morso nel sedere,seguito da una gragnola di calci. (Accidenti al maniscalco che non mi aveva ancora ferrato, perché seno … povero lui!).
Con ciò ottenni il risultato sperato; il mio padrone, furibondo, si scagliò su di me con un bastone in mano, lasciando mia madre.
Mugghiante come un toro ferito, l’omaccione con il sedere scoperto e sanguinante si lanciò contro di me con tutto l’ardore che gli dava l’ira. Aspettandomi quella mossa, lo evitai, ma per disdetta atroce, nel fare la capriola, misi un piede in fallo e … puff, a terra! Non ebbi il tempo di rialzarmi, che come un lampo, una bastonata mi raggiunse il groppone. Non pensate che fu l’unica, poiché fu seguita da innumerevoli e più veloci che non mi dettero il tempo di dire: “ohibò” I colpi si susseguivano ai colpi e le piaghe, i gonfiori aumentavano sul mio corpo; infine, tutto pesto, capitatami la sua gamba a tiro della mia bocca, gli afferrai il polpaccio e giù strattoni; il mio padrone, urlando per il dolore, lasciò andare il bastone ed io ne approfittai per squagliarmela.
Ma non doveva finire così! Lo diceva il mio padrone imprecando, bestemmiando e minacciandomi come un ossesso. Ma io, sebbene dolorante, me ne ridevo di lui e facevo delle capriole, evitando i sassi che mi lanciava.
Intanto mia madre esalava gli ultimi respiri e tirava le cuoia con dei singulti di dolore che facevano tremare tutto il mio corpo. Accortosi di ciò il bruto si mise la mani ai capelli esclamando:
- Ah! Disgraziata bestia, non solo mi hai seminato tutta la farina per strada ed anche muori adesso, rubandomi i soldi con i quali ti ho comprato? Come farò senza asina? Come farò? –
Io, presagendo dall’afflizione del mio padrone la disgrazia piombata su mia madre, mi avvicinai ad essa che giaceva sul selciato leccandole il viso. La poverina mi guardò negli occhi per un istante con un lampo di gioia e per sempre si spense in un soffocato rantolo.
Piansi amaramente, non badai più al mio padrone, che zoppicando si avvicinava a me dicendo: - Boia, ladro, mi hai mezzo ammazzato e per colpa tua ho accoppato quel “pezzo di pane” d’asina. Ti farò scannare, ti venderò per carne da macello e con i soldi mi comprerò un altro asino. Ti voglio vedere penzoloni a testa in giù con tanto di lingua di fuori. –
Mentre mi “accarezzava” il dorso con dei pugni, mi mise il testale di mia madre e mi caricò i due sacchi di farina che pesavano terribilmente. Quindi, abbandonando il cadavere di mia madre in un burrone in pasto ai cani , ai rapaci ed agli insetti, mi ricondusse a casa, sbuffando, parlando fra se e se e dandomi delle bastonate, che aggravavano il mio dolore fisico e morale ogni qualvolta sentiva il suo causato dai miei morsi che l’importunavano ad ogni piccolo movimento.
Arrivati a casa, il mio padrone mantenne la promessa, o meglio, la minaccia fattami.
Appena fasciatasi la gamba ed incerottatosi il sedere, ancora abbottonandosi un altro paio di pantaloni, poiché i primi erano ridotti in uno stato assai meschino e pietoso, mi afferrò per la cavezza, mi condusse da un macellaio, molto furbo da quanto potei notare in seguito, e fece a quest’ultimo la proposta di vendita.
Il macellaio cominciò a deplorarmi, dicendo che con tutte quelle ammaccature non sarei campato altri quattro giorni, che il mio carattere era troppo irascibile e che quindi era necessario uccidermi per il bene del padrone e per la sicurezza pubblica …
Insomma, tanto ciarlò, tanto infinocchiò quel villano che infine mi ottenne per tre cento lire, compreso il testale. Appena nella stalla, il macellaio, portandomi un beverone, andava dicendo schizzandomi ogni tanto l’occhio: - Che ignorante il tuo ex padrone! Per trecento lire ti ho tolto a quello zotico che crede d’aver fatto un buon affare. Ah! Che bella fregatura! Vedrai che le ammaccature scompariranno e che non morrai. –
Infatti, grazie ad una miracolosa pomata ed a speciali lavaggi la mia pelatura ritornò liscia e lustra.
In capo a due giorni mi rimisi in forze e con mia grande paura il mio nuovo padrone mi condusse al macello. Ciò mi fece supporre la vicinanza della mia morte. Ma non fu così; anzi fui attaccato ad un carretto adibito al trasporto della carne macellata ed avvicinato ad una mangiatoia dove vi erano altri miei simili che sgranocchiavano un po’ di fieno. Qui, il mio padrone lego le mie redini ad un paletto affisso al muro. Io per istinto tuffai la tesa nella mangiatoia, feci alcuni bocconi, ma appena la ritolsi, vidi un terribile spettacolo, che mi fece smettere di mangiare di botto.
Un asino, come me, ma molto più vecchio che appena si reggeva in piedi, veniva colpito con un grosso martello sulla testa e veniva finito da un uomo con un coltellaccio appuntito.
Quindi quattro uomini appendevano il corpo dell’asino al soffitto con la testa in giù, mentre un altro con un piccolo coltello appuntito lo scuoiava.
Al vedere ciò mi si rizzavano tutti i peli del corpo ed un brivido mi passava per la schiena al pensare che io … Brrr!
Mi rivolsi ad uno dei miei compagni che mangiavano placidamente noncuranti dello spettacolo che sembrava loro abituale e gli dissi: - Ehi! Amico, come mai resti impassibile a questo spettacolo? –
Quello scrollando il dorso mi rispose:
- Mah! Che vuoi?! Ci sono abituato e vedrai che anche tu ti abituerai, come me, poiché mi sembri nuovo. E poi non ti impressionare poiché tutti noi asini faremo la stessa fine, quando non saremo più in forze. -
Un brivido mi passò nuovamente per il dorso e stavo per domandargli perché mi avevano attaccato a quell’affare, sebbene lo sapessi. Non ebbi il tempo di dir parola, quando la mia carretta si scosse; mi voltai e vidi quel povero disgraziato macellato poco prima ben scuoiato, diviso in due metà, privo di piedi e di testa, sulla mia carretta. Mi si afflosciarono le gambe; stavo per cadere e mi rammaricavo di non esser morto sul ciglio della strada sotto i colpi di quel bruto del mio ex padrone.
Mentre facevo questa riflessione il mio padrone, montato sul davanti della carretta con le redini in mano mi tirava all’indietro. Al principio non capii, ma poi ricordandomi degli insegnamenti di mia madre, andai indietro fino a quando non intesi allentare le redini.
Rifeci la strada percorsa per arrivare al macello e ritornai alla bottega del macellaio, dove mi fu tolto quel triste bagaglio.; dopo di che il mio padrone mi condusse nella stalla, mi staccò dalla carretta e mi strigliò dicendo:
- Altro che ribelle! Sei più ubbidiente di un agnello. Doveva essere un bruto quel porco villano. –
Io rispondevo con dei sonori ragli, che nello stesso tempo esprimevano la gioia di essere stato compreso ed il disgusto per quanto avevo visto durante il giorno.
Grazie a Dio, nei giorni successivi non andai al macello. Passai una settimana di lavoro aiutando il macellaio a trasportare degli oggetti pesanti. Ma passata quella settimana, ritornò quel famoso giorno, quel terribile spettacolo che mi riempiva l’animo d’ira, di ripugnanza, d’orrore. Avrei potuto vivere bene col mio padrone, ma quel giorno, quel venerdì era un’ossessione. Tutto il grasso e la carne che mettevo in una settimana, li perdevo in un solo giorno.
Quello che mi domandavo era: come mai il mio padrone, che mi rispettava sempre, poteva permettere che i miei confratelli venissero uccisi ed esposti a pezzettini al pubblico. Più tardi capii che lo stimolava il bisogno del denaro e che quindi era costretto a farli uccidere.
Prima provai un gran disgusto, poi mi consolai per il fatto che anche dopo morti, noi, poveri asini possiamo essere utili all’uomo, che amiamo molto ed aiutiamo nel lavoro, sebbene tante volte ci faccia perdere la testa con la sua irragionevolezza e con la sua cocciutaggine.
3 -
Passai due anni con il macellaio e poiché il mondo andava modernizzandosi il mio padrone pensò di sostituirmi per il trasporto delle carni con un furgoncino a motore. Ma , massimamente in Sicilia i macellai di carne equina non hanno molta fortuna o, meglio, riescono a guadagnare quel poco che basta loro per il bisogno familiare, poiché ben pochi gradiscono questa carne e se non fosse proprio per la fabbricazione delle mortadelle, credo che a nessuno verrebbe il ticchio di uccidere né asini né cavalli.
Tuttavia, noi asini e lavoratori, giuste od ingiuste che siano le esigenze dell’uomo, dopo averlo servito per tutta la vita siamo costretti ad essere da lui mangiati o come carne da arrostire alla brace o come mortadella.
Quindi, il mio padrone, non avendo molto denaro per aggiungere qualcosa al gruzzoletto realizzato per comprare il furgoncino, mi vendette per il doppio di quanto aveva speso per comprarmi, senza però farmi uccidere.
A me dispiacque molto perché mi ero affezionato moltissimo al mio padrone, sebbene dovessi sopportare quel terribile giorno in cui cercavo di non vedere ciò che mi succedesse attorno.
Fui venduto ad un commerciante, che si rivelò un vero aguzzino, spilorcio, speculatore e parassita dei poveri.
In tutti gli affari ci guadagnava sempre e più denaro incassava, più ne voleva avere. Due uomini, incaricati di custodire me ed altri miei confratelli, ci mal governavano e spendevano “pro se” il denaro che doveva servire per la nostra spesa a causa della cattiva paga che percepivano.
Per mia fortuna stetti pochissimo con questo mio nuovo padrone e meno male, poiché ero stanco di patire quel digiuno condizionatomi dai due guardiani.
Dopo alcuni giorni dal mio acquisto, fui portato in compagnia di altri miei confratelli, in una fiera di bestiame di paese, dove fui rivenduto per settecento lire.
Come vedete, il macellaio, sebbene avesse guadagnato trecento lire, ne aveva perduto cento, essendo il mio prezzo aumentato.
Il mio nuovo padrone fu un vecchietto dai sessantacinque ai settanta anni, un poco calvo, smilzo, occhi spesso arrossati dal vino, viso rubicondo, generoso ed amante degli animali. Oltre me, aveva un cane, un gatto, un pappagallo, un canarino ed una vecchia tartaruga.
Il vecchietto, Don Pai Gerolamo, così si chiamava, era l’acquaiolo del paese, cioè, colui che durante il periodo estivo portava l’acqua fresca ai paesani facendosi pagare mezza lira per ogni brocca d’acqua.
Poiché erano molti i clienti del vecchietto, quest’ultimo pensò di farsi una carretta con di sopra dei buchi per porvi le brocche. Quindi comprò me per trainarla.
Dopo la compera ebbi concesso da l mio padrone un giorno di riposo, che fu dedito alla mia pulizia personale ed al bene … della mia pancia. Per passare la notte fui condotto da Don Gerolamo in una stanzetta, che era più squallida e malandata di una stalla.
I mobili di quella casetta erano costituiti da un letto, da un tavolinetto con tre piedi, appoggiato al muro, da una sedia ed una bacinella, che serviva a me da abbeveratoio ed a lui da lavandino.
Inoltre, ai piedi del letto, in una alcova vi era una mangiatoia, che era divenuta proprio una città di topi, che se ne fregavano altamente del gatto, dormiglione per eccellenza.
Durante la notte non potei dormire per i continui rumori causati dai topi. Al mattino il mio padrone mi attaccò alla carretta, mi mise un cappellaccio in testa per difendermi dal sole e mi consolidò sulla schiena un cartellino con la scritta: Mezza lira a quartara. Ovviamente si trattava solo dell’acqua che veniva versata nel recipiente porto dall’acquirente.
4 -
Dopo un giorno di duro lavoro ininterrotto, la sera facevo ritorno a casa con le brocche vuote, che il mattino seguente venivano riempite alla fonte per essere vendute.
Uno dei primi giorni, dopo aver mangiato a sera , cercai di rifarmi della fatica, ma quei maledetti topacci non mi lasciavano in pace: sembrava che tutta la stanza fosse un teatro di battaglia tra due eserciti di topi. Non potendo più resistere, mi rivolsi al gatto che dormiva sulla sedia, dicendogli:
- Ma che gatto sei ?! Mentre tu dormi saporitamente quei scocciatori fanno i comodacci loro da padroni. Non sai che dovresti vegliare e fare il tuo dovere?
Il gatto mi rispose con voce compassionevole dicendo:
-Ahimé fratello, mi duole sentirmi rimproverare, ma, credimi, l’età ha stremato le mie forze e non ho più l’agilità di quando ero giovane. Pensa che sono il più vecchio in questa casa. – Dopo una breve pausa proseguì: - Ho paura che il mio padrone, vecchio come sono, mi abbandoni in balia dei ragazzi nelle strade. –
Fui commosso da quelle parole e porgendogli le mie scuse gli dissi:
- Stai tranquillo. Ci penserò io a dare una lezione a quegli accidenti. –
Così dicendo, mi posi in agguato. Poco dopo passò un sorcione robusto e maestoso arditamente sotto le mie gambe con la disinvoltura di un padrone di casa.
Per Giove! Anche questo affronto! Passare sotto le mie zampe! E che credeva che io fossi morto?! Oppure pensava di farlo impunemente?! Mai! Tirai un calcio fortissimo ed il topo si vide per terra. Il meschino non ebbe il tempo di gridare, poiché morì sul colpo rimanendo a terra immobile con la testa fracassata.
Di botto cessarono i rumori e timidamente i topi facevano scorgere dai buchi le loro teste, meravigliati, sbalorditi, spaventati e stupiti. Io gettai un raglio di vittoria che svegliò il mio padrone, il quale, mezzo addormentato, esclamò:
- Anche tu ci volevi, asinaccio della malora. Non bastano i topi … Toh! Cosa hanno i topi questa notte per aver cessato la loro musica? -
Brontolando si alzò per vedere cosa fosse successo; tanto gli erano abituali quei rumori. Alla luce di un lanternino scorse il corpo esangue del sorcio e battendomi una mano sul collo mi disse con la sua voce stridula:
- Perbacco! Congratulazioni! Stavo pensando che nome darti e poiché hai dimostrato la tua abilità di topicida, ti chiamerò “Micio”. Non fui contento di quel nome. Roba da gatti. Ma mentre don Girolamo stava per offrire quel lauto pasto al gatto, si accorse che il piccolo cadavere era cinto da un braccialetto d’oro per signora. La vista dell’oro dette alla testa del vecchietto che ballando esclamava:
-Perbacco e per Giove! Qui ci sarà il vino per tutta la mia vita! Evviva! Evviva il mio asino! – e, baciandomi in tutto il viso, aggiunse: - No! Non ti chiamerò solo “Micio”, ma “Micidoro”.
Questa volta fui contentissimo del mio nome che aveva qualcosa di bello e di prezioso. Ma la contentezza più profonda per me fu quella di poter dormire indisturbato; infatti non si sentì più alcun rumore ; ciò mi fece supporre che quel topaccio lurido e ricco fosse il Re o qualche ministro del regno dei topi o qualcun altro notabile.
Molti furono i ringraziamenti del gatto, che disse d’aver trovato squisitissima la carcassa del topo.
Un’amicizia tra me ed il gatto, venne da quel momento stabilita.
5.
Vissi quattro anni con il vecchietto, durante il quale periodo morirono il pappagallo ed il canarino, non sostituiti per mancanza di soldi e credo anche che la mia vendita sia avvenuta per la stessa ragione.
Come volarono presto i soldi del braccialetto! Poveretto il mio padrone! Lo compiangevo. Trascinato come era dal vino, si cullava nella beatitudine e l’allegria delle ubriacature, trascurando anche il lavoro.
Avrebbe potuto guadagnare un sacco di soldi, poiché non aveva alcun concorrente nel suo mestiere, ma preferiva stendersi sotto un albero e godersi una magnifica sbornia, piuttosto che andare per le strade del paese a vendere la sua merce che comprava a zero lire.
Io cercavo di riprenderlo con i miei ragli, ma egli era sordo. A volte lo spingevo col muso, ma mi buscavo un sacco di ingiurie e, qualche volta, a seconda del grado dell’ubriacatura, anche dei colpi di bastone. Alcune volte, a seconda delle pazzie dettate dal vino, ne ricevevo delle carezze e dei baci in cui sentivo il ribrezzo dell’uomo ubriaco, trascinato dal vizio.
Sin da quando fui comprato da don Girolamo ed in seguito alla vicenda dell’uccisione del topo, fui molto amico del gatto. Ogni sera parlavamo dei nostri amori, delle nostre esperienze, delle nostre prodezze e dei momenti di dolore e di letizia. Inoltre commentavamo la crudeltà e la bontà di alcuni uomini ed insieme compiangevamo il nostro padrone.
Quello che una sera mi colpì fu che il gatto mi parlò del suo odio immortale per il cane, disprezzandolo ed accaparrandogli tutti i motti possibili ad un malvagio.
Mentre il gatto mi parlava vidi il cane, che con gli occhi pieni di mestizia,ci guardava rammaricandosi di non poter discutere con noi. Vedendo ciò mi adoperai affinché i due nemici divenissero amici, ma il gatto mi rispose:
- Caro Micidoro tu non sai quale barriera di sangue esiste fra la razza mia e quella del cane. Tanti anni prima che l’uomo venisse a disturbare la quiete dei boschi, viveva una tribù di gatti, la prima penso. In una notte di tempesta, questi gatti udirono in mezzo ai tuoni ed ai lampi dei latrati. Era una muta di cani emigrati in quel bosco.
Il consiglio degli anziani decise di far entrare quei cani che insistevano con preghiere e promesse di essere accolti perché non potevano delle creature di Dio venire abbandonati in mezzo alla tempesta.
I gatti guardiani aprirono le porte della caverna, dove era la loro tana (Non l’avessero mai fatto!) ed i cani riconoscenti furono ben accolti e rifocillati.
Dopo i due re, Unghione e Mastino, consacrarono la loro amicizia e quelle delle due razze davanti a Dio. Ma Mastino, pensando al benessere della sua razza, dimenticando i voti fatti, durante il silenzio profondo della notte, assalì i miei avi con tutta la sua muta e l’intento di distruggerli tutti nel sonno.
Si difesero i miei avi, ma decimati nel sonno, caddero ad uno ad uno senza fuggire, proprio come i trecento spartani di Leonida. Due soli gatti si salvarono: Nerone e Bianchina, perché si trovavano in luna di miele presso una tribù amica di capre.
Da allora l’odio mortale regna tra cani e gatti e quest’odio si è trasmesso da padre in figlio fino ad ora e si trasmetterà nei secoli finché il mondo esisterà. –
Cercai di vincere quell’odio, fondato, secondo me, sulla leggenda, ma non vi riuscii. Ottenni solamente che il cane ed il gatto della nostra comune casa, si riavvicinassero, ma l’odio vi era sempre tra i due, specialmente nel gatto, che di tanto in tanto faceva dei brutti tiri al cane, causando frastorni di latrati e miagolii a non finire.
6 -
La miseria mi allontanò da quella casa.
Il mio nuovo padrone fu un violento, un bruto, un uomo senza scrupoli. Era il figlio di don Gerolamo, a cui mi rubò per pochi soldi. Vissi due anni di privazioni e di fame, di legnate e di ingiurie, di amarezze e di maltrattamenti.
Il mio nuovo lavoro era quello di portare a casa masserizie rubate a della povera gente.
Ah, povero me! Ho dovuto fare anche il ladro a servizio dell’uomo, proprio io che non sapevo che cosa significasse rubare. Una volta fui tentato di fuggire e tutto mi sarebbe andato bene, se riconosciutomi, non mi avessero riportato a casa, dove naturalmente ottenni una ricompensa di bastonate, largite generosamente.
Per mia fortuna e per sua sventura, il mio nuovo padrone venne ucciso durante una sua malandrinata. Affinché i becchini percepissero la loro ricompensa fui messo all’asta dalla Giustizia e venduto.
Ah, credetemi: questo è stato il periodo della mia vita più obbrobrioso.
Venduto come proprietà di un ladro. Proprio io che nella mia vita non avevo fatto altro che lavorare. Rischiavo nuovamente di essere comprato come carne da macello e diventare alla fine mortadella come tanti dei miei simili.
7-
Mi comprò un uomo, padre di famiglia, buono, lavoratore, cristiano, cosciente e generoso. Il mio nuovo lavoro era quello di portare il mio padrone sui campi (era contadino) e di riportarlo a casa. Inoltre, a seconda della stagione, portavo a casa parte dei prodotti della terra ed aiutavo anche il mio padrone nell’aratura e nella semina del grano. Non mancavano il lavoro e la stanchezza, ma nemmeno il rispetto, le parole di lode, l’orzo, l’avena e la pulizia giornaliera, tralasciata tante volte dai miei precedenti padroni.
Il mio nuovo padrone aveva sette figli, tra maschi e e femmine; io ero il loro “giocattolo” preferito. Mi conformavo in tutto e del tutto alle loro piccole volontà. Adesso ero il cavallo di Orlando, più tardi l’asino del presepe, imitato in tutto dagli stessi ragazzi ed ancora più tardi l’asinello della campagnola. Era finalmente arrivato per me il bel tempo! Mi sentivo anch’io ritornato bambino. Ricordavo i giuochi fatti con mia madre.
E non mi vergogno di dirvi che, assalito da questi ricordi, molte volte piangevo, anche se il mio atteggiamento provocava il riso.
Ormai son passati quasi dieci anni da quando il mio ultimo padrone mi ha comprato; già sono vecchio ed anche lui, insieme a sua moglie, hanno i capelli bianchi. I miei sette padroncini e padroncine si sono in parte sposati e proprio pochi giorni fa si è sposato uno di loro, il mio favorito, il più piccolo, dell’amore del quale sono stato anche testimone, perché lo accompagnavo a trovare la fidanzata. Erano giovanissimi ed io ero felice di vederli insieme e baciarsi.
Ricordo con rammarico e con piacere tutte le volte che li portavo a spasso per i campi sul mio dorso. Allora si, mi sentivo il re degli asini, poiché portavo sul mio dorso la felicità e l’amore.
Quando il mio padroncino si è sposato, durante il trattenimento, io, che ero poco distante ed assistevo ai festeggiamenti, al colmo della gioia ho incominciato a ragliare sonoramente facendo ridere tutti gli invitati.
Egli si ricordò di me e, seguito dalla sua mogliettina, mi portò tutta una guantiera di biscotti, che mangiai di buon gusto. Intanto i due sposini, vistisi soli, ricordandosi dei giorni trascorsi insieme a me, si gettarono l’uno nelle braccia dell’altra, baciandosi, mentre io incominciai a ragliare nuovamente.
Vivo ancora con il mio padrone ed attendo la morte naturale, quella di Dio, poiché ne sono sicuro che il mio padrone non mi venderà al macellaio e che quindi non diventerò mortadella.
Ho terminato la mia storia. Spero che vi sia piaciuta e che ne abbiate tratto insegnamento per rispettare anche noi asini.
Non vi ho parlato dei miei amori, ma che volete, quelli sono affari personali …
Anche gli asini hanno un cuore ed amano, ma sono molto riservati
L’asino di via Belfiore
E’ ormai assodato che a Catania, oltre alla classica salsiccia “a caddozza” (a torchetti) , piacciono molto le braciole di carne di cavallo, arrostite e consumate calde appena scese dalla graticola, per non parlare delle classiche polpette di cavallo anche esse arrostite sulla brace. “Arrusti e mancia”, come suol dirsi, con un bel bicchiere di vino alla portata di mano.
Si sceglie quindi di andare a comprare la carne nel posto più qualificato ed anche più economico di Catania. Esso si trova esattamente all’incrocio tra via Alonso e Consoli e via Belfiore, dove vi è il famoso “Traforu”, ossia lo sbocco della galleria ferroviaria che conduce alla stazione di Catania Acquicella.
In quel punto vi è un accenno di piazzetta dove troneggia una macelleria rinomata per la bontà della carne di cavallo ed anche della salsiccia preparata alla maniera casereccia.
Ancor prima di entrare nella bottega, proprio davanti all’ingresso, sotto un tendone che ripara dal sole, vi è un banco dove quattro uomini, muniti di coltelli, provvedono ad affettare la carne ricavandone delle vere “lenzuola” pronte ad essere deposte sul fuoco. Le fette passano nella stanza dove avviene la pesatura e la confezione in pacchetti, pronti per essere portati via. Nella successiva stanzetta vi è il reparto salsiccia, confezionata a “caddozza”. Non si ha che il semplice gesto di indicare quelle al formaggio od al finocchietto e richiederne la quantità. Qui la salsiccia si compra “a caddozza”. Dopo se ne paga il peso, ci si carica di tutto il materiale acquistato e lo si deposita in macchina insieme alla carbonella comprata a pacchetti nell’emporio dirimpettaio.
L’ultima volta che sono andato in quel posto per fornirmi di carne di cavallo e salsicce, ciò che mi ha colpito, è stata la presenza di un asinello legato con la cavezza ad un palo di sostegno del capannone esterno, sotto il quale si procedeva all’affettazione delle braciole di carne di cavallo.
La povera bestia, ben pasciuta, quasi immobile, di tanto in tanto agitava la coda, teneva le orecchie ritte e direzionate con i timpani quasi a cogliere gli improvvisi rumori dei coltelli che venivano a contato con gli affilatoi e gli occhi fissi ed aperti sul banco dove i quattro macellai operavano.
Nessun altro movimento o raglio improvviso turbava la immobilità della bestia, un simulacro, un manichino lì esposto per mostrare la bontà della roba venduta.
Io, lì, dove attendevo il mio turno per comprare, sentivo le nari accarezzate dall’odore caratteristico della carne tagliata di fresco e sicuramente anche l’asino, il cui muso, di tanto in tanto mostrava un leggero fremito, sentiva la stessa cosa. Forse in maniera più incisiva. Eppure era lì fermo, immobile, quasi rassegnato nel vedere la sorte che sarebbe toccata anche a lui. Nessun gesto, nessun recalcitrare, nessun movimento tranne quello delle orecchie e della coda, ma pacato e sereno in armonia al leggero fremito delle nari.
Mi sono improvvisamente chiesto riflettendo se quella povera bestia sentisse l’odore della morte e avesse contezza della sua sorte e della sua prossima fine sul banco dove avveniva l’affettazione delle carni di un proprio simile.
So per certo che questa percezione è presente negli uomini. Anzi debbo dire che è stata anche strumentalizzata e presentata come esempio per costringere la popolazione a non ripetere alcuni reati degni della pena di morte. Mi riferisco al periodo in cui tale pena era in auge e costituiva una ben precisa pena di giustizia, esercitata dallo Stato. Infatti, le pene di morte, allora, venivano esercitate con molto clamore e pubblicamente, costringendo sadicamente il condannato a viverne la scena preparatoria.
Dopo aver assistito a quella scena e questa mia amara riflessione, non ho avuto il coraggio di entrare nella macelleria per l’acquisto della carne. Sono ritornato in macchina molto turbato. Sentivo addosso lo sguardo consapevole di quell’asino immobile davanti allo scempio delle carni di un suo simile ed un brivido mi percuoteva la schiena.
Da quel giorno non ho più mangiato carne di cavallo.
Sono riconoscenti i gatti?
Una cosa che mi sono sempre chiesto è se gli animali , come ad esempio i gatti, sappiano essere riconoscenti nei confronti di chi loro dimostra aiuto ed amore.
Questa mia domanda sorge spontanea dal momento che questo sentimento non ha poi molta fortuna tra gli esseri umani.
A mie spese ho dovuto prendere atto che parecchie persone, da me fraternamente aiutate, sono rimaste indifferenti senza mostrare il che la riconoscenza tra gli esseri umani è veramente merce rara. Ma è così anche per gli animali? Apparentemente sì! Ma non sempre. Ho dovuto constatarlo osservando il comportamento della mia gatta di Castelluccio, a cui ho dedicato pure una poesia.
Ovviamente, ho usato il termine “mia” impropriamente, poiché si tratta di una gatta randagia, che un bel giorno si è presentata sull’uscio della mia casa a mare sette anni fa.
Notai, allora, che aveva una grossa ferita sul dorso del collo, proprio all’attaccatura della testa. Si trattava di una ferita molto vasta che lasciava addirittura vedere la carne sanguinolente per lo strappo subito dalla pelle penzolante. Evidentemente qualcuno le aveva assestato un colpo maldestro, oppure, era rimasta vittima di uno scontro con qualche altro animale randagio. Purtroppo vi sono pure nella zona dei cani, oltre ai gatti, che vivono liberi.
Feci di tutto per catturarla e costringerla in una gabbia al solo scopo di portarla da un veterinario e curarla. Si ribellò mostrando un cipiglio feroce, ma alla fine si acquietò. La portai da un veterinario a Catania, che la rese calma e le dette dei punti di sutura provvedendo, inoltre, a farle un trattamento di prevenzione. Il veterinario mi disse che la ferita si sarebbe rimarginata e che la gatta sarebbe ritornata nuovamente in salute.
La tenni per circa una settimana nella gabbia, perché non sapevo come fare per non farla fuggire. Capii che non si sarebbe mai abituata ad una vita domestica. Pertanto la riportai nuovamente a Castelluccio e lì la liberai. Fuggì immediatamente e saltando il muro di cinta del giardino, si tuffò nel mare di erba che cresceva d’intorno.
Pensai che non l’avessi più rivista, ma ecco che, dopo un paio d’ore, la vidi ritornare con un topo morto in bocca, che depositò davanti all’uscio della cucina, allontanandosi successivamente.
Rimasi sbalordito, da quell’atto di cui non capii subito il significato. Non mi restò che pulire il terreno e liberarlo di quel dono non certo tanto gradito, ma sicuramente pieno di significato per lei.
Sono ormai trascorsi circa sette anni da quell’episodio. Ebbene tengo a rendere noto che quando vado a casa mia a Castelluccio, lei rincorre la mia macchina dall’inizio della strada d’accesso fino al cancello e saltando il muro di cinta incomincia a miagolare, correndomi dietro.
Tento di farle qualche carezza, ma non si lascia avvicinare. Tuttavia comincia a fare le fusa strusciandosi lungo il muro . Dopo si accoccola sul pavimento ed attende che mia moglie le porga il piatto con delle cibarie comprate apposta per lei. Ha scelto come tana il locale sotto il forno a legna che sorge al margine del terrazzo, dove i ceppi offrono un rifugio sicuro per lei ed i gattini, che ogni anno la seguono e che sono sempre diversi.
Durante l’estate, nei giorni in cui siamo a mare, lei non si allontana da quel luogo ed arriva pure con due o tre gattini, che evidentemente sono suoi figli. Ogni anno sempre così . Lei sempre presente ed a cambiare sono i gattini. Qualche altro gatto arriva ma sporadicamente e non con continuità.
Questa è ormai casa sua, anche se non si lascia nemmeno toccare od accarezzare. Ci fa festa e fa le fusa, ma a debita distanza.
Un altro comportamento che mi ha colpito è che quando le si dà da mangiare, lei si accoccola davanti al cibo e lascia accostare i gattini e, solo dopo che questi ultimi hanno finito, si accosta a sua volta alla ciotola.
Questa gatta randagia non solo è riconoscente verso chi le ha salvato la vita curandola, ma anche ottima madre ed ottima guardiana del territorio che ha scelto come suo.
Non a caso, quindi, merita la mia poesia.
Bracalone, cane ferroviere
( Già premiato da AKKUARIA e Pubblicato in una sua Antologia )
Quando giunsi a Bicocca in veste di Capo Stazione Titolare, tra le vecchie conoscenze e quelle nuove comparve quella del tutto nuova e non prevista di Bracalone, un cane randagio bianco dal pelo corto e di media altezza. In verità non era malnutrito e nemmeno tanto randagio, poiché abitava stabilmente all’interno della stazione nella panchina del primo binario e, talvolta, si allontanava all’esterno del fabbricato viaggiatori, per ritornarvi, poco dopo, accucciandosi davanti all’uscio dell’Ufficio del Capo Stazione Titolare, che abbandonava di notte per raggiungere la sua cuccia nella villetta.
In verità, la presenza di quel cane mi turbò non poco. Sicuramente, pensai, sarà di qualcuno dei ferrovieri che fanno servizio nella stazione o di qualche famiglia che abitava nel fabbricato alloggi. Non poteva continuare a circolare libero nel piazzale, frequentato, anche se raramente,da viaggiatori. Prospettai il pandemonio che ne sarebbe scaturito se avesse morso qualcuno.
Dalle indagini svolte, scoprii che il cane non era di nessuno. Era il cane della stazione! Un bel giorno si era presentato alla stazione in condizioni non proprio buone e da allora non si era più allontanato, poiché riusciva a racimolare qualcosa da mangiare, che chiedeva con discrezione scodinzolando o fermandosi accovacciato con lo sguardo pietoso.
Mi raccontarono che nei primi tempi del suo arrivo, quando transitava un treno dal primo binario abbaiava e tentava di rincorrerlo, ma, dopo, si era assuefatto a quell’avvenimento che per lui certamente risultava nuovo e adesso si limitava a rizzarsi in piedi dal posto dove era accovacciato e ad assistere attento lo scorrere veloce dei veicoli in corsa.
Qualcuno, scherzosamente, gli aveva affibbiato la qualifica di Dirigente Movimento esterno, la cui funzione, appunto, era quella di presenziare il transito dei treni non aventi fermata e di licenziare quelli che avevano fermata.
A causa del suo bivaccare stravaccato sotto la tettoia del primo binario e di rizzarsi solo sentendo transitare un treno, nonché per trovare qualcosa da mangiare o andare a fare i suoi bisogni, per fortuna lontano dai locali della stazione, si era guadagnato il nome di Bracalone.
A malincuore, anche accogliendo le simpatie che il cane suscitava in tutti, mi arresi all’idea di sopportare la sua presenza nella stazione. Mi resi conto che quel cane non solo non era pericoloso, ma riusciva a tenere lontano dall’impianto altri cani randagi che si avvicinavano. Digrignava i denti puntando gli avversari con lo sguardo minaccioso e poi ritornava al suo solito posto.
Mi convinsi che la presenza di quel cane era … un valore aggiunto alla stazione, poiché disimpegnava un servizio di guardia veramente ineccepibile Fu così che mi abituai pure io a portagli qualcosa da mangiare ed a dispensargli qualche carezza. Da parte sua, il cane, sembrava aver capito la mia buona predisposizione nei suoi confronti e tutte le mattine mi attendeva sistematicamente nel luogo dove posteggiavo la macchina con un guaito di saluto.
Quando arrivavo, di buon mattino, mi attendeva fuori dal Fabbricato Viaggiatori, dove posteggiavo la mia macchina e, dopo, mi seguiva accucciandosi davanti all’uscio del mio Ufficio. A volte uscivo per andare a piedi al nuovo scalo attraverso un camminamento interno ed ecco che Bracalone, si levava dalla sua postazione e mi seguiva. Era diventato la mia ombra!
Ne parlai con qualcuno dei miei colleghi, elogiando più che il suo comportamento, la simpatia che ero riuscito a suscitare in quel cane. Uno di essi, con un sorriso sornione mi disse che non era così come pensavo, poiché Bracalone si era comportato alla stessa maniera con il Capo Stazione Titolare che mi aveva preceduto e con l’altro precedente ancora. Infatti, proprio per questo motivo, si era guadagnato il titolo di CS 1° Aggiunto del C.S. Titolare, funzione di collaboratore del capo impianto di una certa rilevanza.
In verità avevo notato che i miei colleghi passando vicino al suo posto di guardia lo salutavano con un caloroso “Buongiorno Signor Capo”. Pensai che quell’epiteto fosse diretto a me o, sicuramente, al mio diretto collaboratore, un tipo molto rigido.
In effetti, nei grossi impianti, generalmente il Capo impianto assumeva l’aspetto del buon padre di famiglia, delegando la rigidità nei confronti del personale al suo diretto collaboratore. Certamente non è che tale situazione fosse istituzionalizzata, ma nella maggior parte dei casi avveniva proprio così. In ogni caso io mi attenevo a quella regola non scritta, che mi consentiva di dialogare col personale in maniera aperta ed umana.
Mi limitai solo a dire che bisognava dare un’altra qualifica a Bracalone, dal momento che quella di 1° Aggiunto era già occupata degnamente. Inoltre aggiunsi che l’appellativo di Capostazione, non gli si attagliava molto, come del resto, quella di Deviatore, Manovratore , Manovale o Assistente.. Venne in ausilio la funzione dei Guardiani di Passaggi a Livello. Ecco. Lo avremmo insignito della qualifica di Guardiano di stazione, con diritto alla qualifica di Guardiano di 1^ Classe, vista la sua lunga militanza nella stazione.
Mi ero abituato alla presenza di quel cane ed anche i colleghi trattavano Bracalone con rispetto ed amore. Non reclamava mai, non chiedeva straordinario, né mensa, né riposi. Era il collega ideale, che non suscitava invidia o sostituzioni per riposo e festività. Sempre pronto, sempre vigile, sempre attivo.
Un bel giorno, anzi un cattivo giorno, al mio arrivo con la macchina, non trovai Bracalone pronto a salutarmi. La faccenda mi sorprese era la prima volta che capitava una cosa simile.
Dopo aver letta la corrispondenza telegrafica pervenuta durante la notte e sbrigato alcuni problemi di mera utilizzazione del personale con il segretario, mi accorsi che Bracalone non era davanti all’uscio come gli altri giorni. Lo feci cercare nei soliti posti che generalmente frequentava, ma nulla. Bracalone sembrava essere scomparso. Alla fine l’operaio degli Impianti Elettrici di stanza nella stazione, mi informò che Bracalone era stato trovato morto poco distante dalla stazione. Aveva il corpo crivellato da pallettoni. Evidentemente era stato sparato da qualche cacciatore durante la notte, forse perché scambiato per selvaggina oppure perché disturbava la sua caccia.
Non restò che raccogliere il suo corpo per farlo seppellire. Mi sembrò giusto che si facesse qualcosa per ricordare la sua figura di Cane Ferroviere, morto durante la sua alta funzione di guardiano dell’impianto. Feci allestire una buca in una aiuola della villetta di stazione, dove depositare il corpo di Bracalone. Fu quella la sua ultima dimora, molto vicina alla sua cuccia. Sulla sua tomba improvvisata feci approntare a mie spese una lapide, consistente in una stele di marmo con la scritta: “Qui dorme Bracalone Guardiano di Stazione, che non andò mai in pensione”.
Fu questo l’ultimo atto d’amore nei confronti di quel cane, che si era auto imposto il compito di Guardiano del Capo Stazione Titolare di Bicocca. Di lui non si seppe mai la provenienza, ma si conobbe la sua fine.
Forse abbandonato da qualche padrone incosciente, si era scelto lui il suo nuovo capo, cui obbedire e sul quale vigilare con diligenza non comune agli uomini, diventando una figura mitica di cane ferroviere.
Un poco in preda alla nostalgia, qualche giorno fa sono passato dalla stazione di Bicocca, che consideravo un gioiello della mia attività ferroviaria.
Vi giunsi nel 1960, come Dirigente Movimento tirocinante, dopo l’anno di corso abilitante a Catania c/le ed era una semplice stazione di diramazione con un Fabbricato Viaggiatori simile ad un casolare di campagna con scambi azionati da Apparato Centrale Idrodinamico. Vi ritornai negli anni novanta come Capo Stazione Titolare e trovai un impianto faraonico, cui detti un ordine nuovo di organizzazione, trasformandolo nello Scalo merci naturale di Catania, dove avevano inizio e fine i nuovi trasporti con casse mobili e TIR su carri ferroviari, ormai divenuti appannaggio del porto di Catania. Quando lasciai Bicocca per assumere la titolarità del primo Reparto Movimento Linea di Catania, la stazione era al massimo del suo splendore e funzionalità. Il Fabbricato Viaggiatori l’ho trovato in stato di abbandono. Anche lo scalo, ormai, non ha la funzionalità di allora.
Durante questa mia recente visita nostalgica ho rivolto lo sguardo verso l’uscio del mio ex Ufficio e mi si è affacciata alla memoria la figura del cane Bracalone. Sono andato più in là verso Siracusa, dove vi è la villetta non più curata come un tempo e con lo sguardo rivolto ad un angolo particolare, ho cercato la stele che avevo fatto mettere sulla tomba approntata per Bracalone … Non l’ho trovata! Scomparsa … Ma lui, Bracalone , sarà sicuramente lì a dormire il suo eterno sonno oppure a disimpegnare ancora il suo volontario incarico di Guardiano della stazione.
Addio, mio vecchio e fedele amico. Addio caro vecchio collega di lavoro. Addio mio collaboratore muto e dallo sguardo loquace, che hai risvegliato in me l’attenzione per gli animali e che ti sei imposto nella mia anima per il tuo senso di volontaria prestazione, senza nulla a pretendere, se non la stima. Tu che non mi hai mai chiesto di segnarti lo straordinario, la retribuzione per servizio notturno, i buoni pasto, le ferie, i riposi compensativi, con la dolcezza del tuo sguardo, sei stato per me una molla che mi ha spinto sempre ad operare con maggiore impegno nello svolgimento del mio incarico.
Tu sei un puro e meriti di essere innalzato ad esempio per l’umanità. Ti confesso che il mio operare era svolto non semplicemente per senso del dovere, ma per ottenere anche dei meriti di carriera ed anche retribuitivi. Tu, invece, sempre presente e silenzioso svolgevi il servizio che ti eri imposto senza nulla a pretendere, quasi per una vocazione divina, senza il desiderio di crescere in carriera od altro. A te bastava quel tanto che qualcuno ti dava per vivere e basta.
Ed inoltre tu sei morto per la cattiveria od il divertimento di un uomo senza scrupoli, cui mai ti sognavi di fare del male e la tua morte è rimasta impunita.
Non nascondo che una lacrima ha rigato il mio volto …
La Figlia del Miracolo
Quando la signora Bianca Ballarini si accorse che la propria unica figlia Marta aveva intavolato una relazione affettiva con il giovane Tullio Nardelloni, per poco non le prese un colpo al cuore.
Non era possibile che il destino le stesse giocando questo bruttissimo scherzo! Prima che potesse accadere l’irreparabile si premurò di interrogare la figlia in merito per sapere a che punto era arrivata quella relazione.
- Marta - le disse – mi sono accorta che quel Tullio ti gira troppo attorno.
-Sì, mamma, me ne sono accorta anche io e non ti nascondo che non mi dispiace. Sento per lui una particolare attrazione.
- Ma non era Giovanni che ti faceva la corte? Mi avevi detto la stessa cosa. Io lo trovavo più adatto a te. Quel Tullio non mi piace tanto … Ha un’aria un po’ troppo, come dire, poco rassicurante … Ma, poi Giovanni mi sembra più simpatico ed accomodante.
- Ma che dici, mamma , è tutto il contrario. Tullio è di una bontà e di una serietà ineccepibile. Giovanni gioca. Non mi ha mai detto che mi ama. Tullio, invece, fa sul serio. Mi ha detto che vorrebbe sposarmi e mi colma di mille attenzioni. Non ho ancora risposto alla sua richiesta d’amore. Volevo prima parlarne con te …
- Che sciocchezza! Tu quello non lo sposi! – Rimarcò la signora Bianca - Non è adatto a te.
- Ma no, mamma, tu non lo conosci bene. Non posso sbagliarmi. Il mio sesto senso mi dice che è molto simile a me. Abbiamo gli stessi gusti e lo stesso modo di vedere le cose.
- Troppo – borbottò tra sé e sé la signora Bianca.- Tu non fare nessun passo. Parliamone prima con tuo padre. Vediamo cosa ne pensa lui. Lo sai che ci resterebbe male, se non accettassi il suo parere.
- Che c’entra papà? Mica lo deve sposare lui …
La discussione si arrestò qui.
Marta restò perplessa nell’ascoltare il parere di sua madre nettamente contrario ai suoi sentimenti. Cosa aveva Tullio che non andava?
Era molto più prestante di Giovanni. Colto. Apparteneva ad una famiglia molto in vista ed anche facoltosa. Giovanni, nei suoi confronti, era una nullità. Ma, a lei piaceva Tullio. Al solo vederlo con quegli occhi simili ai suoi, ne rimase incantata quando lo conobbe e non le sembrò vero che le girasse attorno. Ne fu felice. Le avrebbe buttato subito le braccia al collo … Però era meglio farsi un po’ pregare! Sua madre le aveva insegnato che non bisognava mai dire subito di sì ad un uomo, anche se piaceva. Gli uomini, diceva lei, bisogna farli un po’ soffrire prima di farsi conquistare. E’ più bello e si innamorano di più.
Dopo alcuni giorni la signora Bianca ritornò a toccare l’argomento. Questa volta non fu solo convincente, ma più oppositiva. Aggiunse che lei, Marta, quell’uomo non solo non doveva sposarlo, ma non doveva avere con lei alcun rapporto amoroso.
-Ma perché? – Ribatté Marta.
-Il perché lo so io! Rispose la madre.
Marta rimase di stucco. Per quale motivo sua madre si opponeva in maniera così feroce? Eppure le voleva bene ! Tanto da averla voluta lasciare, come le aveva confidato, figlia unica per non dover dividere il suo affetto con un’altra figlia o figlio. Ma allora era egoista, sua madre? Non le risultava che lo fosse. Che le volesse bene ne era certa. La chiamava la figlia del miracolo, per le preghiere rivolte alla Madonna di Lourdes per averla e non poteva adesso opporsi così fieramente alla sua felicità. Non capiva proprio quell’atteggiamento.
Decise di partire lei all’attacco nei confronti di sua madre e chiederle una spiegazione più esauriente della sua netta opposizione alla sua volontà. Fu dura. Le disse chiaro e tondo di non volerle bene e non solo! L’accusò di volerla privare della sua libertà, che aveva sempre dichiarato di concederle, a meno che non ci fossero dei motivi ben precisi ed in quest’ultimo caso non dimostrava certo di contraccambiare la sua sincerità di figlia.
A questo punto alla povera signora Bianca non restò che … cedere le armi e con le lacrime agli occhi le disse di ascoltarla e di tenere per sé quello che le stava per rivelare.
-Devi sapere – disse – che io ho sposato tuo padre giovanissima, perché ero follemente innamorata di lui e non mi pento d’averlo fatto. Ci siamo sposati con l’armonia ed il consenso dei nostri genitori. Tu, adesso, ti chiederai perché ti sto dicendo questa circostanza. Lo leggo dai tuoi occhi. Ascolta ed alla fine capirai.
Tutti attendevano che quel nostro amore desse luogo ad un frutto e, cioè, a dei figli. Nonostante il tempo passasse e noi due ci mettessimo tutto l’impegno possibile, nessun evento si verificò. Fu così che dopo circa tre anni decisi di rivolgermi ad un illustre Dottore, specialista in materia, per scoprire eventuali miei difetti. Ero convinta che qualcosa non andasse in me.
Ne parlai con tuo padre, che mi accompagnò da questo medico. L’illustre Dottore ci disse chiaramente che avremmo dovuto entrambi sottoporci a degli accertamenti, poiché bisognava fare delle indagini mediche ad entrambi per stabilire le cause della mancata procreazione che potevano essere diverse.
Insomma ci disse che dovevamo entrambi sottoporci a delle analisi. Fondamentale era, in particolar modo, quella riguardante l’esame sia del seme che … del terreno, come disse scherzosamente. Pertanto, dopo alcuni giorni ci sottoponemmo anche a codesto esame. Per conoscere i risultati mi recai da sola dal medico, essendo tuo padre impegnato per motivi di lavoro.
Egli mi disse, intanto, chiaramente che dal punto di vista funzionale eravamo entrambi sani, ossia senza alcun difetto fisico, ma, purtroppo, il “seme” di mio marito era carente, ossia non idoneo a riprodurre per la mancanza di non so quale elemento o sostanza. Egli produceva un seme non in grado di poter mettere incinta me e nessuna altra donna. Aggiunse, quindi, chiaramente, che mai e poi mai mio marito avrebbe potuto avere un figlio e che io, invece, ero in grado di poter restare incinta tutte le volte che volessi. Insomma mi disse che, senza ombra di dubbio, non ero io la causa della mancata procreazione, ma lui e che non vi era alcuna possibilità di poterlo curare.
Per paura di non farlo sentire umiliato, riferii a mio marito che dai risultati era emerso che avevo io una malformazione interna e che non ero in grado di poter procreare. Aggiunsi, così per essere più convincente, che nemmeno un miracolo della Madonna di Lourdes avrebbe avuto la forza di farmi procreare.
-Bene – disse lui – Andremo a Lourdes! Vediamo se la Madonna ci fa il miracolo! Partimmo in pellegrinaggio per Lourdes. Egli era molto religioso ed era convinto che la Madonna avrebbe fatto il miracolo.
Ritornati dalla Francia, mi recai nuovamente dal medico e gli domandai se non si potesse fare qualcosa per farmi restare incinta, magari ricorrendo alla inseminazione artificiale. Volevo dare a mio marito la gioia di avere un figlio ed anch’io di averne almeno uno, facendo credere a lui che la Madonna avesse compiuto il miracolo al quale credeva.
-Certamente – rispose il medico – Bisogna rivolgersi ad un donatore, il quale vorrà anche essere pagato e Lei, Signora mia, non avrebbe però la certezza di avere un figlio od una figlia sana, essendo, generalmente questi donatori gente non molto raccomandabile. Nel senso che non può avere la garanzia che esso non abbia delle tare ereditarie . Comunque si può fare.
- E allora – chiesi – come si può evitare questo pericolo?
-Io un suggerimento lo avrei. Può accettarlo o meno. Dipende da Lei. Non le costerebbe nulla e posso garantirle che non avrebbe brutte sorprese.
-Cosa dovrei fare? Mi dica. Sono disposta a tutto pur di rendere felice mio marito ed avere un figlio.
-Venire a letto con me – Rispose secco ed asciutto guardandomi negli occhi – Si dà il caso che Lei mi piaccia e lo farei non solo gratis, ma con piacere. Nulla a dare, nulla a pretendere.
Rimasi scioccata dalla proposta. Dissi che avrei preferito l’inseminazione artificiale affrontando l’ incognita. Mi parlò, allora, di un ricovero di tre giorni in una clinica e mi calcolò anche il costo dell’operazione, tutto compreso.
Quello che mi convinse non fu tanto il denaro, ma la faccenda del ricovero per tre giorni e chiesi, timidamente, quanto sarebbe durata l’operazione alternativa.
-Un’ora appena penso che basti, a meno che non intendesse prolungarla – mi rispose.
Accettai. Fece un rapido calcolo relativo al mio ciclo mestruale e mi fissò l’appuntamento per il giorno stabilito.
Tutto si verificò esattamente come aveva detto. Bastò un’ora soltanto e restai incinta. Non mi cercò più come aveva promesso e nemmeno io l’ho mai più cercato. Per me è stato come sottopormi ad un intervento medico. Mio marito fu felice di essere diventato padre per intercessione della Madonna di Lourdes. Nascesti tu, che restasti figlia unica. Questa è la mia storia e la tua.
Ebbene, l’illustre Dottore artefice del miracolo altri non era che il padre di Tullio, che dunque, è tuo fratello. Ecco perché non puoi sposarlo.
Non ho nulla da aggiungere, se non il mio rimorso per tutto ciò.
Di una cosa, ti prego. Continua ad accettare mio marito come tuo padre, poiché lo è stato veramente ed è l’unico uomo che io ho amato. Il tuo padre naturale non merita alcun affetto. Per lui tu sei stata il frutto di una sola ora di piacere, che a me è costata il rimorso di una vita.
IL MIO ULTIMO SPROLOQUIO
Non tutti sanno che il sistema produttivo viene catalogato in tre settori principali: il settore primario che comprende l’agricoltura, l’allevamento, le attività minerarie, le foreste e la pesca; il settore secondario che comprende l’industria manifatturiera e l’edilizia; il settore terziario che corrisponde grosso modo ai settori dei servizi connessi ai primi due
In sostanza il terziario si occupa di prestazioni immateriali le quali possono produrre o non produrre un bene materiale assimilabile ai primi due e, quindi, da considerare un valore produttivo aggiunto ai primi due.
Esso generalmente può essere di due tipi: tradizionale o avanzato a seconda dell’influenza tecnologica e produce solo SERVIZI che sono, uno di supporto ed organizzativo della produzione dei primi due rami ed un altro di organizzazione del vivere civile e sociale.
In uno stato ben organizzato bisogna non trascurare l’incremento produttivo del primario e del secondario ed adeguare il terziario alla loro razionalizzazione produttiva, nonché a provvedere all’erogazione di beni necessari al vivere civile e sociale.
In altri termini significa che lo stato deve fare sempre in modo che non smetta mai la produzione, legata alla libera iniziativa, organizzandola ed indirizzandola verso lo sviluppo sociale, che è l’unico traguardo finale cui deve tendere la nazione.
Questo significa che il terziario deve essere sempre gestito dallo Stato, che per questo servizio erogato può e deve pretendere l’imposizione fiscale, di cui non può fare a meno, a chiunque produce nell’ambito dei tre settori.
Da ciò ne consegue che le tasse non potranno mai essere abolite e che esse, però, debbono essere adeguate ai servizi erogati. Aumentare le tasse e diminuire i servizi è quanto di più sconcio possa avvenire in uno stato. In ogni caso in uno stato, le tasse sono quindi legate al terziario, che più è avanzato più è pretenzioso. In poche parole: più assistenza, più tasse. A questa regola non si sfugge
Si può dire che uno stato è ben gestito quando i proventi delle tasse sono uguali alle spese per i servizi erogati. Questo è il primo dovere di un governo: il giusto bilancio tra tasse e servizi erogati.
Fermo restando che la produzione dei beni primari e secondari debbono essere lasciati alla libera iniziativa privata con l’obbligo di pagare le tasse dovute, i beni immateriali del terziario devono essere gestite direttamente dallo stato ed essi sono di due tipi: servizi a pagamento e servizi gratuiti. Possono essere affidati a privati servizi a pagamento, purché strettamente sorvegliati dallo stato, ma vi sono alcuni servizi che, secondo me, lo stato deve direttamente controllare non delegandole a privati: La scuola , la sanità, la difesa e la giustizia. Quando uno stato rinuncia alla gestione diretta di questi quattro settori e fa subentrare l’interesse dell’attività privata od effettuando dei tagli, prima o poi, si arriverà allo sfascio della nazione.
E’ stato obiettato che la gratuità di questi servizi è un peso non sopportabile per uno stato e che bisogna effettuare al massimo dei tagli. A mio avviso ciò non è vero per il semplice motivo che le spese dallo stato sostenute si traducono, generalmente in posti di lavoro sovvenzionati con i proventi delle tasse. Più posti di lavoro significano più stipendi e più circolarità di denaro che influisce nello sviluppo di libere iniziative produttive in altri settori, anche del terziario (commercio, sport, divertimento, ecc.,)
Alla luce di quanto ho sopra detto, analizziamo che cosa è successo in Italia dalla fine dell’ultima guerra ai nostri giorni
Fin dall’inizio si è avuto un impiego massiccio di attività del primario e del secondario, imposto dalla ricostruzione di quanto era stato demolito dalla guerra, che però è andato sempre più decrescendo, affiancato di un sempre crescente sviluppo del terziario. Sicché agli inizi degli anni 80 si è verificato, almeno nel numero di unità lavorative, un tracollo del primario e del secondario ed un incremento del terziario di quasi il 70%, di cui quasi il 30% assorbito da attività commerciali ed il 40% di altre attività immateriali (sanità, scuola, giustizia, ecc., ecc.) Arrivati alla soglia del 2000, venendo a mancare la produzione dei beni primari e secondari, anche le attività produttive aggiuntive (commercio ed altre) sono venute a scemare, restando in auge le spese vive imposte dallo sviluppo sociale.
Per questo motivo i vari governi pur di fare quadrare il bilancio statale, hanno cominciato a prendere l’iniziativa del taglio dei servizi erogati dal terziario. Tali tagli, imponendo, tra l’altro, la perdita di posti di lavoro e, quindi l’immissione di denaro nel circolo produttivo, hanno peggiorato la situazione, incrementando la già nutrita schiera di disoccupazione dovuta alla produzione primaria e secondaria. I nuovi arrivati, sull’onda della protesta, hanno pensato che introducendo un reddito di cittadinanza a perdere si possa risollevare l’economia, ma è sbagliato poiché non favorisce in generale la produzione su cui si basa la ricchezza di una nazione. Lo stato non può comportarsi da elemosiniere. Il suo compito non è quello di regalare, ma quello di spingere a produrre ed incentivare il lavoro.
In conclusione penso che il governo attuale e gli eventuali successivi, debbano incrementare la produzione dei beni primari e secondari, soprattutto industriale, agricola , minerale e marittima, abbandonare la politica dei tagli tranne quelli veramente superflui ed eliminare le prebende di stato concesse a titolo gratuito, ad eccezione di quelle dovute per l’assistenza a disabili non in grado di produrre, precisando, inoltre, che le pensioni erogate sono la restituzione di contributi versati in fase di attività e non elargizioni liberali.
Qualcuno dice che non è così e che dico soltanto sciocchezze? Rispondo che non ho la pretesa di essere un economista e di dettare il tocca-sana della nostra società, ma non posso esimermi dal manifestare il mio pensiero.
AUDREY HEPBURN
Quando ero giovane, questa attrice del mondo dello spettacolo americano costituiva il mio modello di donna da amare per tutta la vita. Mi piaceva il suo sguardo dolce, il suo corpo esile, i ruoli che interpretava ed il tipo di vita che conduceva. Ho visto quasi tutti i suoi film ed ho sempre avuto un ottimo ricordo di lei, anche quando sparì letteralmente dallo schermo per ritirarsi a vita privata dedicandosi ad opere di assistenza benefica nei confronti dell’infanzia sofferente.
Ella moriva il 20 gennaio 1993 a causa di un tumore al colon, Non solo era un’attrice, vincitrice del prestigioso premio Oscar, ma una donna simbolo che impersonò uno stile del tutto particolare ed eclettico del suo tempo che era anche il mio, per il fascino, che seppe suscitare la sua attività di attrice, nonché per la sua vita di mamma devota ed ambasciatrice Unicef, cui dedicò gli ultimi anni della sua vita.
Nata nel 1929 a Xelles, in Belgio, visse in un periodo quando alle donne non era facile accedere alla celebrità e ad affermarsi in un campo molto variegato e complesso quale quello dello spettacolo. Lei vi accedette grazie alle sue doti umane, al suo desiderio di affermarsi nella vita, alla sua professionalità senza ricorrere a stimoli di tipo sessuale in parte adottate da altre attrici dello spettacolo di allora.
Il primo impatto negativo con il mondo in cui viveva, l’ebbe ad appena sei anni. Ho appreso da notizie lette qua e là, che il padre, simpatizzante nazista, nel 1935 abbandonò lei e la madre, una nobildonna belga/olandese, che curò la sua educazione ed incoraggiò la sua predisposizione alla danza classica.
Grazie al suo impegno ed al suo talento a 20 anni era già un’affermata ballerina, che, in precedenza si era prestata a partecipare a spettacoli per la raccolta di fondi da destinare alla resistenza organizzata. Patriota antinazista convinta dunque ed anche operativa nei limiti del suo ruolo.
Pur essendo stata abbandonata dal padre si rivelò figlia affettuosa, avendolo ritrovato a Dublino in stato di bisogno ed assistendolo amorevolmente fino alla morte.
In questo rivedevo la figura romantica della figlia abbandonata di Ugo Foscolo che in Inghilterra, dove andò a finire esule ed indigente, lo accudì fino alla morte.
Grazie alla sua educazione artistica ed al fascino che sapeva suscitare, nel periodo post-bellico le fu facile poter accedere al mondo della celluloide , che la vide protagonista con attori del calibro di Fred Astaire, Gary Cooper , Bogart , Gary Grant ed altri attori del mondo hollywoodiano.
Nonostante la sua intensa vita di attrice, trovò il tempo di innamorarsi e di sposarsi con l’attore Mel Ferrer, da cui ebbe un figlio, e da cui divorziò non certo per sua colpa, per poi sposarsi con l’italiano Andrea Dotti. Con quest’ultimo ebbe pure un figlio , Luca, ma la sua gravidanza fu piuttosto laboriosa per cui Ella , un po’ per motivi di salute, un po’ per la sua predisposizione all’amore materno, nel 1967 decise di abbandonare il cinema.
In proposito, senza alcuna remora affermò:
«Se fossi occupata a lavorare come attrice, mi sentirei come se stessi derubando la mia famiglia, mio marito e i miei figli, derubandoli dell'attenzione che dovrebbero ricevere» |
(da L'Ange des enfants) |
Ciò non le impedì di svolgere l’attività di madrina dell’Unicef, accettandone il ruolo di ambasciatrice, che disimpegnò in maniera esemplare.
Non solo madre devota dei suoi figli , ma anche di quelli abbandonati del terzo mondo
fu, dunque, la Hepburn, lasciando nel tempo un grande modello di bontà oltre che di stella luminosa del firmamento cinematografico.
" Vent'anni fa è morta Audrey Hepburn, - ha detto Giacomo Guerrera, presidente dell'Unicef Italia - una donna che noi della famiglia Unicef vogliamo ricordare come esempio di straordinaria
generosità e come un meraviglioso ambasciatore di buona volontà. Di lei, amo ricordare una frase: apri le braccia per stringere il maggior numero di bambini, amali e proteggili
come se fossero i tuoi
Ella venne nominata "Ambasciatore SPECIALE DELL' UNICEF" e nel 1988, è andata in Etiopia, dove anni di siccità e guerra civile avevano causato una terribile carestia. Al suo ritorno, iniziò instancabilmente a raccontare e promuovere il lavoro dell'Unicef in tutto il mondo.
"Posso testimoniare cosa significa Unicef per i bambini, perché ero tra quelli che hanno ricevuto cibo e soccorso medico subito dopo la seconda guerra mondiale", ha detto quando nel
1989 è stata nominata ambasciatrice
dell'Unicef , nella cui veste andò in Guatemala, Venezuela, Ecuador, Honduras, El Salvador, Messico, Bangladesh, Thailandia, Vietnam e Sudan.
Ha promosso e predisposto diversi progetti dell'associazione per vaccinare, proteggere e fornire acqua e servizi igienici sanitari ai bambini poveri, sfollati e malnutriti.
Ha rappresentato l’Unicef al Congresso degli Stati Uniti, ha partecipato al vertice mondiale per l'infanzia ed ha intensificato rapporti su "la condizione dell'infanzia nel mondo".
Anche nell'ultimo periodo di vita, durante la malattia, Audrey Hepburn ha portato avanti il suo impegno verso l'Unicef con diversi viaggi in Somalia, Kenya, Svizzera, Francia ed U.S.A.
Sir Peter Ustinov, altro storico ambasciatore di buona volontà Unicef, ha detto di lei: " Sapeva meglio di chiunque altro che la ricompensa per questo lavoro è agli occhi di chi ha
bisogno di aiuto. Sono loro che ci fanno capire, in tutta la loro semplicità, che tutto ciò ha un senso”.
Indubbiamente la Hepburn, nata in Belgio ed operativa in tutto il mondo, rappresenta un aspetto emergente e storico di questa nostra Europa e delle sue finalità di guida ed aiuto nel mondo soprattutto grazie alla sua versatilità e sincera bontà, che spontaneamente abbracciò.
Vedo inoltre in lei le stesse caratteristiche di un’altra donna eccezionale: Santa Maria madre di Calcutta, la quale esercitò la sua missione umana in nome della sua Fede in Gesù Cristo, con la sola differenza che la Hepburn non attinse nella sua opera ad alcuna giustificazione religiosa, ma semplicemente al suo intimo convincimento personale ed all’amore per i bambini di tutto il mondo che cercò di curare come se fossero i suoi figli.
Anche se non è assurta agli onori dell’altare, sicuramente codesta donna dai principi sani e profondamente umani ha trovato il suo posto in Paradiso.
Luigi Pirandello e Marta Abba
La figura piuttosto ieratica di Pirandello mi ha sorpreso non poco leggendo di un rapporto amoroso con Marta Abba. Lo trovavo molto in contrasto con i principi espressi dallo scrittore nelle sue opere, essendo egli sposato ed assertore convinto del legame matrimoniale. Per questo motivo ho cercato di approfondire i rapporti tra i due e scoprirne, per quanto possibile, la verità.
Luigi Pirandello, ormai drammaturgo affermato, oltre che letterato di grido, tutte le volte che aveva necessità di attori od attrici per le sue opere teatrali si affidava ai suggerimenti ed all’esperienza del suo amico Marco Praga, critico d’arte molto esigente e competente in materia.
Fu così che quest’ultimo gli segnalò la giovane attrice Marta Abba, risultata vincitrice di un concorso d’arte filodrammatica per un suo lavoro teatrale.
Lei, accompagnata dalla madre, come allora era da prassi, si presentò al teatro per essere ricevuta dal Pirandello, che senza porre ostacoli la scritturò seduta stante, trovandola stupendamente bella e di sicura bravura. Diciamo che fu piuttosto fulminato dalla bellezza del suo viso e da quei capelli rossi che lo incorniciavano, nonché del suo corpo armoniosamente appariscente.
Fu questo l’inizio del rapporto artistico tra Luigi Pirandello e Marta Abba.
Lei aveva 25 anni ed era libera da legami affettivi, proiettata e determinata a voler raggiungere ad ogni costo la celebrità. Lui ne aveva 58 e da sei anni circa libero da rapporti coniugali, cessati , per dissapori con la propria moglie Maria Antonietta Portolano, ossessionata dalla gelosia nei confronti del marito fino al punto di essere andata fuor di senno.
Questo loro primo incontro avvenne sotto l’insegna della reciproca simpatia. A Lei piacque l’aria piuttosto composta di quell’uomo dai capelli brizzolati con quel suo pizzetto bianco e, nonostante non fosse poi tanto imponente, mostrava con la sua compostezza una personalità affascinante che sprizzava dal suo sguardo incisivo e luminoso. A lui piacquero quei capelli rossi, quelle labbra carnose, quel viso angelico e quelle movenze che le davano sicurezza espressiva adatte alla sua opera che aveva in cantiere. Oltre alla simpatia, scattò in lui qualcosa che aveva già provato, molto più larvatamente, quando conobbe la moglie.
Da quel giorno il loro rapporto fu costante e continuo ed improntato ad una complicità artistica che condusse sempre più il Pirandello a considerarla la sua musa ispiratrice e lei la guida del maestro di cui ne aveva compreso il carattere ed anche i sentimenti.
Tra loro si instauro una corrispondenza d’amorosi sensi mai esternata, un rapporto d’amore mai manifestato ed una strana forse malinconica e struggente storia d’amore, che diventò tormento per entrambi, per una diversità d’intenti.
Lui, così rigido nel suo convincimento etico, pur essendo innamorato pazzo di Lei, non osò mai andare al di là di una composta ed assidua espressività sentimentale, ritenendo la loro differenza di età un ostacolo ad una intesa sessuale oltre che sentimentale. Ed inoltre considerando che egli, tuttavia, risultava ancora sposato, non essendovi allora la soluzione del divorzio, riteneva un eventuale rapporto carnale con lei una situazione non eticamente accettabile. Vi fu forse, da parte di lei, una risposta sessuale positiva ma non accettata dal Pirandello. Ad un certo punto Lei, attratta dalla personalità dello scrittore, cedette al desiderio di amarlo; cosa rifiutata con estremo dolore e rimpianto da lui che aspirava ad un rapporto sentimentale e non semplicemente sessuale. Non vi è la certezza di tale cedimento od invece di un netto rifiuto, per la sibillina espressione usata in proposito da Lui, riferendo in proposito di una tremenda notte di tormento vissuta con lei in un albergo di Como. Per il resto erano sempre insieme a parlare e discutere sui personaggi da creare e da interpretare, ma, mai alcun riferimento come quella notte in un albergo di Como.
Lei, forse per niente turbata dalla differenza di età, era trattenuta dalla sua passione per il lavoro di attrice. Come il Pirandello aveva la passione di creare dei personaggi, così ella aveva quella di voler interpretare tutti i ruoli delle donne, di voler essere l’unica capace ad esprimere la femminilità in tutte le sue espressioni, di mostrare sul palcoscenico tutto ciò che lei non era. Insomma era innamorata della sua arte e pur di “sfondare” era disposta a tutto, forse anche a diventare l’amante oltre che la consigliera e la musa ispiratrice di Pirandello. Lei si accorse e constatò con mano la passione sentimentale ed il tormento del Pirandello e, volutamente, la ignorò fuorviando di volta in volta il discorso su argomenti prettamente di teatro. Molto probabilmente vi fu un’unica volta, lì, a Como, che lei sarebbe stata disposta a cedere sessualmente, ma non certo sentimentalmente, come avrebbe sperato o voluto il Pirandello.
Questo loro doloroso rapporto durò circa dieci anni, vissuti insieme e caratterizzato da un inespresso amore, voluto e rifiutato da entrambi, come, del resto conforme all’astrattismo artistico imperante a quei tempi.
Esso cessò solamente nel 1936, quando lei, per motivi di lavoro si trasferì negli Stati Uniti. Quando l’accompagnò al porto per imbarcarsi, Pirandello capì che non l’avrebbe rivista più . Infatti egli dopo appena tre mesi dalla partenza di lei morì forse più di crepacuore che di vecchiaia e fu per lui la fine di un amore tormentoso che non gli dette requie.
Lei in America, sposò un ricco petroliere di Cliveland, dal quale divorziò dopo 14 anni, ma non dimenticò mai il suo rapporto d’amore non espresso con Luigi Pirandello, conservando tutte le numerose lettere a Lei inviate dal suo non-amante o, se volete, amante non corrisposto dal 1925 fino al 1936, dalle quali si evince il suo languore e supplizio sentimentale.
Tali lettere sono state date da Lei alle stampe solamente nel 1985, tre anni prima della sua morte avvenuta nel 1988, forse per far conoscere al mondo di essere stata amata da cotanto artista o forse per motivi di puro interesse venale. A queste lettere piene di sentimento e di profonda devozione, ricevute tutte quelle volte che erano costretti a stare in città differenti per motivi di lavoro, corrispondono ad un suo epistolario ricevuto dal Pirandello e che venne pubblicato nel 1995, dalle quali si evince che Marta Abba mai corrispose alle intenzioni sentimentali di Luigi Pirandello, ignorandone il senso e rispondendo con mere questioni di lavoro teatrale. Nessun cedimento sentimentale.
Dai due epistolari a confronto se da un lato risulta il travaglio del povero Pirandello accecato d’amoroso sentimento e rimorso etico, dall’altro lato corrisponde l’atteggiamento cinico e legato solo all’ interesse artistico di Lei, che ignorando ogni sentimento, avrebbe forse accettato un legame solamente sessuale e passeggero. Tutto questo emerge dalla lettura dei due epistolari, confermando la mia supposizione rispetto ai rapporti tra Pirandello e Marta Abba.
SOFOCLE ALLO SPECCHIO.
Ho assistito qualche anno fa alla tragedia “Antigone” di Sofocle andata in scena al teatro Stabile di Catania. Nell’evidenziare intanto la bravura degli attori e quella dello sceneggiatore, nonché del regista, mi preme evidenziare la figura di Sofocle, scrittore del 400 circa Avanti Cristo.
Per chi non lo sapesse, Sofocle era uno scrittore di tragedie greche, che affrontava dei temi sociali, le cui valenze sono anche e soprattutto oggi oggetto di riflessione ed analisi della società nel campo morale e politico.
Le sue tragedie sono imperniate sul ciclo cosiddetto Tebano ed appunto riguardano le considerazioni di allora sui concetti di moralità, politica ed interferenze universali delle leggi nell’ambito della democrazia.
Il modello analizzato era quello di Tebe, ma tale modello è applicabile anche ai nostri giorni e negli stati attuali.
Tebe era una città-stato della Grecia- Per un complesso di fatalità, Edipo, diventato Re di Tebe dopo aver inconsapevolmente ucciso il padre Laio ed aver sposato la propria madre Giocasta, ebbe due figlie Antigone ed Ismene ed anche due figli Eteocle e Polinice.
Alla sua morte, in esilio, lontano da Tebe, assistito dalla figlia Antigone, diventò re di Tebe il fratello di Giocasta, Creonte.. Durante il regno di quest’ultimo i due fratelli, che in un primo momento avevano deciso di essere entrambi Re della città in fase alternativa, vennero in lotta per il potere assoluto. Era al potere Eteocle, quando Polinice, alleatosi con i nemici di Tebe cercò di detronizzarlo. La Guerra si concluse con la reciproca morte dei due fratelli, uccisisi a vicenda ed il ritorno al potere di Creonte. – Questi emise un bando secondo il quale il corpo di Polinice doveva essere dato in pasto ai cani, senza alcuna sepoltura. Antigone mossa a pietà per il corpo del fratello, lo seppellì personalmente con la sabbia. Scoperta da Creonte, venne condannata ad essere murata viva per essersi ribellata al suo bando. Dietro intervento di Tiresia, i due bandi di Creonte, quello della mancata sepoltura di Polinice e quello della condanna di Antigone, perché contrari alla morale divina, Antigone venne smurata dalla sua prigione. Ma, trovatala morta, il figlio di Creonte, innamorato di Antigone, si uccide e si uccide pure Euridice, madre di Emone e moglie di Creonte.
Questo l’antefatto e la trama della tragedia di Sofocle, il quale affronta lo spinoso argomento della moralità delle leggi, sostenendo per bocca del saggio Tiresia, che il Re non è libero di legiferare come vuole o ritiene di fare, poiché le sue leggi non possono in ogni caso andare contro la volontà e la legge divina. Infatti non si può negare la sepoltura ai morti, né il Re può decretare la condanna di un suo congiunto a sicura morte.
Quanto da Sofocle sostenuto è valido anche ai nostri giorni e lo sarà sempre poiché chi ha il potere di legiferare non può andare oltre e contro quanto stabilito dalle leggi divine, che, ai tempi moderni e di democrazia, è sostituita dalla legge costituzionale.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati sul personaggio di Antigone ed anche di Edipo Re poiché i riferimenti alle limitazioni imposte alle leggi dalla morale e dal volere divino sono evidenti in Sofocle, che pone anche l’attenzione sul problema dell’incesto, condannato dagli Dei, che fanno pesare la loro maledizione sui discendenti di Edipo e Giocasta.
Non posso non evidenziare anche la figura di Creonte, che succeduto ad un periodo di guerra civile tra i due fratelli fratricidi, non ha forse saputo procedere al ripristino della pace sociale tra le due fazioni, come evidenzia il saggio Tiresia, chiamato a dare un giudizio giusto su tutta la vicenda.
LA TRAGEDIA DI EDIPO RE
La tragedia di ANTIGONE, fu la prima tragedia del ciclo tebano di Sofocle. Successivamente egli scrisse la tragedia di EDIPO RE.
Nonostante questa circostanza, la vicenda di Antigone è successiva a quella di Edipo Re, per quanto concerne la storicità degli avvenimenti narrati. I fatti di EDIPO RE sono l’antefatto di quelli di ANTIGONE.
Mi accingo a riportare la trama di Edipo Re.
Era Tebe una città stato della Grecia, il cui re Laio sposò la giovane Giocasta. Da questo matrimonio nacque Edipo e secondo le usanze del tempo, venne interpellato l’oracolo di Delfi per conoscere la sua sorte.
La risposta fu che Edipo, crescendo avrebbe ucciso suo padre ed avrebbe sposato la madre. Per impedire che ciò avvenisse, Laio dette incarico ad un pastore di abbandonare Edipo sul monte Citerone, dove le belve lo avrebbero sicuramente sbranato. Ma avvenne che il Re di Corinto Polibo lo trovasse e lo conducesse a casa affidandolo alla cura della moglie Peribea.
Edipo crebbe giovane e forte, ma per un caso fortuito venne a sapere di non essere il figlio naturale del Re di Corinto. Pertanto si rivolse all’oracolo di Delfi per conoscere la sua sorte. L’oracolo, come per la prima volta, rispose che egli avrebbe ucciso suo padre ed avrebbe sposato sua madre diventando per questo re.
Edipo, interpretando che l’oracolo si riferisse ai suoi genitori adottivi, decise da andare via da Corinto, affinché l’evento non accadesse e si diresse verso Tebe.
Lungo la strada ebbe un diverbio con una persona anziana che gli ostacolava il cammino. Venne alle mani con lui e lo uccise. Dopo continuò verso Tebe ed incontrò un mostro spaventoso. Era la SFINGE un essere con la testa di donna il corpo di leone e le ali di aquila, la quale affliggeva gli abitanti di Tebe ponendo loro un suo quesito, non rispondendo al quale li uccideva seduta stante.
La sfinge pose anche a lui il quesito che era il seguente: “ Chi è quell’animale che ha la voce, il mattino quattro zampe, il mezzogiorno due e la sera tre?”
Edipo rispose immediatamente che quell’animale era l’uomo, che da neonato gattonava, da giovane camminava con le sue gambe e nella vecchiaia adoperava il bastone come terza gamba. La Sfinge sconfitta, scomparve e finì di torturare i Tebani, che accolsero Edipo come un eroe ed il salvatore della città. Per questo motivo il reggente , fratello di Giocasta, avendo intanto saputo della morte di Laio per mano di uno straniero rimasto incognito, gli offri la mano della sorella.
Pertanto Edipo diventò RE DI TEBE e l’oracolo di Delfi si era avverato. Infatti egli aveva inconsapevolmente ucciso il padre Laio e sposato la madre Giocasta.
Per un simile accadimento gli Dei, vigili della giustizia, punirono la città di Tebe per il parricidio e per l’incesto del loro Re, suscitando nella città la moria dei cittadini per una grave pestilenza.
Edipo, allora, interpellò l’indovino Tiresia per scoprire le motivazioni dell’ira degli Dei. Tiresia, messo alle strette, gli disse chiaro e tondo che gli Dei ce l’avevano con lui. Per far cessare la pestilenza a Tebe era necessario, quindi, che giustizia venisse fatta.
Edipo, che intanto aveva generato con la moglie-madre Giocasta i due fratelli Eteocle e Polinice e le due sorelle Antigone ed Ismene, non credette a Tiresia, accusandolo di connivenza con Creonte per detronizzarlo. Ma davanti alla testimonianza del pastore che lo aveva abbandonato e a testimoni che lo riconobbero come l’omicida di Laio, dovette riconoscere la verità che il fato aveva predisposto.
Giocasta , venuta a conoscenza di tutta la vicenda, si uccise e Edipo si cavò gli occhi con una fibia della moglie-madre andando in esilio da Tebe, accompagnato dalla figlia Antigone che lo assistette fino alla morte e dopo rientrò a Tebe. Qui finisce la tragedia di Edipo e costituisce l’antefatto della tragedia di Antigone, precedentemente descritta.
Anche qui Sofocle enfatizza la giustizia divina che sta al di sopra di quella
umana e dalla quale non si può derogare e che i Re non possono correggere in alcun modo i voleri del Fato, anche se capaci di poter esprimere saggezza e sapienza tali da risolvere i grossi problemi posti dalla Sfinge.
Carità ed amor di Patria
Uno dei tragitti che percorro sempre in macchina per recarmi da casa mia
sita nell’isola amministrativa di Tremestieri Etneo a quella di una mia sorella abitante a Gravina di Catania prevede il percorso di un’ampia arteria stradale che culmina in un incrocio con un’arteria di collegamento altrettanto importate.
Purtroppo questo incrocio è un disastro per la scorrevolezza del traffico, sia all’andata che al ritorno. Quel semaforo, che passa dal rosso al verde e e viceversa, in un continuo alternarsi che sembra quasi statico, costringe gli automobilisti a soste forzate e ripetute. Di queste soste ne approfitta qualche povero extracomunitario, generalmente di colore, munito dell’occorrente per eseguire un non richiesto e rapido lavaggio del parabrezza, per racimolare qualche centesimo di euro per sbarcare il lunario.
Purtroppo è questa una scena che si ripete quasi in tutti gli incroci con semafori delle strade del catanese, dove questa povera gente staziona creando anche dei piccoli problemi connessi al variare repentino del colore del semaforo.
Per quanto mi concerne, ormai sono abituato a questo genere di incontri ai semafori e se proprio non voglio, faccio segno di no con il dito ed in questo caso, talvolta, prendo alcuni centesimi spiccioli che tengo sempre nel cruscotto della macchina porgendoli al questuante di turno. Certo non è un lavoro che faccio sempre , poiché non sempre ho a disposizione delle monetine. Ma tutte le volte che affronto il semaforo in questione faccio sempre in modo di avere degli spiccioli a portata di mano. Questo perché a presenziare questa postazione semaforica è sempre la stessa persona: un uomo della apparente età di circa cinquantenni, zoppicante, emaciato ed apparentemente sofferente, che suscita in me il desiderio di poterlo in qualche modo aiutare.
Pertanto, tutte le volte che mi fermo a quell’incrocio in attesa del verde, egli mi si presenta allo sportello molto rispettosamente ed io, facendo segno di no, gli porgo una monetina da 50 cent od anche da un euro. Ne ricevo un sorriso di ringraziamento, che ricambio con un cenno di saluto. Tra me e lui si è ormai stabilito quasi un filo di reciproca intesa, che tutte le volte mi lascia una certa amarezza nell’intimo , certamente, non estinta da quel piccolo obolo.
Proprio due giorni fa, un pomeriggio, di ritorno dalla casa di mia sorella, mi sono fermato con la macchina , come di rito, al semaforo in attesa che diventasse verde. Alla mia sinistra si presentò il solito questuante ed io, abbassato lo sportello, facendo segno di no, gli ho dato una monetina da 50 cent. Mentre eseguivo questa operazione, che tra l’altro non ostacolava il traffico, essendo il semaforo sempre rosso, dalla macchina accanto un signore dall’aspetto ben pasciuto , dal posto di guida della sua BMW, incominciò a strombazzare con il clacson, facendomi segno di no e blaterando non so cosa. Lo guardai di sfuggita, pensando che avesse l’intenzione di dirmi qualcosa, ma, capito dal suo gesto cosa intendesse dire, essendo arrivato il verde, misi in moto la macchina e svoltai a destra come di consueto. Anche la BMW del signore in questione svoltò a destra e nonostante marciassi con una certa celerità consentita dalla viabilità, sentii il gracchiare rabbioso del clacson della macchina che mi seguiva e, guardando dallo specchio retrovisore, notai che il guidatore mi faceva cenno di fermarmi. Pensai che forse il signore in questione avesse notato qualcosa che non andasse nella mia macchina, per cui, appena possibile accostati a destra e mi fermai. Fui sorpassato dalla macchina che mi seguiva e che si fermò davanti a me. Dal posto di guida saltò fuori un uomo di una certa età, ma molto più giovane di me, come un dannato e, lasciando, tra l’altro il motore acceso, si accostò allo sportello del mio posto di guida cominciando ad arringarmi con veemenza.
- E’ per colpa di gente come lei, che questa gente si permette di vivere alle spalle di noi italiani. – mi disse e, rincarando la dose aggiunse -Lei è un traditore della patria, un buonista di merda, che sta rovinando l’Italia con questo suo comportamento. Questa è gente che deve morire di fame, che ci sta invadendo, che ci sta togliendo il pane dalla bocca …. Come si permette di dar loro di che vivere … Se ne accorgerà quando verranno a comandarci … Non lo faccia più!
Le invettive continuavano a ruota libera, come se io avessi commesso un reato nell’aver fatto l’elemosina. Lo guardai sbalordito ed annichilito … Fui incapace di rispondere … Cercai di reagire, ma guardandolo negli occhi notai che era esagitato al massimo e che sembrava recitare una litania appresa a memoria, frutto di chissà quale imbottitura politica. Valutai attentamente la situazione. Accennai a reagire, ma poi capii che sarebbero state parole perse … Mi limitai a chiudere il vetro dello sportello, lasciandolo sbraitare. -Tanto prima o poi si stancherà,- pensai-
Ed intanto la fila che si era formata dietro di me incominciò a strombazzare con il clacson perché si riprendesse la marcia delle nostre due auto. Alla fine il signore in questione, tronfio per avere compito la sua missione di difesa patria, salì in macchina e con fare rabbioso partì a razzo.
Mi mossi anch’io con la mia macchina, molto più lentamente e perplesso.
Non credevo ai miei occhi ed alle mie orecchie … Ma cosa avevo fatto di male? Avevo semplicemente dato 50 centesimi di elemosina ad un povero cristo, messo lì sotto il sole ad attendere la grazia di Dio … Mi chiedevo se vi fosse in Italia una nuova legge che impedisse di essere caritatevoli. No! Non mi risultava.
L’episodio, però, mi lasciò a riflettere sul cattivo impatto della propaganda politica sulla gente. Quel signore che mi aveva arringato, non mi sembrava, poi, persona fuori dal normale, anche se un po’ su di giri, Egli ripeteva come un automa tutte le frasi fatte che circolano sui moderni telefonini riguardo ad invasioni silenti di gente di altra razza, di difesa del suolo italiano, di accuse di buonismo , sinonimo di tradimento dei doveri del cittadino e , nello stesso tempo, mi chiedevo se, a lungo andare, qualcuno non pretendesse di limitare anche la libertà in Italia di fare l’elemosina in nome della difesa della patria.
Mi sembra che il popolo sovrano sia molto sensibile all’individualismo strombazzato a chiare lettere ed indirizzato verso un unico obiettivo. PRIMA GLI ITALIANI. (ANCHE SE PRIMA SI DICEVA PRIMA I PADANI ) ed anche se non si dice chi dovrebbe venire dopo, sembra molto evidente, che va tradotto con “SOLO GLI ITALIANI”. Qualcuno potrebbe obiettare che quel “SOLO” non viene in effetti pronunziato, ma sancito a tutti gli effetti, quando si passa alla descrizione poco lusinghiera degli immigrati, considerati sempre delinquenti all’arrembaggio, anche se oggi sono sporchi negri ed ieri erano sporchi terroni.
Altro che carità cristiana, mostrando il crocifisso in mano ed il rosario al collo, questo è perfetto egoismo, che la fa a pugni col Vangelo e con la mia educazione di cattolico..
Esiste una razza europea?
Anche se la scrittura ha consentito di tramandare nei secoli notizie inerenti il genere umano esplicitando notizie riguardanti la sua evoluzione sul pianeta Terra, dobbiamo in ogni caso ammettere che è possibile oggi avere delle notizie più che certe inerenti alla sua espansione. Ciò è stato possibile per due motivi bene precisi: la tendenza dell’uomo a seppellire i morti e la recente scoperta della lettura del DNA, che consente di poter conoscere i legami esistenti tra i popoli, fin dai tempi più antichi.
Grazie a questi due elementi, è stato possibile studiare l’evolversi della vita umana e stabilire una mappa dettagliata dei movimenti di massa delle antiche popolazioni-
Da profonde analisi di ossa umane ritrovate, è stato possibile individuare la data della morte del soggetto, nonché la sua appartenenza ad etnie diverse.
E’ stato così assodato che l’homo sapiens, così come appare oggi in tutti i suoi aspetti morfologici, abbia tratto le sue origini in Africa, Medio-Oriente e Russia. E che da lì si sia mosso verso l’Europa.
Quando ancora quest’ultima era preda di ghiacciai e di un clima per niente favorevole, l’Anatolia, l’Africa, il medio oriente e le stesse tundre russe erano molto più adatte ad ospitare il nascente genere umano, già preceduto dalla generazione del famoso uomo di Neandertal.
La prima invasione o colonizzazione dell’Europa sembra che sia avvenuta via terra e via mare, tramite imbarcazioni primitive dalle rive dell’Anatolia, attuale Turchia e dell’Africa e che il colore della pelle non fosse proprio quello attuale , ma il nero. A questa prima ondata susseguirono le invasioni via terra provenienti dal medio-oriente ed esattamente da quel tratto di terra compreso tra il Tigri e l’Eufrate. La terza grande invasione fu quella proveniente dalle lande russe caratterizzata anche dalla violenza e dall’uso incondizionato delle armi. Le prime due sono caratterizzate dal nomadismo spontaneo dettato forse dalla variazione di clima e dall’esplosione demografica. La terza invece dal desiderio di potere e di conquista di altri territori.
Proprio dalla lettura del DNA, che è possibile rilevare anche da piccoli frammenti ossei, si rileva che i primi ad invadere l’Europa ed a costituirne la prima popolazione aborigena, fossero degli uomini di colore nero. Solo successivamente, grazie alla influenza del clima, il colore della pelle è cambiato, fermo restando che il DNA risulta sempre composto dagli elementi extra-europei sopra nominati.
Sostanzialmente, lo studio del DNA degli abitanti d’Europa, fin dai tempi più antichi, rivela che essi sono il risultato finale di altre genti provenienti da altre località e che il colore della pelle è stato anche diverso dall’attuale.
Alla luce di questo fatto, assodato dai rilevamenti scientifici, fa crollare il concetto di “razza pura europea” tirato in ballo da determinati gruppi politici odierni.
Il migliorare delle condizioni di vita dell’Europa e lo sviluppo delle nozioni scientifiche, che in Europa hanno trovato terreno fertile, fanno da chiamo ad altre etnie. Pertanto anche il colore della pelle in Europa è in continua evoluzione, esattamente come avviene in altre parti del mondo.
A quanti declamano la purezza della razza, il colore della pelle e l’aspetto ceruleo della pupilla, non resta che rassegnarsi all’immagine di un europeo futuro dal molteplice aspetto formale, dal biondo al moro, dal rosso al bianco e dal formale connotato fisico ad un altro.
Tranquilli! I diversi aspetti fisici e colori persisteranno e convivranno per un lungo periodo a venire. Non esiste una razza europea, ma un’etnia europea frutto di altre etnie facenti parte della razza umana. Il futuro dell’Europa è arlecchino, come lo è stato il passato nel suo continuo divenire imposto dal clima e dal nomadismo umano.
Il raccontino
Frequentavo una coppia di amici del Nord, con i quali si era soliti partecipare a delle gite insieme ad altre coppie. Lei, Maria, una procace e bella signora dagli occhi stupendi e non solo quelli, molto simpatica, estroversa e spontanea. Lui, Mario, un poco smilzo, pelato, occhialuto ed una pronunciata pancetta da commendatore. Sarebbe stato in verità anche lui simpatico, se non avesse avuto il vezzo di decantare ad ogni piè sospinto la superiorità della razza bianca rispetto a quella negra, che definiva addirittura un errore della natura.
In occasione di una gita a Parigi, durante la quale era previsto uno spettacolo al famoso Crazy-Horse, per un infelice errore della guida nella distribuzione dei biglietti d’ingresso precedentemente acquistati, Maria prese posto accanto a me e Mario andò a finire in un altro poco distante.
Lo spettacolo di cui parlo consisteva in un balletto di odalische velate insieme ad un solo maschio, un nerboruto e statuario negro quasi in costume adamitico con uno slip che a stento copriva i suoi intimi attributi abbastanza prorompenti.
Le sue movenze facevano risaltare la sua “tartaruga” , i suoi muscoli e tutto il resto. Avvenne che ad un certo punto dello spettacolo, mi sentii stringere la mano da Maria, che, quasi in delirio, esclamava: “ Mamma mia, ma questo è un DIO negro! Magari fosse così il mio Mario!”
Fu così che mi resi conto dell’avversione di Mario, settentrionale, per i negri, sporchi, brutti e … sottosviluppati.
Finivu a tri tubi.
Nell’antico cortile di periferia vi fu subito un rigurgito di agitazione.
Finalmente qualcosa si era mossa per l’approvvigionamento idrico nelle singole case. Le sei famiglie che vi abitavano non sarebbero più state costrette a prelevare l’acqua occorrente alla fontanella pubblica con la tradizionale “quartara”, facendo la fila in attesa che ognuna di esse si riempisse.
Era stata recepita la circolare comunale che consentiva l’approvvigionamento idrico in tutte le case del quartiere.
Bisognava solamente predisporre un impianto casalingo, fare la richiesta alla Casalotto SrL, che avrebbe provveduto all’allacciamento con la rete cittadina già predisposta. Veniva, inoltre, resa nota la spesa di allacciamento ed il canone a consumo mediante un orologio a contatore.
Ovviamente il costo di allacciamento, che era abbastanza … corposo, fece un po’ arricciare il naso agli abitanti del vecchio cortile. Però l’utilità di avere l’acqua corrente bell’è pronta a casa solleticava l’interesse di tutti. Per questo motivo le sei famiglie si riunirono per trovare una soluzione per avere l’acqua in casa al minore costo possibile.
Venne interpellato un idraulico, il quale disse papale papale, che l’impianto in ogni singola casa sarebbe stato a carico di quella famiglia. Il costo dipendeva da quello che si voleva avere, ossia un rubinetto o due o quanti se ne volevano. Disse, inoltre, che per quanto concerneva l’allacciamento, era possibile ridurre a solo due utenze quella delle sei famiglie, risparmiando sul costo del canone e dell’allacciamento, spiegando cosa bisognasse fare tecnicamente.
Egli conosceva il sistema per usare un’utenza per tre famiglie.
Detto, fatto. Si accordarono con l’idraulico e si dette subito inizio ai lavori nelle case, contemporaneamente alla richiesta di utenza da parte di due sole persone, ossia due capi famiglia delle sei.
La soluzione tecnica consisteva nel fare affluire l’acqua in una cassetta, che esisteva già in commercio, di distribuzione a tre e che poteva essere preceduta dal relativo contatore a monte. Ogni singola cassetta era munita di tre fori di deflusso ai quali venivano allacciati tre tubi per le tre famiglie del gruppo ai quali, volendo, si potevano applicare tre contatori privati per la ripartizione finale delle spese di fornitura a canone. Pertanto l’intestatario dell’utenza poteva alla fine recuperare le spese del consumo e procedere al relativo pagamento totale alla società fornitrice.
Tutti furono soddisfatti di poter infine avere la possibilità di aprire il rubinetto o i rubinetti di casa ed avere l’acqua corrente a portata di mano. Ma ben presto il sistema adottato rivelò i suoi limiti . Infatti se i tre utenti in un lasso di tempo comune aprivano incontemporaneo i rubinetti di casa, l’afflusso dell’acqua nelle singole case diminuiva vistosamente al punto tale da non riceverne a sufficienza per i relativi bisogni.
Ebbero , così, inizio le liti tra le varie famiglie.
“Pi’ favuri chiurissi l’acqua ca m’haiu a fari a doccia” ---“ Pi’ favuri chiudissi l’acqua c’ haiu a cucinari” --- “pi favuri chiurissi l’acqua c’haiu a biviri”…. E così via di seguito.
A forza di “pi’ favuri” e “pirchì non aspetta anticchia” si passò a piccole discussioni , che per superare le quali, qualcuno non passò ad un sotterfugio furbesco, aprendo la cassetta di distribuzione e chiudendo il rubinetto a saracinesca degli altri due.
“Bih! Mancavu l’acqua”. “Macari a mia”. Rispondevano al terzo utente che diceva la stessa cosa. Ovviamente uno dei tre mentiva. E tutte le volte la colpa era di “ddi disgraziati ca intantu si pigghiavanu i soldi ogni misi”. “Soldi arrubati sunu”.
Il tutto continuò finché non si capì che qualcuno faceva il furbo a scapito degli altri due e siccome a ricorrere a tale espediente erano tutti, nell’antico cortile mentre prima regnava l’armonia e la pace, con l’arrivo dell’acqua scoppiò la guerra. La guerra dell’acqua! E’ emblematico che più si migliora e più cresce il pericolo delle liti e delle guerre nel mondo.
“E chi è stu schifiu! Ccà finiu a tri tubi “, qualcuno ebbe a dire, accusando la non colpevole società fornitrice.
Fu necessario eliminare quel sistema di fornitura risparmiosa, ricorrendo alla fornitura singola, ma il detto “ccà finiu a tri tubi”, che sentivo per la prima volta, mi dette da pensare. Era possibile che il detto tipico in questione traesse origine da questo episodio e fino ad oggi sopravvivesse, tutte le volte che una questione avesse un esito negativo?
Fu veramente questa la vera origine del modo di dire catanese “finivu a tri tubi?” Non credo, poiché la stessa espressione l’ho sentita ripetere a mio nonno, buon’anima, ancor prima che avvenisse l’avvenimento descritto ed inoltre, egli non era catanese, ma lentinese.
Dunque, anche a Lentini si usava questa espressione, tutte le volte che un avvenimento finisse male. Ciò mi dette da pensare molto sulla questione. Infatti a quei tempi non esisteva la rete idrica che portava nelle case l’acqua. Vi erano solo le fontanelle pubbliche, dove si andava con le “quartare” ed i “bummuli”. Era dunque impossibile che questo modo di dire fosse collegato ad un “divisore” dell’ acqua con un’entrata da un solo tubo ed una uscita in tre tubi differenti.
Sicuramente , alla base di questo modo di dire potrebbe esistere una motivazione storica, ovvero, un qualche episodio eclatante da ricordare , che lo facesse assurgere a simbolo popolare. Ma cosa?
Un mio amico che di mestiere faceva l’infermiere, ad una mia precisa richiesta di sapere cosa significasse l’espressione “finivu a tri tubi”, mi rispose: - Semplice! Quando un uomo è ammalato e viene ricoverato in ospedale in terapia intensiva, generalmente, gli applicano tre tubi : uno per ogni braccio per ricevere i medicinali liquidi con costanza ed un terzo tubo tra le gambe, che sarebbe in pratica il catetere per raccogliere le urine. Quindi quando si dice a qualcuno “ca finivu a tri tubbi” significa che è ammalato in terapia intensiva. –
La spiegazione mi sembrò più che plausibile. Si trattava, pensai, comunque di una questione idrica, ma fu per caso che in una vecchia rivista storica su Catania, notai la foto di un maestoso piroscafo che si chiamava “Città di Catania” con tre maestosi comignoli al centro. Per associazione di idee mi vennero in mente i famosi “tre tubi” del modo di dire siciliano. Non mi ingannai poiché l’articolo della pagina a lato parlava della fine della famosa nave , detta Tre Tubi, e che aveva dato origine alla famosa espressione siciliana: “finivu a tri tubi”
Lessi, anzi divorai l’articolo e scoprii una storia che sconoscevo.
Quel piroscafo, che si chiamava appunto “CITTA’ DI CATANIA” era stato varato nel 1910. A parte il fatto che portasse il nome della città di Catania, una delle più belle della Sicilia, ciò che impressionarono molto l’opinione pubblica isolana furono quei tre immensi comignoli a centro. Allora i piroscafi traevano l’energia cinetica per muoversi in mare , grazie ad enormi caldaie che bruciavano del carbone e quei comignoli servivano per espellere nell’aria i fumi di combustione.
Fu tale l’impatto visivo che venne chiamata “ A NAVI A TRI TUBI” dalla cittadinanza, che la considerava con orgoglio una delle cose più belle della città. Essa venne costruita per motivi civili e svolse fin da subito funzioni di corriere postale nell’ambito del mediterraneo, ma sopravvenuta la guerra del 1915-18, venne requisita dalla Regia Marina ed utilizzata per motivi bellici. Nonostante le marina italiana durante la suddetta guerra non brillasse tanto (ricordo che subì una sonora sconfitta dalla flotta austriaca comandata dal Teghetoff), la Tre Tubi sopravvisse alla guerra e ritornò a svolgere il servizio postale di linea, fino al 1939, anno in cui venne requisita nuovamente dalla Regia Marina per motivi bellici, essendo scoppiata la seconda guerra mondiale. Venne pure rivestita a nuovo con una colorazione idonea a mimetizzarla ed armata partecipò ad azioni di guerra nel mare Adriatico e nel mare Ionio, finché non venne intercettata nei pressi di Brindisi da un sommergibile inglese che la silurò e la fece affondare nel giro di pochi minuti il 3 Agosto del 1943.
Il suo affondamento fu appreso con dolore dalla cittadinanza catanese che esclamò quasi stupita da quella notizia Finivu a Tri Tubi! L’esclamazione in questione , suscitata dal dolore per la perdita della amata nave, sopravvisse e fu tale da simboleggiare appunto la fine disastrosa di qualcosa che era bella.
Più tardi, Catania, che subì i bombardamenti … liberatori, e vide i suoi antichi palazzi cadere in macerie, ebbe ad esclamare che pure la guerra, annunciata breve e vittoriosa, “finivu a tri tubi”.
Vita comica ed eroica della “pernacchia”.
L’ultimo eroico personaggio, il mitico Pippo.
Correva l’anno 321 A.C. La città di Roma che già aveva espanso il proprio dominio su tutto il Lazio, cominciò a guardare oltre e, forte delle sue legioni opportunamente e saggiamente organizzate, volse le sue mire al territorio dei Sanniti.
Fu organizzata una spedizione contro questi popoli da sottomettere al dominio romano, ma i Sanniti sotto il comando di Caio Ponzio Telesino, sfruttando la strategia della sorpresa, a Caudium attesero che i soldati romani si accampassero e senza colpo ferire li circondarono e li fecero prigionieri.
Disarmati e con le braccia legate dietro la schiena, li costrinsero a passare carponi sotto le famose forche caudine con in testa il console comandante, indi gli ufficiali e dopo i legionari tutti.
Le forche in questione erano costituite da tre coppie di lance incrociate sotto le quali i prigionieri furono costretti a passare abbassando la schiena in posizione prona ed evidente e umiliante sottomissione.
Fu in quell’occasione che venne varata la pernacchia , uno sberleffo effettuato dai vincitori al passaggio di ogni singolo prigioniero sotto le forche, consistente in un suono ottenuto portando la mano destra di traverso tra il pollice e l’indice alla bocca e soffiandovi con forza il fiato.
L’effetto sonoro, in quella occasione, dovette essere veramente assordante, oltre che umiliante, essendo effettuato all’unisono dai vincitori, schierati ai fianchi delle improvvisate forche.
I Romani incassarono la sconfitta, ma caparbiamente ripresero le ostilità e nell’anno 295 A.C. riuscirono a sottomettere anche i Sanniti, importando nello steso tempo la loro altisonante pernacchia, che fin da allora è entrata a far parte degli sberleffi canzonatori finalizzati ad umiliare e ridicolizzare gli avversari, espandendosi di pari passo allo espandersi della romanità in tutta l’Italia e negli altri territori conquistati.
Se il mar mediterraneo diventò per i Romani il mare “nostrum” anche la pernacchia diventò di pari passo un’usanza prettamente romana,
anche se di origine sannitica, che dilagò in tutto il mondo conosciuto di allora.
La si sentì tuonare nella suburra tra i popolani e tra le classi più evolute e financo in assemblea tra i “Patres Conscripti” per ridicolizzare e mettere al bando proposte sconvenienti e non gradite. Gli stessi Cesari ne gustarono forse anche qualcuna lanciata dal popolo quando, inferocito, non veniva soddisfatto di “panem et circenses” promessi.
Essa è giunta trionfante e perfezionata fino ai nostri giorni riuscendo a conquistare anche il teatro e la scenografia cinematografica. Cito, a tal uopo, la famosa pernacchia di Totò nel film “I due marescialli”.
Quello che non era avvenuto nei secoli dei secoli, era la produzione commerciale della pernacchia , ossia trarre ricchezza da questo sberleffo come si potrebbe trarne con il suono di uno strumento musicale.
Mi spiego meglio: non si era mai verificato che il fare pernacchie diventasse un mestiere artistico capace di far guadagnare di che vivere ed anche bene a qualcuno.
Ma ciò avvenne pure! Un vero miracolo del bisogno di sbarcare il lunario.
Era il 1960 a Catania quando l’evento si verificò. Un uomo di circa trenta anni, che generalmente bivaccava nei pressi del cine teatro Sala Roma , suo quartiere generale, che possiamo definire il negozio ambulante della pernacchia a scelta, viveva vendendo, appunto, pernacchie in maniera sistematica ed artisticamente confezionate. Non era proprio fuori del normale chiamare il posto “il mercatino della pernacchia”. Non si aveva che da contrattare il negoziante che le mostrava, stabilendone la durata, i tempi di attuazione e la loro lunghezza, nonché le caratteristiche di suono e tono ed anche il compenso.
Era Pippo Condorelli, soprannominato pure Pippo Diolaiuta, ma ancora meglio col nome d’arte “Pippo Pernacchia”. Nato negli anni trenta aveva da ragazzino subito i disagi della seconda guerra mondiale. Non apparteneva ad alcun ceto benestante. Anzi diciamo pure che la sua famiglia non era per niente in grado di assicurargli un avvenire sereno ed una educazione culturale o professionale. Insomma il povero Pippo crebbe senza arte ne parte, come si suol dire, e rimasto solo aveva continuato a sbarcare il lunario con lavoretti d’occasione. Ma una passione vera l’aveva! Quella di fare pernacchie! Non solo quel suono emesso dalla sua bocca lo appassionava, ma lo stimolava a farne di molto vari sia nel suono che nella lunghezza.
Era diventato, a forza di un allenamento costante ed appassionato, un vero virtuoso della pernacchia.
Un bel giorno un celebre giornalista cittadino, avendo sentito per caso una sua pernacchia secca sonora e rimbombante pensò di contrattarlo e gli chiese di effettuarne una di quel tenore in un determinato posto al momento opportuno e previo un lauto compenso. Ovviamente questa operazione avrebbe dato modo al giornalista di ottenere uno “scoop” giornalistico correlato alla pernacchia di Pippo.
In quei giorni vi era una lunga diatriba tra il presidente del Club calcio Catania ed i tifosi della squadra, in materia di scelta dei calciatori da comprare e da vendere. Il presidente in questione mirava ad effettuare dal calcio mercato dei giocatori dei vantaggi economici, anche sacrificando il bel gioco. Di parere opposto erano i tifosi ed anche il giornalista che contattò Pippo.
Nel giorno stabilito dal giornalista i tifosi si riunirono nella piazzetta antistante la sede del Club Calcio e chiesero a gran voce che il Presidente si mostrasse al balcone e rispondesse pubblicamente ad alcuni quesiti. Essendo quest’ultimo una persona molto caparbia, loquace e convincente, accettò di parlare con i tifosi e si presentò al balcone.
Il silenzio regnò nella piazza al suo gesto di stare calmi ed egli cominciò a parlare ed appena giunse alla fine del suo discorso, concluso con tono trionfante e sicuro, si sentì una pernacchia, talmente sonora, ben modulata ed eclatante, che lo fece secco e strappò l’applauso della folla.
La conseguenza fu che il giornalista fece il suo bravo articolo, che il Presidente del Club Calcio di Catania dopo due giorni si dimise e nello stesso tempo che Pippo Pernacchia ebbe il suo battesimo di professionista della pernacchia. Da quel giorno, chiunque volesse fare un dispetto ad una persona a lui antipatica od avversaria in determinati frangenti, si rivolgeva a Pippo, concordava modalità, tempi, caratteristica della pernacchia, compenso e la persona a cui indirizzarla.
Non a caso ho parlato di modalità e di prezzo. Pippo aveva stabilito finanche un prezziario con le caratteristiche corrispondenti. Vi erano indicate le pernacchie semplici , secche o prolungate. Poi vi erano pure quelle a seguito e quelle a ripetizione cadenzate. Ad ognuna corrispondeva un prezzo.
Gli affari procedevano bene per Pippo, le cui pernacchie risuonavano a ripetizione in via Etnea a seguito del personaggio indicato, ma i momenti veramente di punta che lo lasciavano stressato per il superlavoro erano quelli dei comizi elettorali. A volte ve ne erano due ed anche tre di oratori in contemporaneo da … spernacchiare in posti differenti della città ed era costretto a ricorrere ad una carrozza che gli consentisse di spostarsi il più celermente possibile da un comizio ad un altro. A lui non importava a quale partito appartenesse lo spernacchiato di turno, ma la sua notorietà. Più noto e celebre era il personaggio e più il prezzo della pernacchia cresceva. In periodo di campagna elettorale egli non faceva altra distinzione riguardante il colore politico, sicché quasi tutti si beccavano le sue pernacchie. Talvolta era costretto ad andare in missione nei comuni viciniori.
Come racconta Cristina Gatto scrivendo di lui ( Catania italiani.it)
La
sua pernacchia più famosa resta quella effettuata ai danni di un famoso fachiro Burmak che presso il teatro Sangiorgi esibiva le sue potenti capacità di resistere al digiuno dentro un sarcofago
chiuso, al 20 giorno di tale potente esercizio , all'uscita dal sarcofago circondato da medici e seguaci entusiasti per le capacità di resistenza fisica dimostrate .
L'indiano fu accolto da quello che probabilmente fu il più devastante pernacchio della storia umana emesso con perizia e potenza da Pippo.
Inutile dire che si parlò più della pernacchia che delle capacità del fachiro per molti anni.
La carriera di Pippo durò una ventina d’anni in tutto. Alla fine degli anni 80 fu costretto ad appendere … la pernacchia al chiodo, poiché si ammalò alla gola per un brutto male, forse per l’eccessivo lavoro o perché colpito dalle maledizioni delle persone spernacchiate.
Da allora a Catania è finita la moda delle pernacchie a pagamento, poiché non vi è stato più alcun emulo di Pippo.
Quanto a quest’ultimo, non essendo prevista alcuna garanzia sociale per la sua … professione, iniziò un periodo di malinconico declino che si concluse il 15 marzo del 1993 con la sua morte nel completo ed assoluto anonimato e conclamata indigenza.
Citando ancora Cristina Gatto:
Pippo , come disse in
una canzone a lui dedicata Vincenzo Spampinato «si lu purtau lu ventu cu nu sgrusciu di carrozza, u distinu ‘nfami e tintu ci manciau li cannarozza».
Resta il ricordo di un uomo semplice che viveva ancora in una città semplice dove lo sberleffo e la liscia non avevano ancora ceduto il passo all'abbrutimento e all'omologazione culturale di
questo inizio secolo.
Ei fu! Mai più da allora si è verificata la presenza a Catania di un venditore di pernacchie, anche se di tanto in tanto qualcuno la usa ancora …
E’ questo un modo di ricordarlo e di essere catanese doc!
La leggenda dell’uomo Uccello
“Ca quali liggenda ?! Fattu veru è. L’uomo “uccello” è esistito veramente.” Non è un extraterrestre e nemmeno un angelo del paradiso puro spirito con le ali. Egli è un uomo in carne ed ossa come tutti gli uomini ed è catanese ; non aveva le ali , ma riusciva a volare. No! Non dico che volasse come un passeggero di un aereo. Questo lo sa fare chiunque. Intendo che volava davvero come gli uccelli, pur non avendo le ali. Il giorno in cui si affidò ad un aereo per solcare i cieli, ci perse la vita.
Quest’uomo era Angelo D’Arrigo, nato a Catania nel 1961 e morto a Comiso in occasione di un incidente aereo non guidato da lui. Egli sulla scia del leggendario Dedalo che riuscì ad evadere dal labirinto con le ali di cera e che vide piombare nel mare il proprio figlio Icaro avvicinatosi troppo al sole, si chiese se anche lui non avesse potuto librarsi nel cielo e solcare le vie del cielo come fanno gli uccelli. Con questa sua idea, stimolata dal mitico racconto, si dedicò non solo ad un tipo di sport che ben pochi riescono a seguire, quello di affidare ad una “piuma” il proprio corpo nel cielo, ma anche a prendere cognizione degli studi di Leonardo da Vinci e la pratica osservazione del volo degli uccelli.
Osservando proprio il volo degli uccelli ed in particolare quello delle aquile ed anche quello del più piccolo uccello in natura, si rese conto che il peso del corpo del volatile non aveva alcuna influenza sul loro volo e la bontà di esso era affidata all’ampiezza delle ali, che consentivano ad alcuni di restare anche immobili, sospesi tra cielo e terra, quasi in estatica contemplazione del terreno sottostante.
Egli capì l’importanza che aveva nel volo l’impatto con le correnti d’aria nel cielo e sulla falsariga degli studi di Leonardo da Vinci, affidò senza paura alcuna il suo corpo ad un ampio mantello, la sua “piuma” per sostenere il suo corpo nell’aria ed atterrare senza nocumento alcuno nell’ impatto con la terra.
A tale uopo, sfruttò anche l’amicizia di quell’altro famoso fenomeno catanese Antonio Nicolò, il quale gli insegnò a trovare le rupi dell’Etna dalle quali lanciarsi con la sua vela , volteggiare nel cielo ed atterrare dolcemente a terra. Era il principe del volo con deltaplano.
Ma non si limitò solo a questo. Si dedicò con costanza e molto spirito di osservazione allo studio del volo dei grandi rapaci dei cinque continenti, cercando di capire anche il significato del loro cicaleccio. Non si limitò solamente al volo degli uccelli, ma imparò pure il loro linguaggio. Cosa, quest’ultima che gli consentì di guidare uno stormo di trampolieri, assistito fin dalla loro uscita dalle uova, dall’Asia all’Europa.. Egli non solo riusciva a volare affidandosi ad una “piuma” sintetica, ma a parlare con gli uccelli. Un vero uomo uccello nel saper volare e parlare come fanno i volatili, pur non avendo le ali. Quando gli successe l’incidente aereo a Comiso in cui perse la vita, si trovava su un aereo di piccolo cabotaggio non da lui pilotato, ma da un suo amico che accompagnava per diporto. La sua morte gli impedì di completare il suo progetto di ripopolazione sull’Etna delle aquile, seguendo la stessa metodica sperimentata per i trampolieri.
La sua fine suscitò molto scalpore e clamore per una morte ritenuta banale rispetto alla sua competenza nel campo degli sport estremi, che in Francia gli fruttò già il sopranome di “Le funambule de l’extrème”.
Essere catanese è anche questo: non solo “liscia” ma caparbia volontà di imporsi e riuscire laddove volano le aquile.
Il Re Sole e l’Uovo Pasquale (ANTOLOGIA AKKUARIA)
Indubbiamente Luigi XIV, soprannominato il Re Sole per la magnificenza della sua corte fu uno dei monarchi europei che maggiormente hanno influito sul buon gusto e sulla estrosità delle sue artistiche performance.
Versailles, che si trovava al di fuori della cerchia muraria di Parigi, fu la fucina del suo bel vivere e del suo eclatante gravitare intorno al mondo europeo. Sul modello di vita di Versailles in tutta l’Europa s’impose lo stile di vita di Luigi XIV, che è ancora oggi possibile rilevare nelle antiche vestigia della Germania Romantica, dell’Italia ed anche della lontana Russia.
Nonostante tutto ciò, forse non è abbastanza noto il fatto che la versione moderna dell’uovo pasquale ebbe proprio inizio a Versailles e per iniziativa dell’estroso Luigi XIV.
Era proprio nell’indole di codesto monarca di stupire il mondo con le sue leziose invenzioni in tutti i campi. Uno di questi, ovviamente era quello dell’amore nei confronti di dame, che conquistava con il riverbero della sua potenza. A lui non bastava averle, cosa, che ovviamente, non poteva essergli negata da nessuna donna. Egli voleva godere del piacere di averle conquistate e di averle soggiogate con il suo splendore.
Per questo motivo al sopravvenire di ogni periodo pasquale egli si peritava di inventare delle novità in assoluto che lo ponessero in cima alla corona del suo stesso trono.
Sapeva, per lunga tradizione storica, che l’uovo era alla base della vita e che i Papi ne avevano fatto il simbolo della resurrezione, ossia della massima gioia che l’umanità cattolica possa ottenere in questo mondo. Per questo motivo, a Pasqua, si peritava di inventare le uova più fantasiose e più belle artisticamente da dare in regalo alla dama od alle dame che lo circondavano. Il suo , era una febbrile ricerca delle trovate più originali e delle cesellature più costose pur di soddisfare la sua fame di bellezza. Orafi, pittori, scultori erano in continuo e costante alternarsi ai suoi voleri. Ma al Re Sole non arrise mai l’idea di aver trovato la soluzione di dolcezza che avrebbe voluto inculcare, magari, spendendo meno.
Per carità! Non è che il Re Sole fosse avaro, ma il tesoriere dello Stato , di tanto in tanto, gli faceva osservare che determinati risultati si potevano comunque ottenere spendendo meno.
Forse spinto da questo pungolo economico o forse conquistato dalle leccornie del suo maestro cioccolatiere o forse illuminato da chi sa quale arcana idea futuribile, l’illustre monarca, un bel giorno, convocò il suo addetto alle mense, che aveva in gestione la produzione dolciaria della Reggia.
Gli disse, chiaro e tondo, di inventare un uovo di cioccolato, di grandezza variabile, quindi dolcissimo da poter gustare dopo la rottura e che potesse contenere al suo interno dei doni a suo piacimento. Con questa operazione il Re era sicuro di ottenere il massimo della sua prodigalità, offrendo alla dama prescelta le delizia della dolcezza e lo splendore della sua persona.
Il maestro cioccolatiere si mise all’opera e non ebbe che da costruire se non alcune forme di uovo di varia grandezza, da utilizzare di volta in volta, a seconda dei desideri del Re. Trovò il modo di coprire, per metà la parte esterna del prototipo con del cioccolato fondente ed alla fine di saldare le due parti, lasciando l’interno cavo ed adatto a contenere il dono prescelto.
Fu questa la nascita del moderno uovo pasquale, il cui procedimento, ovviamente, è stato perfezionato e si è esteso in tutto il mondo con largo profitto industriale.
I guasti del cioccolato
Da che mondo è mondo il cioccolato non ha mai prodotto guasti ma delizie, come tutti gli cioccolatieri hanno sempre sostenuto. Eppure sembra proprio che, storicamente, un guasto lo abbia ottenuto e proprio in Francia alla corte di uno dei più famosi regnanti del tempo, molto ghiotto di questa delizia, al punto tale di essere stato il promotore ed inventore del moderno uovo pasquale.
Si racconta che Luigi XIV, soprannominato il Re Sole per la sua munificenza e per il suo splendore fosse ghiottissimo di cioccolato e che ne usasse molto più del consentito durante i suoi pasti e durante le numerose feste che era solito tenere a Versailles. Si diceva che era anche solito, in particolare, fare uso di questa particolare delizia anche durante i rapporti d’amore con le donne.
Il 26 Novembre del 1664, il Re Sole ebbe la sgradita sorpresa di apprendere che la propria consorte Maria Teresa d’Austria, avesse dato alla luce una bambina con la pelle di color cioccolato, morta dopo appena dieci giorni dalla nascita.
Fu necessario spiegare al monarca, che il colore della pelle della neonata era stato effetto … dell’eccessiva quantità di cioccolato inserito durante i suoi rapporti con la moglie. Anche la stessa morte della bambina fu causata dal … cioccolato, sostituitosi in parte al flusso sanguigno in modo letale e devastante.
Il povero Re Sole non poté non accettare la dotta spiegazione scientifica dei suoi luminari. Non accertarla sarebbe stato per lui uno scandalo non del tutto digeribile, anche se un piccolo sospetto gli venne, avendo la regina, tra i suoi paggi un giovanissimo negro, di nome Nabo, sospettato di sguardi alquanto penetranti nei confronti delle donne.
Sta di fatto che, scomparso Nabo dalla corte ed avvenuta la morte della bambina color cioccolato, nessuno più ricordò quel triste episodio, anche perché vennero del tutto ignorati i ventilati guasti del cioccolato.
In verità, forse la bambina di cui si parla, morì solamente nel 1730 in un convento dove visse, fin da neonata, amata, riverita e passata alla storia come “la mauresse de Moret”.
Pertanto, essendo chiaro che al Re Sole spuntarono certamente due … raggi in più di quelli che normalmente mostrava, resta assodato che gustare cioccolato in certe occasioni è cosa piacevole e non fa venire alla luce bambini colorati.
Pensaci, Giacomino
E’ una novella del Pirandello, pubblicata nel lontano 1910, la quale ebbe molto successo, poiché, per certi aspetti, metteva in ombra l’etica clericale, in un periodo in cui il papato evidenziava il suo dissenso nei confronti del novello stato italiano, considerato un usurpatore dei suoi beni temporali.
Da questa novella ne nacque uno spettacolo teatrale in vernacolo, fortemente voluto dall’attore catanese Angelo Musco in tre atti.
Lo spettacolo in questione ebbe tanto successo che ne comparve una traduzione in italiano, interpretato con successo da artisti del livello di Sergio Tofano (STO)
L’argomento, particolarmente tratteggiato parla della storia di un anziano professore, che rimasto vedovo, decide di sposare una ragazzina per costringere lo stato a corrisponderle la pensione di reversibilità per almeno una cinquantina d’anni dopo la sua morte. La sua scelta cade su una giovane allieva, rimasta incinta per il rapporto con un altro suo allievo. Nonostante lo scandalo suscitato da questa vicenda, egli sposa la giovane, che non solo mette al mondo un neonato, ma ottiene di convivere con il ragazzo che ama, nella casa del professore, ufficialmente suo marito. Questo che viene considerato un “menage à trois” , ma che in effetti non è, suscita lo scandalo ed il dissenso etico sia da parte dei genitori della stessa ragazza che da parte della famiglia del ragazzo.
Interviene il parroco che cerca di mettere ordine per convincere il professore a cambiare indirizzo di comportamento , mentre il ragazzo viene costretto ad abbandonare la madre di suo figlio ed a fidanzarsi con una ragazza di buona famiglia.. A questo punto il professore, portando a casa del ragazzo il frutto del suo amore, in una scena in cui viene evidenziata l’ipocrisia del parroco e di una società formalista, riesce a ristabilire il rapporto umano tra i due giovani.
La scena si conclude con la frase al parroco, che lo taccia di non credere non solamente all’amore, ma nemmeno a Cristo.
Oggi forse la novella del Pirandello e la relativa commedia, fanno un po’ sorridere, essendo stati superati molti tabù, ma allora ebbe molto successo, poiché sbandierava un comportamento poco umano ed ipocrita delle istituzioni religiose nei confronti dei sentimenti dell’onore e dell’amore, di cui il novello stato si faceva paladino.
Inoltre, va ricordato che molto più tardi l’allora Governo presieduto da Saragat, essendosi verificato nella realtà che, effettivamente un pensionato, avendo sposato una ventenne era morto appena qualche mese dopo, costringendo lo stato a corrispondere alla giovane vedova la pensione di reversibilità a vita, provvide a correggere la norma, stabilendo che la vedova poteva accedere alla reversibilità della pensione solo dopo un periodo di convivenza con il pensionato non inferiore ad un congruo periodo …
Successivamente, pur ammettendo il diritto alla reversibilità della pensione, un successivo governo ha condizionato l’importo non più pari alla metà dell’importo della pensione del coniuge, ma al rapporto inversamente proporzionale di tale metà con gli scaglioni di reddito possedute dalla vedova.
In sostanza più tempo passa e più la reversibilità tende a diminuire nei tempi e nelle modalità Ho la sensazione che la suddetta reversibilità, scaturita dal concetto che a pagare i contributi pensionistici non sia stato solo il lavoratore, ma entrambi i coniugi, stia subendo l’applicazione del concetto di limite in analisi matematica, quello che dice, sostanzialmente che una certa grandezza tende a zero se è funzione di un’altra compresa in un intervallo da X a 0 il cui punto X tende a diminuire fino allo zero. Tale intervallo da X a 0 dipende dal valore di X che decresce sistematicamente in base agli anni di convivenza dei due coniugi, ai contributi versati in fase lavorativi dal coniuge ed al reddito di quello sopravvissuto. E’ chiaro che più diminuisce il valore del segmento X --- 0, più diminuisce la percentuale di reddito spettante per reversibilità.
Chiaramente, non essendo particolarmente elevata la pensione di un operaio, che oscilla intorno a 1.200 euro mensili, al coniuge superstite spetterebbe il 50% di 1200, 0ssia 600 euro, che andrebbero ancora diminuiti dagli scaglioni previsti dal reddito eventualmente posseduto, compreso quello dell’eventuale casa di proprietà. In pratica si scenderebbe ancora al di sotto dei 600 euro, quando ne sono previsti 780 secchi per il reddito di cittadinanza ad personam previsto. Mi sembra evidente che ci sarà un conflitto di disparità di non facile soluzione e ne nascerà un’altra guerra tra poveri che determinerà scontenti e malumori.