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Manuela Filiberta di Savoiano

di Pippo Nasca

Pippo Nasca

 

 

  

 

MANUELA FILIBERTA DI SAVOIANO

 

 

 

 

 

 

 

                                           *********************** 

 

  

 

 

A CAMPAGNA D'ETIOPIA

 

 

Introduzione

 

 

Prima che inizio a parlare di questa storia è necessario
che  spiego  la  situazione  politica  di  quand'è  iniziata,
partendo dai fatti antecedenti alla campagna d’Etiopia, che
ebbe per scopo la sua colonizzazione da parte del regime
fascista. Ciò per avere un quadro chiaro degli eventi che si
succedono  nel  racconto,  dove  i  personaggi  si  muovono,
mescolandosi a quelli storici, in un groviglio di vicende
che consentono al lettore di conoscere e valutare gli acca-
dimenti, le cui conseguenze, per certi versi, continuano a
persistere.

Tra  il  3  ottobre  del  1935  e  il  5  maggio  del  1936  si
svolse la guerra d'Etiopia, che vide contrapposti il Regno
d'Italia e l'Impero d'Etiopia. Fu la campagna coloniale più
grande  della  storia  italiana  e  fu  anche  un  conflitto
altamente simbolico, dove il regime fascista impiegò una
grande quantità di mezzi propagandistici con lo scopo di
impostare e condurre una guerra in linea con le esigenze di
prestigio  internazionale  e  di  rinsaldamento  interno  del
regime stesso, volute da Benito Mussolini, con l'obiettivo
a lungo termine di orientare l'emigrazione italiana verso
una nuova colonia popolata da italiani e amministrata in
regime di apartheid sulla base di una rigorosa separazione

 

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razziale.

Nonostante una dura resistenza, le forze etiopiche furo-
no  soverchiate  dalla  superiorità  numerica  e  tecnologica degli italiani e il conflitto si concluse con l'ingresso delle forze di Badoglio nella capitale Addis Abeba.

Una delle conseguenze cui venivano sottoposti i soldati Italiani,  che  per  malaugurata  sorte  cadevano  nelle  mani degli abissini, vivi o morti, feriti o no, era quella di essere sottoposti alla immediata castrazione.

Non appena catturati, li legavano come tanti salami e,
strappati i calzoni, con un colpo secco tagliavano loro i
testicoli, lasciandoli dissanguare. Nel caso che restavano
vivi, li sgozzavano con un colpo di pugnale alla gola.

Quest’usanza era invalsa come ritorsione allo scorretto comportamento  dei  soldati,  proiettati  alla  conquista  del-
l’impero, voluto dal Benito nazionale.

Mi spiace ammetterlo, ma i nostri soldati, tutte le volte
che  conquistavano  un  villaggio,  prima  di  darlo  alle
fiamme, non tralasciavano di stuprare le donne, qualunque
fosse la loro età. In questo erano simili a bestie assatanate
che sfogavano i loro istinti sessuali senza ritegno e senza
rispetto.

Per inquadrare bene nel tempo questo racconto, credo sia necessario spendere qualche rigo di chiarimento.
     Per  intenderci  l’episodio  della  partenza  del  primo contingente per la guerra di Etiopia, avvenne alla fine del 1935 o forse all’inizio del 1936, quando mio padre ancora celibe  e  proprio  a  causa  della  mancata  partenza  per l’Etiopia,  decise  di  sposarsi.  Era  già  fidanzato  con  mia madre e fu così che io nacqui nel 1937.

 

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Mi preme evidenziare il clima politico di quei giorni.

Il Duce era già in sella al governo da quasi un decennio
e armeggiando con i suoi metodi, improntati al chiaro-
oscuro politico internazionale, si barcamenava in materia
di  politica  estera,  seguendo  le  vicissitudini  tedesche  e
inglesi. Egli vedeva la politica estera in funzione del suo
rafforzamento  in  seno  all’Italia  e  allo  stesso  fascismo.
All’inizio non lasciava capire una tendenza del suo futuro
appoggio alla politica aggressiva tedesca. Anzi nel 1930
aveva  condiviso  con  l’Inghilterra  i  Patti  di  Stresa,  che
volevano porre un argine alle aspirazioni di Hitler.

A Mussolini non era piaciuta tanto l’annessione del-
l’Austria alla Germania, che rendeva meno sicuri i confini con quest’ultima in fase espansionistica.

Al tempo si temeva che a Hitler sarebbe potuto venire
il ghiribizzo di riprendersi il Trentino e il Sud-Tirolo. Per
di più l’adesione a quei  Patti gli consentiva di acquisire
meriti di paciere e prestigio in seno alle Nazioni Unite, da
sbandierare in Italia per far crescere il suo consenso inter-
no  e  imporre  con  maggiore  incidenza  il  suo  dispotismo
politico.

Fu in questo periodo che varò la nuova legge elettorale,
che sanciva la lista unica dei candidati da lui stabiliti con
l’abolizione di altre liste e dei partiti, tranne il Fascismo.

Per  quanto  il  Duce  sembrasse  di  voler  costruire  un argine  contro  le  mire  germaniche,  al  contempo  friggeva dal  desiderio di  imitarle per dare  corpo alla sua idea di rifondare l’impero romano dei secoli scorsi.

Purtroppo le condizioni economiche delle casse italiane
non gli consentivano di fare la stessa politica spavalda e

 

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aggressiva  di  Hitler,  ma  pur  di  realizzare  il  suo  sogno,
cercò di ottenere il massimo con il minimo sforzo, cercan-
do di individuare le nazioni più deboli da conquistare. Una
di questa fu l’Albania, che capitolò senza colpo ferire; la
sua  conquista  si  rivelò  una  passeggiata  per  il  nostro
esercito e, deposto l’inetto Re Zog, Vittorio Emanuele III
diventò Re d’Italia e d’Albania.

La seconda nazione individuata fu l’Etiopia, un paese
povero e senza risorse quanto l’Albania, confinante con la
Somalia, già colonia italiana, decantato dalla propaganda
come un paese ricco di tesori e di metalli utili all’industria
italiana.  Fu  proprio  intorno  agli  anni  trenta  che  il  Duce
cominciò a ideare una guerra nei confronti di quest’ultima
nazione,  preparandone  i  presupposti  in  maniera  subdola
con  le  famose  leggi  autarchiche  che  imponevano  agli
italiani di risparmiare sulle spese interne per dirottare le
risorse economiche alle esigenze militari, preminenti per
gli interessi dello Stato.

Dopo  un’accurata  preparazione  e  una  superficiale
valutazione della situazione, finalmente, nonostante la sua
posizione  in  seno  alle  Nazioni  Unite,  dopo  aver  creato
degli strumentali incidenti di frontiera, il 2 ottobre 1935,
dal balcone di Palazzo Venezia annunciò che la guerra con
l’Etiopia era iniziata.

«Abbiamo  pazientato  quarant'anni.  Ora  Basta!»  disse con voce ferma e convincente. La reazione delle Nazioni Unite furono le sanzioni economiche contro l’Italia, che non colpirono  i prodotti petroliferi, utili  per condurre la guerra,  anzi  favorirono  il  traghettamento  della  politica estera italiana verso quella tedesca.

 

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Queste sanzioni nelle mani del Duce si trasformarono
in  leve  da  usare  per stimolare l’odio  nei confronti  della
perfida  Albione  (l’Inghilterra),  che  voleva  impedire  al-
l’Italia di mettere le mani sulle tante decantate ricchezze
dell’Etiopia,  facendogli  farneticare  future  aggressioni  al
Canale di Suez, a Malta e allo Stretto di Gibilterra, per
distruggere il suo mondo coloniale, e non solo questo.

Tali  sanzioni  gli consentirono  di  spremere meglio  gli Italiani e di alleggerire le loro tasche, con la decurtazione del 12% degli stipendi statali e con la famosa operazione della donazione dell’oro alla Patria.

Dagli anulari della mano sinistra di tutte le coppie di sposi scomparvero le fedi auree, per dar luogo a quelle di alluminio,  fornite  dallo  Stato  in  sostituzione  di  quelle spontaneamente donate.

Si  insinuò  in  seguito  che  non  tutto  l'oro  prese  la  via
dell’erario dello Stato, ma che furono dirottate nelle tasche
di qualche gerarca; lo scandalo fu messo a tacere e fu solo
glorificata la dedizione e l’amor di Patria degli Italiani.

La  guerra  contro  l’Etiopia  non  fu  un'operazione
semplice così com'era stata prospettata, poiché il Negus
ricevette  gli  aiuti  militari  dalle  Nazioni  Unite,  diventate
ostili  all’Italia,  e  il  Duce  fu  costretto  a  inviare  altri
contingenti  militari,  provvedendo  anche  alla  rimozione
dell’inetto  comandante  generale  De  Bono,  in  compenso
promosso Maresciallo d’Italia e sostituito dal più energico
e incisivo generale Badoglio.

Fu  necessario  impiegare  anche  l’aviazione,  all’inizio
non prevista, per bombardare le postazioni militari. Tale
impiego, in verità fece arricciare il naso al Duce, poiché

 

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determinò  un  rafforzamento  non  gradito  della  posizione politica di Italo Balbo e aizzò maggiormente la propagan-
da delle Nazioni Unite contro l’Italia per l’eccidio della cittadinanza civile coinvolta.

Sì,  Italo  Balbo! Anche  costui  era  un  problema  per il Duce.  Per  lui  rappresentava  un  pericolo  costante, emergente dalla situazione interna. Ne temeva la crescente fama, temendo che potesse scalzarlo dal posto di capo del Fascismo e del governo.

 

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LA RACCOMANDAZIONE FATALE

 

 

La malaugurata sorte di cadere vivo tra le mani degli abissini  era  capitata  al  camicia  nera,  Paolo  Nascara, volontario, che per fortuna era riuscito a riportare a casa, se non le palle, almeno la vita.

Durante un combattimento, una decina di camerati, tra i quali c’era anche lui, erano stati soverchiati da un’orda di abissini, e nonostante la strenua difesa, finite le munizioni, furono tutti catturati, svestiti, e castrati. In seguito, alcuni degli uomini armati da coltelli affilati, avevano sgozzato quelli che trovati ancora vivi.

Il povero Paolo, avendo capito la situazione, nonostante l'atroce dolore, quando giunse il suo turno, si guardò bene dal lamentarsi e si finse morto.

Fu così che rimase vivo e dolorante.

Subito dopo, per fortuna, avvenne un rovesciamento di fronte, e quando le truppe italiane avanzarono, proiettate alla  conquista  di  Addis  Abeba,  Paolo  fu  raccolto  dalla Croce Rossa Italiana e portato in un ospedale da campo dove fu curato, e dopo rimpatriato in Italia.

Paolo Nascara, per andare a combattere in Etiopia, si
era fatto raccomandare e grazie ad influenti amicizie, era
riuscito  a  scalzare  un  certo  Paolo  Nasca,  arruolato  in
precedenza.

 

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Il Nascara non era un Camicia Nera qualunque.  Invo-
gliato dalla propaganda e coinvolto dalla sete di grandezza
dell’Italia,  aveva  contribuito,  e  non  poco,  alla  conquista
del potere fascista, punendo i sovversivi con il manganello
e costringendoli talvolta alla purga con l’olio di ricino.

Insomma, avendo partecipato alla marcia su Roma, era
un  milite  fortemente  motivato  e  aspirava  a  coprirsi  di
eroismo e di gloria, in occasione della conquista dell’ago-
gnato  posto al sole  e quando si presentò come volontario
per combattere in Etiopia, rimase male nel sentirsi dire che
ormai  i  posti  erano  stati  tutti  coperti  e  che  occorreva
attendere una successiva chiamata, nel caso vi fosse stato
bisogno.

Era  opinione  comune  che  quel  contingente  sarebbe bastato a conquistare l’Etiopia; quindi, chi non partiva era escluso dalla gloria della sicura conquista.

La propaganda aveva ottenuto il suo effetto.

Quanti partivano volontari, erano pienamente convinti che la guerra in Africa fosse poco più che una passeggiata. In  fondo si trattava di combattere contro uomini neri di razza inferiore, armati malamente di lance e coltelli, tra l’altro felici di essere conquistati da quel popolo grande e civile, che era quello italiano.

“Faccetta nera, bell'abissina

Aspetta e spera che già l'ora si avvicina! quando saremo insieme a te,

noi ti daremo un'altra legge e un altro Re”.

Questo ritornello, alternato all’inno di Mameli, veniva
strombazzato dalla Radio, assieme ai bollettini dei prepa-

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rativi militari, e ai roboanti discorsi del Duce, trasmessi direttamente da Palazzo Venezia a Roma.

Il  Camicia Nera Paolo Nascara non poteva arrendersi
dopo essere stato imbottito dalla propaganda convincente
e lusinghiera. Non poteva! Lui, con tanto di fez in testa e
quella camicia nera che indossava con religioso orgoglio
anche quando andava a dormire, non poteva essere escluso
da quella sicura e storica gloria annunciata, dopo tutto ciò
che aveva fatto per la causa.

Nel  suo  paese  d’origine,  Gravina  di  Catania,  aveva
indossato fin da subito la camicia nera, aveva fatto buon
uso del manganello sul groppone di viddani ribelli, aveva
fatto ingoiare il salutare olio di ricino a qualche facinoroso
sindacalista e addirittura aveva schiaffeggiato in pubblico
il maresciallo dei carabinieri. Certo quella volta fu dura e
dovette  ringraziare  i  camerati  per  averlo  fatto  sfuggire
dalle grinfie degli sbirri e non finire in gattabuia.

Per queste ragioni si presentò al gerarca capo-manipolo
e dopo aver romanamente salutato chiese di voler essere
aiutato a esternare il suo furore patriottico. Di sicuro gli
faceva gola la lauta paga prevista per quell’impresa, ma
Paolo  ribadiva  che  non  era  questo  il  motivo  del  suo
disappunto.  Voleva  raggiungere  l’apoteosi  e  la  giusta
ricompensa del suo fremente amor di patria per L’Italia, il
Re e il Duce.

Tanto girò per le sedi del Fascio di Catania e tanto si
dette  da  fare  che  infine  riuscì  a  salire  sul  piroscafo  per
l’Abissinia, con sulle spalle lo zaino, il fucile e l’elmetto,
lasciando  a  casa  la  giovane  moglie  e  anche  una  figlia,

 

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ancora neonata.

Il bacio, l’abbraccio e le lacrime di pianto della moglie
e di gioia sue, nonché la foto con la bandiera tricolore ac-
canto, l’inno nazionale che si accompagnava alle ovazioni
nei confronti del Duce, fecero parte della partenza degli
eroi, conquistatori di un nuovo corso ancora più nuovo e
glorioso.

Da quella partenza aveva inizio lo storico evento della rifondazione dell’impero romano e lui, col suo moschetto e con il suo bagaglio di grandi aspirazioni patriottiche, era tronfio e felice di essere tra i futuri eroi.

Anche  lo  sbarco,  avvenuto  in  suolo  già  conquistato dall’Italia  in  Somalia,  colonia  italiana  in  precedenza acquisita, non dette fastidio.

Fu soltanto dopo che la conquista dell’Etiopia si rivelò
abbastanza dura per la resistenza opposta dagli indigeni,
trovati laceri e scalzi, ma in possesso di armi abbastanza
efficienti, fornite da altre nazioni opposte all’Italia e alla
Germania. Difatti, la perfida Albione, come l’Inghilterra
era  indicata  dalla  propaganda,  era  intervenuta  a  difesa
dell’Etiopia fornendo armi modernissime e con le sanzioni
contro l’Italia.

 

 

 

 

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LO SCAMBIO DI PERSONA

 

L’opportunità dell’arruolamento era abbastanza ghiotta per il suo avvenire. Lui non voleva fare la fine del fratello Ciccio, che per la sua avversione al fascismo era rimasto inchiodato in paese senza arte né parte.

Anch'egli coinvolto dalla propaganda fascista, credeva a tutto ciò che Mussolini predicava, peraltro senza il fanatismo eccessivo del momento. Polo Nasca credeva di poter  ritornare  dall’Etiopia  con  un  gruzzoletto,  raccolto con il premio del suo volontariato, e acquisire nello stesso tempo dei meriti in seno alla società.

D’altronde non vi era altra prospettiva nel suo paese, se non quella del lavoro nei campi, pur avendo già appreso il mestiere di falegname ebanista, di sicuro sviluppo, ma al momento non tanto richiesto.

Non  pensava  che  in  quell’impresa  militare  avrebbe potuto  lasciarci  la  pelle.  Credeva  fermamente  a  quanto veniva predicato dalla propaganda.

Qualche giorno dopo dall’avvenuta partenza del piro-
scafo  per  l’Abissinia,  il  giovane  Paolo  Nasca  nativo  di
Grammichele, si presentò alla casa del Fascio di Catania
per  conoscere  la  motivazione  del  suo  mancato  precetto,
nonostante la conferma dell'arruolamento volontario, a suo
tempo notificata.

Nessuna comunicazione era arrivata a casa del giovane
aspirante volontario, regolarmente arruolato. Si trattava di

 

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mio padre, allora giovanissimo, e anche lui alla ricerca di
una  fetta  di  gloria  e  del  pezzo  di  pane  giornaliero  da
guadagnarsi.

«Non può essere camerata» gli fu semplicemente detto.
«Dai nostri documenti risulta che tu sei partito. Come fai a
essere ancora qui? Mica hai disertato fuggendo a nuoto?»

«Chi, io? Ma se non stavo aspettando altro di partire.
Com’è scritto qui, su questo foglio, firmato dal Podestà.
Dovevo  attendere  soltanto  di  essere  avvisato  del  giorno
della partenza. Non mi è arrivata nessuna comunicazione e
solo ieri ho appreso dalla Radio che la nave dei volontari è
già partita ed è per questo che sono venuto a informarmi.»

«Impossibile» fu la risposta. «Risulta che sei imbarcato e avendo dato conferma del ricevimento del precetto, sei stato anche avvisato in tempo utile.»

«Non ho ricevuto nulla né firmato nessuna conferma di ricevimento» fu la sua risposta.

«Bella  questa...»  affermò  il  gerarca,  grattandosi
dubbioso il mento. «Vediamo che cosa ci sta sotto a questo
imbroglio».

Prese un altro registro, quello con i verbali d’imbarco e
scorse  le  righe  velocemente  con  il  dito.  Al  numero
corrispondente al nome di Nasca Paolo di Gr di CT, vi era
un altro nome del tutto simile: Nascara Paolo di Gr di CT.

«Che significa quel Gr? Tu sei di Gravina di Catania? Ma ti chiami Nasca o Nascara?»

«No, sono di Grammichele in provincia di Catania e mi chiamo Nasca e non Nascara» fu la risposta secca.

 

 

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«Ho  capito  tutto,  camerata!» rispose  il  gerarca,  dopo
aver verificato la tessera d’iscrizione al fascio. «Ti hanno
fatto  le  scarpe!  Al  posto  tuo  è  partito  un  certo  Nascara
Paolo di Gravina di Catania»  disse  grattandosi ancora il
mento. «È stato facile modificare il cognome. N-corpu di
pinna o cuntrariu.»

«Allora?» domandò il mancato volontario.

«Allura, nenti! Che cosa vuoi fare? Si vede che costui
era cchiù ammanigghiatu di tia. È così la vita... Chi ci voi
fari?».

«Che significa accussì è la vita? Voglio fare ricorso al
Duce. Dovevo essere io a partire. Voglio sapere chi mi ha
imbrogliato».

«Non concluderesti nulla. Figurati se il Duce, con tutto
il da fare che ha, possa occuparsi di una tale sciocchezza.
La pratica sarebbe affidata a qualcuno, che direbbe esserci
stato un banale errore. E poi per la Patria o lui o tu non ha
importanza. Ciò che conta è che il posto sia stato coperto.
Se si fosse trattato di diserzione, sarebbe stato diverso. Il
caso si sarebbe finito davanti al plotone d’esecuzione! Sei
stato fortunato. Qui il caso è opposto. Capisci, camerata?
Bonu facisti a veniri. Così si è chiarito tutto. Avresti potu-
to passare i guai, mittennu ca t’attruvava ccà, mentri ave-
vi a essiri ddà.

«Sì, ma io sono stato defraudato di un diritto, che mi toccava. Dovevo essere io a partire».

«Eh, tu non sai. Con la giustizia militare non si va tanto
per  il  sottile.  Vai  a  farlo  capire  ai  giudici  della  Corte
Marziale che sei stato raggirato. Quelli avrebbero pensato
che ti eri pentito  di partire. Certo, hai ragione a sentirti

 

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danneggiato  per  non  poter  partecipare  a  questa  gloriosa
impresa,  ma  un  tuo  ricorso  non  approderebbe  a  nulla,
poiché è meglio ignorare gli imbrogli che sono fatti sotto
banco.  La  scoperta  dell’inganno  darebbe  solo  fastidio  e
imbarazzo, perché la cosa più importante per il regime è
che tutto sembri giusto, bello, leale e senza macchia. Se
poi  c’è  qualche  sbavatura, cosa  vuoi che conta?  Meglio
ignorarla.  Dopo  tutto,  tu  o  un  altro,  cosa  vuoi  che  sia
rilevante  ai  fini  del  risultato  finale  della  conquista
dell’Etiopia?! Ascuta a mia, è megghiu starisi mutu e fari
finta di nenti. Ci fai cchiù figura.»

A Paolo Nasca non restò che salutare, romanamente piccato, girare i tacchi e andarsene.

Da quel giorno mise da parte la camicia nera e fu anche
tentato  di  strappare  la  tessera  del  Partito  in  faccia  al
Podestà, ma non lo fece perché questo avrebbe significato
la sua morte civile e la certezza di non poter trovare alcun
tipo di lavoro in Italia, guadagnandosi solo la nomea di
sovversivo, così com’era accaduto al fratello Ciccio, che
mai  si  era  voluto  iscrivere  al  Partito  ed  era  rimasto  a
vivacchiare a Grammichele.

Non partecipò più alle alle adunate, alle manifestazioni
patriottiche,  parate  militari  e  quant’altro  aveva  praticato
nell’ultimo  periodo  e,  ricordandosi  di  avere  un  mestiere
che  avrebbe  potuto  rendere  bene,  cominciò  intanto  ad
accettare  quel  lavoro  di  segantino  che  gli  si  offriva  a
Caltagirone, nel bosco di Santo Pietro, e a dedicarsi al
lavoro saltuario di ebanisteria, finché non fu richiamato,
essendovi in aria odore di guerra imminente.

 

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Che fare? Non poteva non rifiutarsi. Fu tentato di farlo,
per protesta al torto subìto, ma capì che quest’ultima gli
sarebbe costata cara. Tuttavia si presentò e fu assunto
come operaio militarizzato col grado di sergente maggiore
dell’aviazione, dove gli fu assegnato il compito di riparare
gli  aerei  che  ritornavano  a  Catania  sforacchiati  dalle
mitragliatrici nemiche.

Vi chiederete cosa c’entrasse il mestiere di falegname con gli aerei militari. Vi dirò che era pertinente perché i nostri aerei, allora, erano rivestiti non da lamiere, ma da compensato verniciato e i buchi provocati dalle pallottole venivano riparati con una tecnica particolare.

Sì,  i  nostri  aerei,  i  famosi  caccia  che  andavano  a
bombardare Malta erano di compensato verniciato!
     Fu così che Paolo Nasca, mio padre, durante la seconda guerra  mondiale,  trascorse  la  vita  militare  a  peregrinare per gli aeroporti di fortuna della Sicilia, tappando i buchi da  mitraglia  ai  nostri  aerei,  riuscendo  a  conservare  la propria pelle e anche i suoi attributi maschili, che invece furono lasciati in Etiopia da quel povero Paolo Nascara, suo  sostituto  volontario  alla  conquista  del  fantomatico impero romano.

Non tutti i mali vengono per nuocere ed io forse non
sarei qui a scrivere e raccontare questa vicenda! Infatti,
mio padre, fallito il suo tentativo di partire per l’Etiopia,
nel 1936 pensò solo a sposarsi e l’anno successivo nacqui
io.

 

 

 

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L’INSODDISFACENTE CARRIERA

 

Paolo  Nascara,  quando  rientrò  in  Italia,  fu  insignito
della  Croce  di  Guerra,  della  Medaglia  d’argento  e  di
diritto fu inserito tra gli eroi del Fascio, con la promessa di
ricevere  in  futuro  importanti  incarichi  di  responsabilità.
Intanto, trasferito a Roma, fu intruppato nella Milizia che
sostituiva le Regie Guardie del passato Governo.

La sua menomazione fisica passò sotto silenzio. Tanto
non si vedeva. Si sapeva che fosse stato ferito in Etiopia,
ma nessuno conosceva in quale parte. Anzi non si sentì più
parlare  della  sua  perdita  di  efficienza  sessuale.  Sarebbe
stato disdicevole e disonorevole per il regime il fatto che
un eroico gerarca di grande spessore e utilità per lo Stato,
fosse stato evirato da quattro negracci selvaggi. Del resto
l’efficienza  che  mostrava  con  fierezza  era  in  grado  di
occultare quel neo. L’eroismo talvolta fortifica e rende per
di  più  gli  uomini  più  sodi  e  corpulenti  e  lui  lo  era.  In
sostanza il  suo  aspetto era diventato  più prestante  e più
imponente, così come avviene ai capponi del pollaio che,
esonerati da certe incombenze, finiscono per ingrassare e
diventare sempre più maestosi.

Intanto  era  diventato  uno  dei  personaggi  chiave  del
partito, acquisendo i meriti per una folgorante carriera.
     La  moglie,  grazie  alle  sua  conoscenza  della  lingua francese e del tedesco, era riuscita a inserirsi nel tessuto del  partito,  sfruttando  il  suo  notevole  aspetto  e  la  sua formazione. Nonostante il suo impegno politico, dopo il

 

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rientro del marito dall’Etiopia, oltre alla prima figlia, ne
mise al mondo un’altra e in seguito anche un figlio.
     Ufficialmente  il  padre  di  questi  altri  due  figli  era  il marito,  con  il  quale  conviveva  e molte  volte  compariva nelle serate di gala. In effetti non lo era, poiché in Etiopia aveva  lasciato  i  suoi  testicoli  e  con  essi  la  facoltà  di generare.

Si vociferava che il padre naturale di questi due ultimi
era  il  Podestà  in  persona,  con  il  beneplacito  dell’eroico
marito. D’altronde il Nascara, pur di non far trapelare la
sua  menomazione,  aveva  accettato  che  sua  moglie
frequentasse un sostituto, purché nulla si sapesse e fosse
salvo il loro onore, che coincideva con quello della Patria,
del Partito e della Famiglia.

Nonostante  l'apparente  riservatezza  della  famiglia,  di tanto in tanto qualche pettegolezzo affiorava.

 

 

 

 

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ITALO BALBO E TULLIO PETRONELLI

 

 

Il  Podestà,  oltre  a  essere  un  bell’uomo,  era  pure  un
illustre personaggio del mondo fascista. Per altri meriti era
riuscito a imporsi nel mondo politico. Era un altro eroe del
partito, una persona che sapeva imporre con eleganza la
sua personalità. Si trattava dell’ex maggiore pilota Tullio
Petronelli, luogotenente del famoso Italo Balbo, che si era
permesso il lusso di dare del tu al Duce, di trattarlo con
molta e forse eccessiva ironia, lasciandoci pure le penne,
ovvero le ali del suo aereo.

Il Duce, più che essere gratificato del comportamento
di  Italo  Balbo,  ne  era  sinceramente  frastornato  e  faceva
buon viso a cattivo gioco. Diciamo che si faceva piuttosto
scuro in viso tutte le volte che se lo trovava attorno,
amichevolmente  sfottente  e  gioviale,  pronto  a  sfornargli
qualche battuta piccante e per niente gradita. Questo suo
fedele, ma sopportato camerata, aveva raggiunto una certa
notorietà, per il comportamento da guascone molto gradito
dal popolo.

La sua popolarità era accresciuta dopo aver trasvolato
l’Atlantico con il suo aereo, dall’Italia all’America, dove
era  stato  accolto  con  tutti  gli  onori,  assieme  all'amico
luogotenente Tullio Petronelli e tutto il Gruppo di volo.

Un  personaggio  fondamentale  per  il  PNF,  capace  di attirare  intorno  a  sé  le  simpatie  del  popolo  e  di  sicura fedeltà al Fascismo e al suo Capo riconosciuto.

 

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Per motivi di convenienza, non poteva essere ignorato dal regime né tanto meno dal Duce, poiché portava molta acqua al mulino, anche se nei suoi riguardi il sospettoso Mussolini diventava sempre più guardingo.

Non  gli  piaceva  proprio  la  sua  fama:  avrebbe  potuto oscurare lo splendore della sua figura, né tanto meno le sue guasconate che mostrava con sfrontatezza.

Non gradiva che lo si additasse come un suo successore alla guida dell’Italia e del PNF, anzi questa diceria non gli faceva dormire sonni tranquilli la notte.

Purtroppo Mussolini, come tutti i dittatori, non era una
persona  che  amava  circondarsi  di  persone  di  un  certo
spessore  e  di  una  certa  eminenza  di  pregi.  Più  che  la
gelosia  era  la  paura  che  qualcuno  potesse  detronizzarlo
dalla sua posizione di preminenza. Per questa ragione tutti
i suoi collaboratori erano delle mezze cartucce, gente che
brillavano sì di luce propria, ma giusto quel tanto da non
intaccare il suo splendore. Preferiva avere  dei manichini,
degli  obbedienti ossequiosi e persone di una intelligenza
limitata, che al momento opportuno li sostituiva per paura
che crescessero troppo e lo mettessero all’angolo.

Da questo punto di vista non risparmiò nessuno dalla
sua fisima. Nemmeno quel Galeazzo Ciano, che sposò sua
figlia, e che alla fine non esitò a farlo fucilare insieme a
Grandi, De Bono e altri che ebbero l’ardire di metterlo in
minoranza. Mussolini trovava sempre il modo per elimi-
nare diplomaticamente i possibili camerati emergenti e tali
d'ambire alla sua carica di capo indiscusso di tutto.

Nei confronti di Italo Balbo, in verità si sentì spiazzato.
Il pensiero che lui fosse indicato come il numero due del

 

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regime, quindi il suo successore, lo disturbava parecchio e non  sapeva  proprio  come  levarselo  di  torno.  La  sua defenestrazione  non  sarebbe  stata  accettata  dal  popolo fascista e questo era un grande pericolo.

Anche se Italo Balbo dimostrava di essergli fedele, quei
suoi atteggiamenti di cameratismo estrinseco e largamente
manifestato, lo colpivano nel vivo. Per di più la sua fama
di valente pilota, di aver organizzato l’aviazione italiana,
di aver attraversato l’oceano atlantico con un primato da
numero uno, lo sconvolgevano, ma rendevano sempre più
insolubile il suo problema.

Un metodo precedentemente applicato con successo a
un altro personaggio altrettanto scomodo, con il Balbo non
attecchiva, non era valido. Lui era troppo perfetto, troppo
fascistamente   completo.   Era   troppo   fedele   questo
probabile aspirante alla sua leader-ship e che aveva anche
il difetto di possedere dei meriti che lui riconosceva di non
avere.

Mi riferisco a Gabriele D’Annunzio, il poeta soldato,
che tanti  problemi gli creò  con  quelle sue guasconate  e
fughe in avanti senza il suo consenso in Dalmazia, e con
quella sua teoria di alternativa al fascismo. Gli fu allora
facile  studiare  la  sua  personalità  e  individuare  il  suo
tallone d’Achille, consistente nello scarso acume politico e
nell'immensa fame di denaro che lo assillava per realizzare
le  sue  megalomani  e  faraoniche  idee,  tanto  da  renderlo
vulnerabile e addomesticabile oltre ogni limite.

Gli fu altrettanto facile relegarlo in quella sua fantastica
villa  del  Vittoriale,  inondandolo  di  denaro  a profusione,
che lo stimolava sempre più a insistere nella raccolta di

 

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cimeli, opere d’arte e quant’altro idoneo a stupire i posteri.
     Tanto a lui bastava e tanto gli dava per renderlo docile e sottomesso.

Il D’Annunzio rinunziò spontaneamente alle sue vedute politiche, che poi non erano per niente incisive, dimenticò lui in prima persona e anche il popolo le sue eroiche gesta per dedicarsi al suo sogno di artista.

In questa posizione di beato isolamento il grande poeta soldato non solo non gli dette più fastidio, ma fu utile alla sua  opera  di  progressione  al  potere,  additandolo  come esempio e sacra icona del fascismo.

Il maggiore Tullio Petronelli, amico di Italo Balbo e al
pari  di  lui,  gioviale  e  altamente  invadente,  era  intimo
amico  dei  coniugi  Nascara  e  non  si  faceva  scrupolo  di
baciare e abbracciare la moglie di Paolo con troppa enfasi,
lasciando spazio alle illazioni, che in verità erano certezze.
Né  la  signora  sembrava  restia  ad  accogliere  le  sue
effusioni  di  amicizia,  che  alimentavano  non  poco  i
pettegolezzi del regime, tutto basato sull’efficienza della
figura  maschile.  Tuttavia,  il  Petronelli  non  turbava  la
psiche di Mussolini, che lo considerava di poco conto e di
poca  aspirazione  al  potere,  dal  momento  che  si
accontentava  di  scopare  la  moglie  di  quello  stupido  e
infingardo milite che si era lasciato tagliare i coglioni in
Etiopia.

No, proprio no, il Petronelli non era da temere. Era una persona  controllabile  e  di  secondaria  importanza.  Il  suo diretto capo sì, quello era da eliminare. Ma come?

 

 

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MANUELA FILIBERTA DI SAVOIANO

 

 

Chi era la moglie di Paolo Nascara, eroe d’Etiopia  e
gerarca  di  mezza  tacca,  assurto  agli  onori  del  partito,
avendo  perso  le  palle  durante  una  disgraziata  azione  di
guerra?

Indubbiamente una donna di una certa rilevanza, che la
sapeva  lunga  in  materia  di  uomini  e  di  potere,  che
senz'altro non mirava ad alte cariche nel partito, tra l’altro
al tempo non previste. Tuttavia era una persona quadrata,
che sapeva sfruttare le situazioni a suo vantaggio.

Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta, presunta nobildonna, di non certa aristocratica schiatta, oralmente tramandata in seno alla famiglia.

Ma chi era costei?

Com’era diventata la moglie del Nascara? Da dove veniva?

Di chi era figlia?

Quali erano le sue aspirazioni e i suoi desideri?

 

La  fama,  sempre  più  avvalorata  da  recenti  ricerche
storiche, vuole che il primo Re d’Italia, al secolo Vittorio
Emanuele II di Savoia, nonostante il suo cruccio relativo
all’unità  d’Italia  e  di  non  essere  insensibile  al  grido  di
dolore degli italiani, avesse una particolare inclinazione a
incrementare il numero dei suoi sudditi, prestando la sua
opera generante in maniera del tutto continua, costante e

 

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sagace nel suo piccolo stato originario, a ridosso della Francia, il Regno di Piemonte.

Al suo lontano avo e capostipite della famiglia, Bianca-
mano di Savoia, e ai suoi discendenti, era andata molto
bene  essendo  riusciti  ad  allargare  i  confini  del  piccolo
principato della Savoia. A lui andò ancora meglio, essendo
diventato Re d’Italia, anche se gli costò la cessione della
Savoia alla Francia, in cambio del Lombardo-Veneto.

Comunque  siano  andate  le  cose  (che  il  fido  Camillo
Benso Conte di Cavour del resto dimostrava di saper
giostrare egregiamente) nel suo piccolo Piemonte Vittorio
Emanuele II amava  andare  a caccia  non solo di  selvag-
gina, ma anche di fanciulle. In particolare ve n'era una che
frequentava  spesso  e  con  molta  passione.  Era  la  bella
Rosina,  di  cui  tutti  parlavano  e  tacevano.  Anzi  ne
parlavano ma con parecchio tatto e circospezione. Tant’è
che  molti  contadini  si  rivolgevano  a  Lei  per  avere  dei
favori da parte del Re.

A quei tempi non era uno scandalo essere l’amante di
un Re, anzi era considerato un onore. Un vecchio prover-
bio siciliano diceva che i corna di Re, nun sunu corna, per
significare che era nella facoltà del Re andare con una sua
suddita, senza che il marito si ritenesse curnutu.

Si racconta che prima di uscire a cavallo per andare a
trovare  la  bella  Rosina,  il  Re  le  facesse  pervenire  una
missiva, raccomandandole di non lavarsi, poiché l’odore
del  suo  corpo  al  naturale  lo  inebriava  e  lo  rendeva  più
sensibile e focoso. A quanto pare gli faceva accrescere
l’impulso  dello  stallone.  Non  so  fino  a  che  punto  le
preventive mancate abluzioni igieniche fossero  vere, ma

 

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cosa certa è che Vittorio Emanuele II non disdegnasse di portarsi a letto le suddite che gli piacessero, senza curarsi di lasciarle incinte e se fossero pulite o meno. Ma pare che non disdegnasse nemmeno le nobildonne.

Si dice anche che avesse dato qualche ripassatina alla
cugina  di  Cavour,  la  Contessa  di  Castiglione,  prima  di
cederla a Napoleone III, in veste di ambasciatrice del
Piemonte in Francia e spia-ruffiana scelta del nuovo regno
sabaudo.

Salvo che non si trattasse di una vanteria della famosa Contessa,  la  notizia  dovrebbe  essere  vera,  essendo  stata testualmente  raccontata  tra  le  note  autobiografiche  della donna  fatale,  che  tra  l’altro  si  vantava  di  essere  stata imperatrice di Francia, per più di una notte nella sua vita, e in precedenza anche regina d’Italia.

 

Com’è possibile constatare a un certo livello politico i nostri capi di governo, regnanti e simili personaggi, anche in passato, come ai nostri giorni, non hanno mai cessato di approfondire certi argomenti di natura amatoria.

Cambiano  i  personaggi,  le  donne,  i  luoghi,  ma  la
sostanza è sempre quella. Una volta queste donne erano
chiamate amanti se non putte e adesso invece escort.

Una volta andavano bene le stalle olezzanti di letame o
la campurella alla clorofilla, adesso sono di moda le ville
verdeggianti e i castelli antichi e non ci si scandalizzava
per certe cose che avvenivano e avvengono a tutti i livelli.

Sorvolando sulle altre relazioni del focoso Re Vittorio,
sembra che i rapporti con la bella Rosina, oltre ad aver
reso quest’ultima ricca e in possesso di un certo potere,

 

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l’abbiano fatta divenire madre di reali rampolli, i quali il
Re non omise di proteggere e insignire di onorificenze e
vita agiata. Uno di questi fu un certo Emanuele Filiberto
Piemonte,  cognome  da  trovatello,  nominato  in  seguito
Conte di Savoiano.

Ebbene, Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta, in
Nascara,  si vantava d'essere discendente dal nobiluomo in
questione e che nelle sue vene scorresse sangue reale, lo
stesso del Re Sciaboletta, nipote di Vittorio Emanuele II,
suo avo in pectore.

Ecco dunque che la signora in questione, forte della sua
nascita, da giovanissima  aveva aderito  all’astro sorgente
del  Fascismo,  che  era  stato  supinamente  accettato  dalla
monarchia  sabauda  in  occasione  della  marcia  su  Roma,
nonostante  il  parere  discorde  dell’allora  Presidente  del
Consiglio  dei  Ministri,  che  lo  aveva  consigliato  di  far
intervenire l’esercito.

Berta, fortemente interessata alle vicende politiche del
suo  casato, sosteneva che il Re aveva fatto bene a dare
l’incarico  a  Mussolini  di  formare  il  governo  e  di  dargli
quei poteri che difficilmente avrebbe mai ottenuto senza il
suo consenso.

Per lei, il suo lontano cugino era stato lungimirante e
anche opportunamente intelligente. Aveva salvato l’Italia
dal caos in cui era precipitata dopo la fine della guerra del
1915/18, che era stata vinta dall’Italia, ridotta però in stato
di fragilità economica. Questo era il suo pensiero, essendo
del tutto coinvolta nelle spire della dialettica fascista cui
aderiva. Ma lasciando stare le vicende storiche, Manuela
Filiberta  di Savoiano, detta Berta, imbevuta dalle nuove

 

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idee,  fu  felice  di  indossare  la  gonna  scura  e  la  camicia bianca, divisa emblematica delle giovani donne fasciste, e a frequentare le palestre del partito, partecipando alle oceaniche manifestazioni del sabato fascista, alle sfilate, ai giochi  ginnici  del  cerchio  e  dei  nastri  tricolori,  pur non trascurando  il  ricamo  e  l’arte  della  gestione  domestica della famiglia, secondo la rigida mistica fascista, assurta come fondamento della politica statale.

Fu durante una di queste manifestazioni a Roma, dove
si era trasferita assieme alla famiglia, proveniente dalla
lontana  Torino,  che  conobbe  un  ardente  Camicia  Nera
siciliano, dai baffetti alla moda e dai capelli impomatati di
brillantina. L’incontro non fu del tutto casuale e innocente
e si trasformò fin da subito in una relazione fissa.

Al tempo non si parlava di convivenza, ma grazie al-
l’aderenza  al  partito,  erano  liberi  di  frequentarsi  e  di vedersi  senza  alcun  pregiudizio.  Nulla  di  riprovevole  in questo,  ma  le  usanze  d’allora  imponevano  di  mantenere segreta la loro relazione.

I due si incontravano di nascosto.

 

 

 

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L’INCONTRO CON PAOLO NASCARA

 

La mattina in cui  Berta, e Paolo si incontrarono era un sabato, il giorno della settimana assurto al rango simbolico di sagra settimanale fascista.

Mussolini,  con  molto  acume,  per  intensificare  la  sua
simpatia nel popolo e nel fascismo, non a caso convinto
della forza persuasiva del vezzo degli imperatori romani di
dare al popolo non solo il  panem ma anche i  circenses,
decise di  istituire il  cosiddetto  sabato fascista, che altro
non era se non l’anticipazione della giornata domenicale.
Lasciando  al  Papa  e  al  Vaticano  la  gestione  del  riposo
domenicale, da destinare a Dio con la Santa Messa.

Con l’intento di non attirarsi le antipatie dei cattolici, già non buone nei confronti del nuovo regno Italiano e dei Savoia, credette bene di far precedere la domenica da un sabato  festivo,  tutto  laico  e  fascista,  da  dedicare  alle manifestazioni patriottiche.

Lo scopo evidente era quello di bilanciare nel popolo l’influenza  fascista  con  quella  cattolica,  ottenendo  nello stesso tempo il plauso per la riduzione delle ore di lavoro settimanali, regalando un giorno in più di riposo.

Tuttavia il vero motivo era d'indottrinare più facilmente il popolo con la sua politica fascista, infarcita tra l’altro da attività sportive, oltre calle corpose conferenze di partito all’insegna del Fascio, dell’orbace e del fez.

Non a caso si cominciò a parlare di  mistica fascista,
una materia nuova che gareggiava, o scimmiottava quella

 

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cattolica. Fu il periodo della militarizzazione a tappeto di tutta la nazione fin dalla nascita.

Appena nati, gli italiani diventarono figli della lupa, poi
balilla, indi avanguardisti e infine militi effettivi. Fu anche
il periodo dell’obbligo  del matrimonio  e della condanna
del celibato.

In  verità  gli  uomini  erano  liberi  di  non  sposarsi  ma dovevano  pagare  la  tassa  sul  celibato,  che  cresceva  nel tempo. Più  si era  celibi e più la  tassa cresceva. O ci  si sposava o si rischiava di pagare sempre di più.

Le donne, in questo caso furono avvantaggiate, perché
escluse  dal  provvedimento  in  questione,  ma  l'esclusione
sanciva  in  modo  evidente  che  il  diritto  di  scelta  del
matrimonio era esclusivamente di pertinenza maschile.

Il  giorno  che  Berta  conobbe  Paolo,  si  era  recata  a Campo di Marte, in veste di spettatrice, dov'era prevista una  manifestazione  ginnica  con  l’intervento  del  Duce  e delle massime eminenze fasciste.

Berta era in compagnia di Lucia, l'amica del cuore, una
giovane romana, molto coinvolta nelle attività di partito,
che frequentava da quando si era trasferita nella capitale.
In quest’occasione, le presentò il fidanzato, il milite Paolo
Nascara, un giovane catanese, trasferitosi a Roma, dov'era
stato assegnato.

Lucia gliene aveva talmente parlato che le sembrò di
conoscerlo già da tempo. Paolo era un bel giovanotto, alto,
imponente, coi baffetti appena accennati ma ben curati e i
capelli neri, intrisi di brillantina, gli facevano risaltare gli
occhi  scuri,  rendendoli  lucidi  e  penetranti.  Indossava  la

 

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classica divisa orbace della milizia con il fez e il distintivo del fascio in evidenza sulla sinistra del petto e sul cappello che gli dava un’aria piuttosto imponente.

La stretta di mano fu preceduta dall'impeccabile saluto
romano, fin dal primo momento Berta si sentì osservata
con un certo  interesse  che la  turbò  non poco. Provò  un
lungo brivido alla schiena nello stringerle calorosamente
la mano.

Gli occhi di Paolo la esplorarono dalla testa ai piedi.

Anche  Berta  lo  soppesò  da  cima  a  fondo  prima  di
giungere  alla  conclusione  che  era  un  bell’esemplare  di
uomo  e  che  la  descrizione fatta in precedenza da Lucia
corrispondeva al vero. Fu a questo punto che confidò a se
stessa,  con  stupore  e  rabbia,  che  le  sarebbe  piaciuto
sentirsi  accarezzata  da  quell’uomo,  anche  baciare  e
anche... Perché no? Tutto il resto!

Non poteva però ignorare quel senso di rabbia che le saliva nell’intimo, sapendo che Paolo apparteneva già a Lucia. Sapeva che mai poteva accadere ciò che pensava e per questo soffocò l'incedere dei pensieri. Ma non poteva negarsi che le piaceva e come se le piaceva!

Come  sempre,  mostrò  un’apparente  freddezza  e  un
ferreo  controllo  delle  emozioni,  ma  lei  nel  suo  intimo
gustava il desiderio di far l’amore con un uomo, e la vista
di Paolo le alimentò con la fantasia il fuoco che ribolliva
nelle sue vene. Anche lei era alla ricerca di un amore cui
abbandonarsi, in vivo contrasto con l’educazione ricevuta,
e manifestava un carattere forte e deciso, con qualche
piccola paura. Berta aveva ricevuto un'educazione rigida e
improntata alla continenza e a tenere a bada gli slanci dei

 

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sensi. La madre era ligia ai principi di Santa Madre Chiesa e il padre, di tendenza liberale ma inflessibile con l’educazione di lei e del fratello.

Entrambi i genitori avevano influito  sulla formazione
del suo carattere. Tuttavia non vedeva l’ora di incontrare
l’uomo  giusto  per  abbandonarsi  ai  sogni,  buttando  alle
ortiche  gli  insegnamenti  familiari,  che  sembravano  dei
tabù  alla  luce  delle  nuove  idee  apparse  all’orizzonte.
Tuttavia aveva la paura di sbagliare. Non ammetteva che
la società le impedisse a non essere lei a scegliere, ma a
essere scelta.

Quel giovane fascista le sarebbe andato proprio a genio
per il concetto che lei si era fatto del suo futuro marito.
     Certo, marito. Non arrivava a concepire il rapporto amoroso  al  di  fuori  dal  matrimonio.  Anzi  pensava  che piuttosto non si sarebbe mai messa con un uomo senza il matrimonio,  secondo  gli  insegnamenti  ricevuti  dai  suoi. Le  sembrava  un’assurdità  ma  pensava  che  prima  fosse necessario sposarsi.

Il fascino dell’abito bianco la coinvolgeva, la tentava.
     Però,  quanto  sarebbe  stato  bello  senza  quel  vincolo assoluto. Queste cose rimescolava dentro di sé osservando il  fidanzato  di  Lucia,  preda  del  suo  dualismo  intimo  di moralità,  e  scacciando  ogni  cattivo  pensiero,  la  ritenne fortunata per aver trovato cotanto bel maschio da amare.
     L’amica le aveva detto chiaro e tondo che il loro amore non era platonico, fatto semplicemente di bacetti. Avevano fatto tutto. Chissà! Forse anche questa rivelazione faceva galoppare la sua mente.

 

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SABATO FASCISTA

 

 

La giornata di sabato era trascorsa serena e piacevole.
Dopo aver assistito alle esibizioni ginniche, al discorso del
podestà e al fiume di retorica fascista messa in atto dal
bravissimo Mussolini, che aveva sciorinato i recenti suc-
cessi all'estero e le sue remore nei confronti della politica
di  Hitler  per  il  suo  razzismo  dichiarato,  Berta,  Lucia  e
Paolo, si incamminarono lungo il viale fino a raggiungere
la più vicina carrozzella. Saliti a bordo, il contatto fisico
tra i tre fu quasi imposto. Paolo, con un braccio cinse la
vita  di  Lucia,  con  l’altra  mano  non  esitò  a  sfiorarle  i
fianchi.

Berta ebbe un sussulto. Pensò di reagire, ma si fermò
un po’ per prudenza, un po’ perché non le dispiacque. Però
si sentiva a disagio, non riuscendo a stabilire se la causa
fosse  dovuta  dalla  presenza  dell’amica  o  per  ciò  che
provava intimamente.

Quella giornata alla fine era giunta a degna conclusione
e Berta lasciò i due fidanzati, salutandoli affettuosamente.

In cuor suo Berta avrebbe voluto parlarne con Lucia, ma la ragione le disse che era meglio tacere. Tanto non ci sarebbe stata più una situazione analoga in futuro. In ogni caso non sapeva se disprezzare il comportamento di Paolo, o di aver gradito le attenzioni che in lei avevano suscitato qualcosa di mai provato prima.

 

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Erano trascorse due settimane dall’incontro con Paolo.
     Berta aveva messo a tacere tutte le sue contraddizioni fino a quando, si vide spuntare Lucia in lacrime.
     «Cos'è successo?» Le chiese preoccupata. «Cosa posso fare per te?» Incalzò.

«Nulla. Tu non puoi fare nulla» rispose singhiozzando. «Paolo mi ha lasciato. Ha detto che non mi ama più. Non mi vuole e non mi sopporta. Sono disperata.»

Per Berta fu una doccia fredda. Non le disse certo che
si aspettava che ciò succedesse. Avrebbe dovuto spiegare e
non le andava di raccontarle di quel giorno a Campo di
Marte. Cercò di consolarla dicendole che era meglio non
pensarci  e  che  quell’uomo  non  meritava  il  suo  amore.
Meglio dimenticarlo.

Sarà  stato  il  suo  consiglio,  sarà  stato  un  caso  o  la fortuna ma Lucia, dopo appena tre giorni, tutta raggiante le disse di essersi innamorata di un altro che le stava dietro da parecchio e che adesso se ne fregava di Paolo.

«Chiodo  schiaccia  chiodo»  le  disse  Berta  felice  e
contenta.

«Meglio così» fu la risposta.

 

Berta fu doppiamente contenta. Lucia aveva superato il
trauma  dell'abbandono  e  lei,  volendo,  avrebbe  potuto
incontrare  Paolo  senza  alcun  patema,  se  non  quello  di
poter essere piantata a sua volta. Ma non gliene fregava
proprio nulla se dopo l’avesse piantata. Lo voleva e basta.

 

 

 

 

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INIZIO RELAZIONE CON PAOLO NASCARA

 

 

Lucia,  dopo  quell’incontro  di  raggiante  felicità,
scomparve definitivamente dalla vita di Berta. In effetti
per  lei,  più  che  amica  era  una  conoscenza  un  poco  più
ravvicinata ma non profondamente affettiva. Di fatto cercò
di non frequentarla più, presa com'era dall’idea di  voler
rivedere Paolo, la loro amicizia sarebbe stata d’intralcio e
avrebbe potuto creare in lei dei risentimenti che voleva a
ogni costo evitare.

Aveva ancora tempo per decidere che cosa fare e come agire nei confronti di Paolo, poiché era convinta che quel birbante si sarebbe fatto vivo, e non si sbagliò.

Il loro successivo incontro fu pure casuale ma di fatto sperato e cercato da entrambi.

Questa  volta  erano  da  soli,  senza  testimoni  scomodi. Parlarono delle cose più stupide e infine arrivò il momento della giterella in carrozza.

Fu il primo bacio appassionato. Nessun altro discorso o
parola, niente fronzoli di voci appassionate, solo carezze e
bacetti non del tutto innocenti e profondamente intimi.

Al  momento  di  lasciarsi,  Paolo  le  propose  di  farle
conoscere la casa dove abitava da solo. Berta rispose di sì,
ma non quel giorno perché in serata aveva un impegno in
famiglia.  Rimandò  a  domenica.  Essendo  quel  giorno  il
solito sabato di prammatica, significò: domani.

 

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Berta e Paolo si incontrarono al Pantheon. Dopo aver consumato una piccola colazione alla caffetteria di fronte, si avviarono in una viuzza accanto, dove Paolo abitava al primo piano di un vecchio stabile.

Varcato  l’uscio  di  casa  e  chiusa  la  porta,  Paolo  la
abbracciò, la baciò e incominciò a spogliarla.
     Berta corrispose alle effusioni e dopo aver percorso il breve tratto di corridoio, in fondo al quale vi era la camera da letto, i due vi giunsero nudi come Adamo ed Eva.
     Fecero l’amore. Per Lei era la prima volta, ma non per questo  ne  fu  meno  intensamente  coinvolta.  Ed  era  stato come  se  l’avesse  fatto  da  sempre.  Per  lui  provava  un trasporto immenso, mai provato, anche se desiderato. Ed era stato bello, proprio come l’aveva sognato.
     Da quel giorno non smisero di vedersi e di incontrarsi a casa  di  Paolo.  Quando  stavano  insieme  Berta  si  sentiva appagata e felice di fare l’amore senza pensare a nulla. Era come vivere in un sogno, dove tutto era meraviglioso ma, a forza di amoreggiare clandestinamente, ai due amanti accadde l'irreparabile.

 

Un bel giorno Berta disse a Paolo che non aveva più le
“sue cose”. Era semplicemente gravida, come del resto fu
confermato da un esame clinico. Ma non fu un dramma
poiché loro due si amavano e decisero di sposarsi subito.

Misero su casa in quella abitazione vicino al Pantheon. Paolo era in milizia e percepiva uno stipendio e la moglie Berta, inserita nell’organizzazione delle Giovani Fasciste, aspirava di essere assunta in banca. Si prospettava per loro un avvenire radioso e sereno.

 

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9

LA PARTENZA DI PAOLO PER L’ETIOPIA

 

Nel frattempo che la vita dei giovani coniugi Nascara procedeva  nei  miglior  modi,  così  pure  la  gravidanza  di Berta, gli accadimenti della Nazione maturavano sotto la guida del Duce, al quale rinacque l’idea del “posto al sole” e della ricomposizione dell’Impero Romano.

A Mussolini non bastava più la campagna del grano né
la  bonifica  dell’agro  pontino.  La  propria  ambizione  era
proiettata verso la conquista del mondo. Incoraggiato dalla
funzione di arbitro internazionale a cui lo aveva promosso
la politica inglese, per bocca e volere del primo ministro
Eden. Dopo i patti di Stresa, incominciò a mirare sempre
più in alto ed ecco che ideò di ampliare la colonia italiana
somala in Africa dichiarando guerra all’Etiopia, nonché di
estendere il conflitto anche alla Turchia per estrometterla
dalla Libia.

Paolo Nascara in tutto ciò non poteva restare estraneo
agli impulsi patriottici del Duce, e nonostante avesse già
un incarico stabile nella milizia a Roma, chiese di essere
arruolato come volontario per la conquista dell’Impero.

Per quanto gli fu detto che la sua opera era più proficua
in Italia lui, protestando, voleva partire a tutti i costi.
     Si rivolse addirittura a un membro del Gran Consiglio del Fascio. E visto che a lui non si poteva scontentarlo, Paolo  fu  inserito  nell'elenco  dei  partenti  al  posto  di  un ignoto Paolo Nasca, scartato di punto in bianco con una

 

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piccola variazione furbesca sul verbale di partenza, senza
andare tanto per il sottile, correggendo appena il cognome.

Berta, mentre il marito partiva per l’Abissinia, non
potendo seguirlo perché donna, grazie alla fama di cotanto
patriottismo  del  coniuge,  riuscì  a  inserirsi  meglio  nel
partito, diventando una impiegata qualificata del Banco di
Roma. Qui fece valere la sua conoscenza del tedesco e del
francese, nonché il titolo di studio di ragioniera. Insomma
si dette da fare, muovendosi con grande determinatezza.

Di fatto era entrata nelle mire di un noto personaggio
che  stava  molto  in  alto  nella  gerarchia  e  non  esitò  a
sfruttarla.  Sicché,  mentre  il  consorte  combatteva  in
Abissinia  coprendosi  di  gloria.  Berta,  servendo  la  causa
del Duce, riuscì a intrufolarsi nelle maglie del potere.

Fu d’obbligo stampare qualche corno al marito, ma di nascosto e senza pubblicità. In verità una leggera forma di trasgressione che tutto sommato mise in atto con una certa partecipazione sentita.

Del resto Paolo nulla sarebbe venuto a sapere, e occhio che non vede, cuore non duole. L’importante per Berta era portare la famiglia sulla via del benessere e nell’interesse anche del marito, che ritornando, avrebbe trovato la strada del successo agevolmente spianata.

E dunque qualche corno gli stava anche bene per averla lasciata sola per rincorrere i suoi sogni di gloria.

 

 

 

 

 

 

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IL RITORNO DI PAOLO

 

 

Il rientro di Paolo, annunciato d'improvvisa, per ferite riportate in guerra, fu per Berta un fulmine a ciel sereno, sia  per  lo  stato  di  salute  del  marito,  sia  perché  vedeva turbato l’equilibrio che era riuscita a crearsi.

Attese con pazienza l’arrivo della nave che riportava in
Patria oltre al marito altri camerati feriti e anche i morti.

Quando  lo  abbracciò,  fu  felice  di  constatare  che  le
ferite  riportate  non  erano  visivamente  deturpanti,  ma
rimase di stucco quando seppe della menomazione da lui
ricevuta.

Il “coso” era al suo posto, ma imbelle, senza i pendagli
che un tempo lo adornavano, e che lei riteneva di poco
conto e invece erano il vero sostegno di tutto l’apparato.

Quella prima notte dal suo arrivo, fu un dramma. Baci, abbracci, piccoli morsi, carezze, ma tutto fu inutile.
     E così la notte successiva e tutte le altre a venire.

Berta  fece  buon  viso  a  cattivo  gioco  e  una  volta rincuorato il suo Paolo, gli disse che la cosa importante era che fosse ritornato vivo in Patria.

«A tutto c’è rimedio finché c’è vita» gli disse Berta.

Erno solo parole… ma che poteva aggiungere ai fatti se non parole?

Quello che c’era una volta, adesso non c’era più!

 

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Terminata  la licenza premio,  Paolo  fu  reintegrato  nel
corpo della milizia con il diritto a fregiarsi della Croce di
Guerra e della medaglia d’argento, che gli fu assegnata per
la  ferita  riportata,  che  non  fu  meglio  specificata  se  non
come lesiva della sua vita, come fu definita. Ebbe anche
una promozione di grado e un posto di grande rilevanza
nella sua Catania, dove pure la moglie si fece trasferire
presso la sede del Banco di Roma della città etnea.

Paolo  ricominciò  a  vivere  la  sua  vita  normale  di sempre, ma non tanto normale. I rapporti con la moglie erano cambiati e di molto. Nulla, nemmeno l’intensità del suo affetto poteva cambiare la realtà: era fisicamente un eunuco, impossibilitato a esercitare i suoi doveri coniugali con la moglie e con qualsiasi altra donna.

La vita tra loro era un inferno pieno di incomprensioni, i litigi e tutto l’insieme di quelle cose che trovavano a letto l’armonico acquietamento degli eccessi, era saltato.

Berta a stento riusciva a essergli fedele. Ma fedele a che cosa? È da dire che lei aveva ceduto sì, alla infedeltà, mentre Paolo era in Abissinia, ma era stata una cosa non voluta, che era capitata, che non avrebbe voluto, una cosa del tutto occasionale ma adesso la situazione era cambiata. L’assenza sessuale del marito era permanente e i suoi sensi gridavano ancora... e come gridavano!

Le sembrava d’impazzire.

Paolo, da parte sua soffriva pure per lo stesso motivo e
anche se non era cessato del tutto lo stimolo amoroso. Si
rendeva conto che la situazione precipitava di giorno  in
giorno  e  che  ogni  parola,  ogni  diverbio,  ogni  dissenso

 

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aveva il suo sottofondo in quell'anomala situazione.

Fu lui stesso che un bel giorno decise di affrontare la situazione. Le parlò facendo tutto un giro di parole, per cercare di introdurre la sua proposta.

Disse delle cose e delle motivazioni prese alla larga con
molta cura e con molto tatto. Alla fine ammise che non
essendo più in grado di renderla felice la lasciava libera di
cercare altrove quanto lui non era più in grado di darle.

All’affermazione schietta e sincera di Berta, le chiese
di  essere  discreta,  di  fare  pure  ciò  che  voleva  alla  sola
condizione di essere discreta, di non separarsi, di restare
per il resto complici nella gestione della loro famiglia, di
non abbandonarlo. In altri termini, più schietto e chiaro, le
disse che poteva farsi un amante a condizione che nulla
trapelasse  del  loro  dramma  e  che  la  loro  famiglia  non
avesse a separarsi.  In parole povere accettava di fare la
figura  del  marito-fratello.  Diciamo  pure  del  cornuto
volontario per causa di forza maggiore, fermo restando il
loro rapporto sociale.

Berta, lo baciò in fronte, lo abbracciò con calore.

«Grazie. Ti voglio bene» gli disse semplicemente.

Da  quel  giorno  i  rapporti  di  convivenza  tra  loro  due mutarono.  Si  erano  chiariti  i  ruoli  del  loro  rapporto, improntati sulla lealtà e sulla sincerità e Berta promise che nel caso di “sostituzione a letto con un altro uomo” glielo avrebbe detto e così in effetti avvenne.

 

 

 

 

 

 

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TULLIO PETRONELLI

 

 

 

Berta annunziò al marito che per motivi inerenti al suo lavoro nel partito era costretta ad assentarsi per circa una settimana, per andare a Roma. Per l’occasione, si sarebbe dovuta incontrare con il gerarca, che lui conosceva e che era amico del numero due del PNF.

Sì, quello che era andato in America con l’apparecchio
trasvolando l’oceano Atlantico, insieme a Italo Balbo. Per
l'appunto  Tullio  Petronelli,  che  pure  lui  conosceva.  Gli
disse  che  in  passato,  mentre  lui  era  in  Abissinia,  questi
aveva  tentato  di amoreggiare con lei, facendole  la corte
ma senza successo.

In effetti la cosa era avvenuta ma gli disse, mentendo,
che aveva resistito per amore suo e aggiunse che adesso,
costretti  a  incontrarsi  per  motivi  di  lavoro,  lui  tornava
sempre a bomba e ci  tentava sempre e che,  vista la
situazione,  a  lei  non  sarebbe  dispiaciuto  di  fare  “quello
che  è...”  con  lui,  ovviamente  se  avesse  avuto  il  suo
benestare.

«Sei libera di farlo» le disse Paolo «nel rispetto che mi
devi. Cerca di essere discreta e prudente».
     Lei preparò la valigia con alcuni indumenti necessari, lo baciò e gli disse pure quando sarebbe ritornata e partì con il treno per Roma.

Al tempo per recarsi da Catania a Roma si prendeva il
treno. Si andava alla stazione centrale. Si attendeva quello

 

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che partiva da Siracusa, si cercava il posto prenotato e ci si sedeva leggendo qualche buon libro. Si arrivava a Roma Termini nello spazio di otto ore. Per fare ritorno si faceva lo stesso percorso a ritroso.

Durante  il  tragitto  Berta  era  impaziente,  le  sembrava che il tempo non passasse mai.

Questa volta l’ansia aveva un gusto particolare, come se andasse a nozze. Già a nozze! Poiché andava a tradire il marito, per la prima volta con il suo beneplacito e la sua benedizione e che quello era l’inizio di una storia vecchia, ma di sapore diverso, quasi nuovo.

In effetti il lavoro da svolgere era stata una scusa. In
verità  i  due,  che  già  erano  amanti,  erano  d'accordo  a
vedersi  e  stare  insieme  una  settimana,  in  occasione  del
ritorno  del  caro  Tullio  dall’Africa,  dove  il  suo  diretto
superiore e camerata Italo era stato dirottato da Benito con
il titolo di Governatore della Libia, o qualcosa di simile.

Berta dal finestrino vedendo le immagini dei panorami
sempre diversi correre all’indietro, sfuggenti, irreali e pur
veri, le sembro di scorrere a ritroso gli episodi della sua
vita con il marito.

Si  rivide  giovane  e  ricca  di  idee  di  grandezza,  con
quella sua gonna sotto il ginocchio e la camicia bianca.
     A quel tempo non pensava a agli uomini, che considerava dei semplici individui diversi da lei solo per il sesso.

Il giorno che conobbe Paolo, non pensava affatto che
sarebbero finiti a letto. Non ci pensava nemmeno, ma lo
sperava. La seconda volta che si videro, lui seppe essere
così birbante, carino, intraprendente e pieno d’attenzione

 

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per lei,  che  quasi  senza  accorgersene  piombò  tra  le  sue braccia  spontaneamente.  Fu  cosa piacevole  e bellissima, che  in  cuor  suo  le  fece  nascere  dei  desideri  e  delle aspirazioni mai provate prima.

E dire che Berta, quando conobbe Paolo, lui era il
fidanzato di Lucia, una sua amica, e che i primi approcci
avuti con lui l’avevano resa nervosa, anche se ansiosa data
la  circostanza.  Però  non  poteva  ammettere  che  le  era
dispiaciuto. Ricordò la sorpresa di essere rimasta incinta,
il conseguente matrimonio e la nascita della figlia.

Quando Paolo decise di partire volontario alla ricerca della gloria, in verità, ci rimase male. Cercò di convincerlo a non partire e di restare vicino a lei, ma fu irremovibile, Era troppo preso dai suoi ideali politici. Prima il Duce e poi tutto il resto. Che poteva fare, se non restare moglie e madre in attesa del ritorno del guerriero?

Quell’attesa  tuttavia  si  trasformò  presto  in  tormento.
Ricordava  le  notti  d’amore  e di  serenità  appagata e pur
restando fedele al suo glorioso marito, cominciò ad andare
incontro a piccoli e innocenti svaghi che la vita le offriva,
intensificando le sue presenze in seno alle manifestazioni
del  sabato  fascista  e  consolarsi  ogni  notte  stringendo  il
cuscino tra le gambe per spegnere la sua sete d’amore.

Fu  proprio  durante  uno  di  quei  sabati,  che  conobbe Tullio  Petronelli,  in  occasione  di  una  manifestazione organizzata  da  Italo  Balbo  per illustrare  i  progressi  del-
l’aeronautica italiana.

Argomento del loro primo discorso fu la conoscenza di
suo marito Paolo con Tullio. Le disse che era felicissimo
di conoscere la moglie di un suo grande amico e camerata

 

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Paolo  Nascara  e  ammiccandole  un  sorriso,  aggiunse  di aver finalmente capito perché Paolo si era eclissato.
     Tullio, che tra l’altro era un bel pezzo d’uomo, era il luogotenente di Italo e svolgeva un ruolo importante nel campo aviatorio,  in  verità  aveva  avuto con Paolo un rapporto di semplice conoscenza.

Dopo il primo scambio di parole, condito da eloquenti sguardi, Berta accettò l’invito di Tullio a voler provare il brivido del volo.

Era  convincente  quell’uomo,  sicuro  di  sé  e  mostrava un’alterigia che Paolo non aveva.

In verità quest’ultimo era assai gentile e la colmava di
attenzioni che mai lei avrebbe sperato di ricevere. Tullio
era un altro tipo di uomo, uno di quelli che va dritto allo
scopo, anche in amore, senza tanti complimenti. In altre
parole era più maschio, più possessivo, più sessualmente
padrone dei suoi sensi.

Berta capì subito, alla luce delle sue esperienze, cosa
avesse suscitato in lei la sua persona: il desiderio di essere
posseduta  fino  in  fondo,  di  essere  più  donna  tra  le  sue
braccia, di sentirsi vinta e protetta, senza pensare ad altro.

Stranamente quella sensazione non le dispiacque.

Anzi ne provò un’intima soddisfazione tutta femminile. In fondo era quello che cercava: un rapporto piacevole e soddisfacente ma senza impegni sentimentali. Considerava il rapporto con Tullio, un amore “usa e getta”, un piacere passeggero,  una  semplice  sostituzione  temporale  alla bisogna, come prendere un caffè insieme e lasciare che il tempo scorresse per gli affari suoi.

 

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Affari? Aveva pensato agli affari? Che c’entravano gli affari con il tempo in questa situazione? Bah!
     Pensò che stesse farneticando. Il vero affare in questa situazione  era  l’intenso  piacere  che  quell’uomo  le  dava senza nulla a pretendere e solo per gioco.

Al suo primo appuntamento, per provare l’esperienza
del  volo,  si  presentò  molto  più  curata  nella  persona  da
quando lo aveva conosciuto. Era andata dal parrucchiere
prima e poi si era agghindata indossando un abitino che
metteva in evidenza le sue forme e una camicetta di pizzo
che  lasciava  intravvedere  la  procacità  del  suo  seno.  In
ultimo aveva steso uno strato di cipria sul viso e rossetto
sulle  labbra.  Si  era  fatta  bella,  controllando  prima  di
uscire, davanti allo specchio che tutto fosse in ordine. Ci
teneva proprio a stimolare l’interesse mostrato da Tullio.

 

Appena salita sull’aereo, quest’ultimo non andò tanto per  il  sottile.  La  strinse  e  la  baciò  intensamente.  Berta rispose  al  bacio  e  lo  lasciò  armeggiare  intorno  al  suo corpo. Si aspettava quel comportamento e sinceramente ci sarebbe rimasta male se non l’avesse ricevuto.

Subito  dopo  l’aereo  rullò  sulla  pista  e  dolcemente  si
levò in cielo. Le sembrò di volare, disse tra sé e sé. Ma
che  sembrare!  Stava  volando  per  davvero  accanto  a
quell’uomo  che  non  cessava  di  accarezzarla.  Certo  non
aveva le ali degli angeli, ma stava volando per davvero in
cielo, tra le nuvole, che assumevano gli aspetti più strane.
Quella verso cui si stava dirigendo l’aereo aveva la forma
di un cuore e quando gli si tuffò dentro si sentì commossa

 

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e felice. Le sembrò un bellissimo augurio. Volgendo gli
occhi in basso le persone le sembrarono formiche agitarsi
tra i campi e il fiume, forse il Tevere, un nastro biondo che
li attraversava. Si sentiva grande, immensa, superba. Altro
che principessa di sangue reale! Era una Dea pagana che
passeggiava  tra  le  nubi  e  aveva  accanto  il  cavaliere  del
cielo, il padrone del mondo, che le stava facendo provare
delle emozioni stupende.

Erano diventati amanti fin da subito, così... quasi per
gioco  e  per  divertimento  reciproco.  Lei  non  pensava  di
sostituirlo  al  marito,  ma  di  cogliere  l’occasione  per
distrarsi nell’attesa del suo ritorno. Era certa che quando
Paolo sarebbe tornato, sarebbe finito tutto. Tullio non era
il tipo da volersi legare in una relazione stabile né lei lo
pretendeva. Una semplice parentesi, magari da ricordare
piacevolmente ma nulla più.

Questa  situazione  la  eccitava  e  la  spingeva  a  godere quanto più potesse da quella situazione.

Poi  c’era  stato  il  ritorno  di  Paolo  e  l’amara
constatazione  della  sua  impotentia  coeundi  acquisita
combattendo  in  Etiopia.  Sì,  forse  si  chiamava  così  la
menomazione  con  la  quale  era  ritornato  dall’Africa.
Ricordava  pure  la  delicatezza  con  cui  Paolo  l’aveva
lasciata libera nei sentimenti e provò pietà per quell’uomo
che l’amava con sentimento, scegliendo il ruolo di marito
putativo.  Pensò  a  San  Giuseppe.  No!  Certo  no!  Non
sarebbe diventato un Santo per questo. Piuttosto sarebbe
andato  sicuramente  all’inferno  per  aver  preferito  il  suo
Duce  a  lei  e  alla  sua  famiglia.  Proprio  per  quest'ultimo

 

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motivo  provò nei  suoi confronti  un senso di ripulsa per
averla lasciata sola rincorrendo la farfalla della gloria.
     Era  stata tentata di lasciarlo ma scacciò via quel suo cattivo pensiero, pensando alla figlia, che avrebbe sofferto per la perdita del padre. In fondo, poi, pensò di non esserle andata completamente male, avendo incontrato quel Tullio capace di farla sentire donna felice e soddisfatta di volta in volta, senza forse nemmeno pretendere di essere amato e desiderato.

Tullio  la  prendeva,  la  possedeva  e  lei  era  felice  di
esserlo. Niente sentimentalismi ma semplice piacere puro
e godimento dei sensi, il cogliere a volo l’attimo fuggente
senza patemi e rimpianti. Per quanto riguardava la sfera
del sentimento, le bastava l’affetto della figlia e di quel
suo marito impotente.

 

 

 

 

 

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RAPPORTI TRA BALBO E MUSSOLINI

 

Intanto mi preme ribadire ancora quali fossero i cattivi
rapporti  tra  Italo  Balbo  e  Mussolini.  Questi  erano  di
assoluta  amicizia  e  lealtà,  ma  tra  i  due  qualcosa  non
andava proprio. Italo era un po' sciattone e non rispettoso
delle  formalità.  Nonostante  Benito  fosse  divenuto  il
numero uno d’Italia a cui bisognava dare il Voi come di
prammatica,  Italo  aveva  continuato  a  dargli  il  Tu  in
pubblico, a dargli pacche sulle spalle e a trattarlo come un
suo pari e a non rispettare la sua formale subordinazione.
Specialmente  dopo  l’eclatante  successo  della  traversata
atlantica, che aveva fruttato all’intraprendente Italo onore
e ovazioni da tutto il mondo, in particolare dell’America,
il suo comportamento  era diventato più guascone che mai
urtando la suscettibilità del Duce, suo malgrado fiero del
suo operato, ma carico di bile, gelosia e timore di essere
detronizzato.

Benito, che di per sé era un assertore del culto della
personalità, cominciò a temere proprio che Italo potesse
scavalcarlo nei consensi e potesse sostituirsi a lui. Ciò non
poteva e non doveva avvenire. Il capo indiscusso del PNF
e dell’Italia era lui. Andava bene che sopportasse il Re,
quel Sciaboletta, come lo chiamava, che aveva avallato la
sua presa di potere. Questi non gli dava preoccupazione
alcuna. Era abbastanza tronfio del suo operato avendolo
nominato,  oltre  che  Re  d’Albania,  imperatore  d’Etiopia.
Ma Italo lo preoccupava moltissimo. Diciamo pure che lo

 

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temeva e poi non sopportava quei suoi sberleffi, quel suo modo di trattarlo come un suo pari e il seguito di uomini che lo ammiravano nel campo dell’aviazione a lui negata o per lo meno ostica, pur avendo cercato di pilotare un aereo con scarsi risultati.

E non solo questo: unico dei suoi gerarchi osava aperta-
mente contraddirlo in seno al Gran Consiglio del Fasci-
smo,  a  manifestargli  senza  remore  e  in  pubblico  il  suo
dissenso, che tra l’altro si era manifestato traumatico, in
occasione  dell’alleanza  voluta  da  Mussolini  con  Hitler,
osando suggerire in assemblea addirittura la tesi opposta
alla sua  e cioè  di  entrare in guerra contro  la  Germania.
Inoltre il Duce ebbe pure a subire lo schiaffo morale della
mancata applicazione in Libia delle leggi razziali contro
gli Ebrei, varata da Mussolini per ingraziarsi ancor più il
cancelliere tedesco.

Avrebbe potuto fare un atto di forza e annientarlo con
un suo ordine, ma temeva la reazione del popolo. Italo era
una sacra icona del fascismo. Non per niente lo si additava
come  suo  successore  al  potere,  cosa  quest’ultima  che
accresceva  ancor  di  più  la  sua  poca  serenità.  Non  gli
andava proprio giù che già si pensasse a un suo succes-
sore, mentre era vivo e vegeto.

Benito, dopo aver riflettuto a lungo pensò bene di
tenere  lontano  da  Roma  questo  suo  oppositore,  poi  non
tanto  muto,  anche  se  in  linea  di  massima  obbediente  e
osservante  delle  sue  disposizioni  finali,  approvate  dal
Gran  Consiglio  del  Fascio.  In  questo  senso  non  poteva
muovergli alcun appunto. Era fedele osservante di quanto
da  lui  stabilito,  anche  se  ricalcitrava  prima.  Era  proprio

 

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quel ricalcitrare che gli dava fastidio e lo faceva temere di essere prima o poi scavalcato.

Colse l’occasione per toglierselo d’attorno e limitarlo, nominandolo  responsabile  diretto  e  governatore  della Libia, dove la situazione politica non era poi così facile per la guerra interna delle tribù locali.

La sua speranza era che qualcuno dei nemici avrebbe
trovato il modo di eliminarlo fisicamente. Ma non fu così,
Italo, grazie alla sua  versatilità  e al suo acume  politico,
riuscì  a  unificare  le  varie  tribù  della  nuova  colonia
italiana, smussando le ostilità, creando delle innovazioni
favorevoli a tutto il popolo e pur ignorando alcuni drastici
provvedimenti  di  Mussolini,  riuscì  ad  aggregare  tutta  la
Libia  sotto la sua inflessibile autorità. Né tanto meno il
provvedimento  riuscì  a  tenerlo  lontano  da  Roma,  per  il
fatto  che  nonostante  le  grane  da  risolvere,  Italo  Balbo
riusciva  a  non  tenersi  lontano  dalla  capitale,  servendosi
del suo aereo personale che usava e pilotava direttamente,
come se fosse un’automobile.

L’aver pensato che il soggetto avrebbe avuto tante di quelle gatte da pelare, da tenersi lontano da lui e dal potere centrale, si rivelò un’errata aspettativa.

Il  grande  e  lungimirante  Benito  aveva  fatto  i  conti
senza l’oste. Non tenne presente la personalità irrequieta
di Italo, che quasi giornalmente, dopo aver disimpegnato
in quattro e quattro otto i suoi doveri d’ufficio, saliva sul
suo aereo personale e nel giro di qualche ora era sempre
tra le scatole del Duce a Roma, a dargli pacche sulle spalle
e a trattarlo come un suo pari e a contestargli delle piccole
cose che lo turbavano e non poco. Ogni pacca sulla spalla

 

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per  il  Duce  era  una  coltellata  e  ogni  battuta  ironica
un’offesa  grave  alla  sua  persona.  Non  sapeva  proprio
come  contenere  l’invadenza  del  suo  subalterno  più  in
vista.

L’opinione pubblica, che lo considerava un successore
sicuro alla guida del Fascio rendeva ancora più irrequieto
il sonno del Duce. Il fatto che si pensasse solamente a un
suo probabile successore, lo disturbava enormemente.

Non  gli  restava  che  affidare  l’operato  di  Italo  alla
stretta  sorveglianza  dell’OVRA1,  come  del  resto  faceva
con  gli  altri  gerarchi,  suoi  stretti  collaboratori,  ma  con
un’attenzione particolare. Il suo motto era che fidarsi era
un bene, ma solo apparentemente. Bisognava sempre stare
sul chi  vive e sapere tutto  di  tutti,  non solo  dei  nemici,
anche degli amici che potevano trasformarsi in potenziali
nemici.

In questo modo seppe tutto di Italo, ossia dei suoi fatti
personali, dei suoi traffici più o meno leciti, dei rapporti
che  teneva  con  l’America,  di  certe  sue  amicizie  con  la
perfida Albione, nonostante lui, Benito, pare che intratte-
nesse un rapporto segreto con quel Churchill, che aveva
dichiarato nemico d’Italia. Gli arrivò sulla scrivania anche
il rapporto sulla relazione del luogotenente di Italo, Tullio
Petronelli,  con  la  signora  Manuela  di  Savoiano,  detta
Berta, moglie di Paolo Nascara, diventato intanto capitano
della milizia, per meriti di guerra. Tanto gli bastò sapere
per intervenire ed eventualmente eliminare il fantomatico
nemico prima che diventasse più pericoloso del previsto.

 

1 L’OVRA è stata la polizia segreta dell’Italia fascista dal 1927 al 1943 e nella Repubblica Sociale Italiana dal 1943 al 1945.

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Venti di guerra

 

 

Negli quegli anni a seguire i rapporti tra Berta e il suo
amante  subirono  una  certa  accelerazione,  grazie  alle
continue  trasvolate  aeree  del  gerarca  Italo  Balbo
dall’Africa a Roma e gli altrettanti viaggi della donna da
Catania a Roma in treno. La  faccenda veniva riferita
dettagliatamente al Duce che cominciò a meditarci sopra,
onde trarne gli elementi di una difesa a oltranza del suo
potere,  costantemente  messo  in  pericolo  da  quel  suo
fattivo ma antipatico, gerarca.

Con  il  passare  del  tempo,  la  situazione  politica  in Europa  andava  sempre  evolvendosi  con  fatti  del  tutto nuovi e forieri di tempesta.

In  Germania,  grazie  al  movimento  delle  famose Camicie Brune, era salito al potere, regolarmente eletto dal  popolo,  Adolfo  Hitler  che,  preso  come  esempio  il modo  di  governare  del  Duce  italiano,  manifestò  la  sua simpatia  per  il  popolo  italiano  che  aveva  saputo  far risorgere i fasti dell’antica Roma.

È da dire che l’offerta di amicizia del nuovo cancelliere fu  accolta  con  orgoglio  da  Mussolini,  tronfio  per l'interesse che gli aveva suscitato.

Seguirono  incontri,  scambi  culturali,  visite  ufficiali  e
segni evidenti di fraterna amicizia tra il popolo italiano e
quello  germanico,  nonostante  la  nota  e  ancora  fresca
lacerazione avvenuta con  la  prima  guerra  mondiale e la

 

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non  tanta  segreta  avversione  italiana  manifestata  con  i
famosi patti di Stresa, messi in atto dalle Nazioni Unite.
     Col tempo, mentre la politica italiana, oltre alla guerra coloniale inglese, si era limitata ad arrestarsi ai confini con gli altri stati europei, quella tedesca si rivelava alquanto invadente,  essendo  balzata  in  testa  a  Hitler  l’idea  di ricostituire il vecchio impero austro-ungarico.
     La  prima  mossa  del  cancelliere di ferro, fu quella  di invadere  l’Austria  e  di  annetterla  alla  Germania  con  un referendum, che sapeva di vincere, essendo egli austriaco di nascita. Inghilterra e Francia incominciarono a stare sul chi  vive,  ma  intenzionati  a  evitare  la  guerra  invitarono Benito Mussolini, grazie ai suoi rapporti con Hitler, di fare da  paciere.  Benito  Mussolini  si  mosse  con  molta diplomazia  e  grazie  a  lui,  pur  restando  l’annessione dell’Austria alla Germania un dato di fatto, fu evitata la guerra e si parlò di pace.

È da dire che lo stesso Mussolini non gradì
l’annessione  dell’Austria  alla  Germania,  per  il  semplice
fatto  che egli  preferiva  avere come  confinante  un  paese
modesto  come  l’Austria,  piuttosto  che  il  colosso
germanico.

La  stessa  cosa  avvenne  l’anno  successivo  con l’occupazione  tedesca  della  zona  dei  Monti  Sudeti, interessanti i paesi cecoslovacchi.

Anche  questa  volta  il  Duce,  intervenuto  da  paciere,
riuscì a far passare l’azione tedesca con i ringraziamenti di
Francia e Inghilterra che, per l’occasione venne definito
da  Eden  l’uomo  della  pace.  Ma  ecco  che  apparve
all’orizzonte  la  questione  della  Polonia  e  di  Danzica.

 

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Prendendo lo spunto da un presunto incidente di frontiera, l’esercito tedesco invase la Polonia, occupandola per quasi metà, lasciando l’altra metà alla mercé di Stalin, come da accordi precedenti presi sotto banco.

La spartizione della Polonia consentiva alla Germania
di estendersi fino all’importante porto baltico di Danzica,
città  già  abitata  da  Tedeschi.  A questo  punto,  Francia  e
Inghilterra  non  ricorsero  più  ai  buoni  servigi  del  Duce
italiano e imposero l’ultimatum a Hitler e fu la guerra, al
quale il cancelliere tedesco già da qualche tempo aveva
pensato e preparato.

Hitler  sapeva  che  non  avrebbe  potuto  affrontare  la
Francia, difesa dalla famosa linea Maginot, una serie di
fortilizi, sorta subito dopo la guerra del 1915/18, con lo
scopo di difendere il territorio da un’eventuale invasione
tedesca.  Pertanto  avvenuta  la  dichiarazione  di  guerra  da
parte  dei  Francesi,  l’esercito  tedesco  invase  senza  un
preventivo  motivo  gli  stati  neutrali  Olanda,  Belgio  e
Lussemburgo e, dilagando alle spalle della linea Maginot,
aggirata,  in  pochi  giorni  mise  in  ginocchio  la  Francia,
minacciando l’Inghilterra con raid aerei su Londra.

Sembrò  evidente  che  la  Germania  sarebbe  uscita vincitrice  da  questo  conflitto  europeo  e  che  tutto  si sarebbe risolto in una guerra-lampo.

Al gran Duce dell’italo onore, sembrò essere giunto il
momento  di  godere  dello  splendore  teutonico  e  così,
mentre la Spagna di Franco, se ne stette muta a guardare,
godendo dell’amicizia  silenziosa  del  cancelliere tedesco,
l’Italia,  sotto  la  spinta  di  Mussolini,  che  espressamente
chiese al gran consiglio del Fascio, di buttare sul piatto

 

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della  bilancia  un  pugno  di  morti  per  potersi  sedere  al
tavolo dei vincitori, dichiarò guerra alla Francia.
     Gli Alpini cercarono di valicare le Alpi, in verità con scarso successo e, per non dimostrarsi da meno di Hitler, invasa  l’Albania,  al  grido  di  dover spezzare  le  reni  alla Grecia,  inviò  un  esercito  d’occupazione  in  quest’ultima nazione  con  l’intento  di  ricostruire  il  vecchio  impero romano.

In  verità  al  lungimirante  Hitler  non  piacque  tanto
l’attacco alla Grecia, considerato da Benito un bocconcino
facile  per  dimostrare  l’italico  valore  a  fronte  di  quello
teutonico. Qualcuno sembra aver riferito che il Cancelliere
tedesco abbia espressamente criticato dicendo: «Ma che ce
ne facciamo della Grecia, povera in canna, per vincere i
nemici della Germania?»

Pare si sia incazzato ancor di più quando fu costretto a
mandare in Grecia un buon numero di soldati tedeschi per
arginare le sconfitte degli Italiani, costretti ad arretrare in
Albania, respinti dai Greci, malamente armati, ma animati
dall’amor di patria e di difesa del loro sacro territorio.

Stalin  cominciò  a  preoccuparsi  dell’intraprendenza  di
Hitler e  dopo  aver invaso  parte  della  Polonia,  decise  di
fronteggiarlo,  attaccando  gli  stati  baltici,  ritenuti  filo-
tedeschi.

L’Inghilterra, messa alle strette, fece capire agli USA il
danno  economico  che  ne  sarebbe  derivato  da  una  sua
definitiva sconfitta e dall’allargamento del potere di Hitler,
che  aveva  osato  infestare  anche  l’Atlantico  con  i  suoi
sommergibili,  pronti  ad affondare i  soccorsi alla  perfida
Albione, che altro non erano se non navi americane.

 

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NUOVI SCENARI

 

Il conflitto che doveva essere una guerra-lampo, si era
via via trasformata da europea a mondiale, poiché contro
l’alleanza italo-tedesca si scagliarono non solo gli USA, la
Russia, anche tutte le nazioni facenti parte dell’entourage
coloniale  francese  e  inglese.  E  i  Giapponesi,  che  non
rimasero a guardare, a Pearl Harbour attaccarono la flotta
americana,  distruggendola  nello  stesso  istante  in  cui  fu
dichiarata la guerra. Insomma l’inferno!

In  questo  nuovo  scenario,  i  coniugi  Nascara,  furono completamente coinvolti. Paolo, sempre più imbevuto di eroico furore, chiese di essere impegnato in zone di prima linea. Forse, sperava di riscattare la sua misera posizione umana con il surrogato di una morte gloriosa.

Fu promosso da Capitano a Maggiore della milizia con
un incarico particolare nell’ambito dell’OVRA. In verità,
il Duce, già a conoscenza del suo dramma e dei rapporti
della di lui moglie Berta con il luogotenente di quel suo
antipatico e infido camerata Italo, pensò bene di inserirlo
nei suoi programmi di precauzionale posizione di difesa
personale.  Conferitagli  la  promozione,  lo  convocò  a
Palazzo Venezia e gli parlò della funzione particolare che
gli veniva assegnata per la difesa dello Stato. Apertamente
gli disse che il regime era minacciato da elementi interni,
non meglio specificati, che remavano contro la grandezza
dell’Italia. Il  suo compito specifico  era di sorvegliare le
forze  marittime  italiane  di  collegamento  con  la  colonia

 

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della Libia, dove non tutti i suoi provvedimenti venivano
rispettati,  compreso  quello  della  mancata  applicazione
delle  leggi  razziali,  approvati  in  conformità  all’alleanza
tedesca. Lì, in Libia operava un uomo che si era rivelato
non del tutto affidabile e si proponeva, quasi apertamente,
come nuovo capo dello stato fascista, di cui solo Lui era il
capo assoluto. Ecco quindi che bisognava tenere gli occhi
aperti ed essere pronti a intervenire a un suo cenno.

Paolo Nascara, che già in cuor suo nutriva una certa avversione per la persona di cui si parlava, per i rapporti a lui  già  noti  della  moglie  in  quel  settore,  annuì  e  dette assicurazione della sua fedeltà incondizionata al Duce, che sedeva altezzosamente dietro la scrivania, dichiarandogli di essere pronto a eseguire ogni suo ordine.

In  cuor  suo,  l’aver  larvatamente  appreso  che  chi  gli
aveva letteralmente rubato la moglie non apparteneva a un
gruppo che godesse la stima del Duce, lo fece ben sperare
di trarre una possibilità di rivincita morale e personale.

Pur avendo accettato la situazione che si era venuta a
creare  con  la  moglie,  la  gelosia  gli  rodeva  l’anima  e
sperava di eliminare in un modo indolore quel suo rivale
occasionale, che già da tempo era in piena attività e non
cessava di continuare. Gli sembrò di capire che bisognava
attendere il momento opportuno per agire e che lui, Paolo
Nascara,  era  stato  designato  dal  Duce  a  risolvere  la
questione  di  particolare  importanza  per  l’Italia,  e  ironia
della sorte anche per sé medesimo.

Fu licenziato dal Duce con un saluto romano in attesa di  disposizioni  dettagliate  sui  compiti  specifici  che  gli sarebbero stati affidati.

 

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LA PERFIDA ALBIONE E IL FUOCO AMICO

 

 

Era il mese di Luglio del 1940. La guerra era scoppiata e l’Italia ne era pienamente coinvolta.

A Paolo Nascara era stato affidato il compito di sorve-
glianza  delle forze marittime del mediterraneo, ricevette direttamente  dall’Ufficio  del  Duce,  l’ordine  di  far abbattere due aerei, di cui non era nota la nazionalità, che si stavano avvicinando in maniera sospetta a Tobruck. Quella località era oggetto di continui raid aerei del Regno Unito, ossia, della perfida Albione.

In quei pressi stazionavano due imbarcazioni da guerra italiane: l’incrociatore San Giorgio e un sottomarino. Tutti e due le unità erano munite di batterie anti-aeree.

Fu  impartito  a  entrambi  l’ordine  di  abbattere  i  due velivoli, non appena si fossero presentati nel loro specchio d’osservazione.

L’ordine  fu  fedelmente  eseguito  e  dei  due  aerei,  uno riuscì  ad  atterrare  indenne  sulla  pista  dell’aeroporto  e l’altro  precipitò  in  fiamme  colpito  da  una  raffica  di mitraglia.  Fu  subito  emesso  il  bollettino  che  due  aerei nemici  avevano  tentato  un  attacco  all’aeroporto  di Tobruck  e  che  di  essi  uno  era  stato  abbattuto  e  l’altro catturato con tutto il suo equipaggio.

Con grande disappunto e imbarazzo fu ammesso dopo
che i due aerei, oggetto del bersaglio della marina italiana,
non erano nemici ma italiani, di ritorno da una missione

 

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contro  una  flottiglia  inglese.  Si  accertò  che  l’aereo
abbattuto era quello di Italo Balbo e che tutto l’equipaggio
era andato perduto. L’aereo in questione era guidato dallo
stesso Italo, il quale non disdegnava di partecipare con il
suo velivolo ad azioni di guerra. La sua irrequietezza gli
era stata fatale. L’altro aereo, che era riuscito ad atterrare,
era quello guidato da Tullio Petronelli, che uscì indenne
dall’attacco di fuoco amico.

L’evento suscitò molto clamore, facendo serpeggiare in
giro  il  sospetto  di  un  complotto  nei  confronti  dell’eroe
morto, subito smentito e giustificato da un fatale errore,
dovuto in parte anche al comportamento dell’eroe dece-
duto, il quale era solito agire senza preventivi avvisi alle
forze armate, scorrazzando a destra e a manca per i cieli,
come se fossero delle comunissime strade.

Dall’inchiesta  promossa  non  fu  possibile  nemmeno
stabilire da quale delle due imbarcazioni fossero partite le
raffiche  micidiali.  Forse  da  entrambi.  Non  restò  che
celebrare e immortalare la grandezza dell’eroe scomparso.

Le  illazioni  sul  ventilato  complotto  furono  tacitate  e come  conseguenza  Paolo  Nascara  fu  silenziosamente rimosso  dall’incarico  e  avviato  ad  altre  attività  militari, lontano da Catania e da sua moglie.

L’amante  di  Berta,  Tullio  Petronelli,  sopravvisse  ma
ben presto fu messo al riparo da ogni considerazione in
proposito.  Egli  confermò  di  non  sapere  quali  accordi
esistessero tra Italo Balbo e il comando militare marittimo
di stanza a Tobruck, pur lasciando capire che il suo capo,
nel suo modo di operare, non badasse tanto alle modalità e
che andava soggetto a impulsi improvvisi e autonomi.

 

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La  sua  testimonianza  avallò  la  tesi  che  l’errore  della
morte  di  Italo  era  da  attribuire  alla  sua  intemperanza  e
mancanza d’intesa con il comando militare marittimo.

Anche Petronelli fu rimosso dal suo incarico e avviato
all’altro  abbastanza  prestigioso  di  Podestà  di  Catania,
lontano  da  incombenze  militari  e  che  intensificarono  i
rapporti con Berta.

Ancor  oggi  sussistono  dubbi,  incertezze,  pareri
discordanti  sulla  drammaticità  di  quei  fatti,  che  ebbero
come esito la scomparsa di uno dei capi fascisti, forse il
più zelante oppositore del Duce che, come si disse, fosse
contrario  all’intervento  dell’Italia  nel  conflitto  a  fianco
della  Germania.  Si  disse  pure  che  propose  al  Gran
consiglio  del  Fascio,  di  cui  faceva  parte,  di  entrare  in
guerra, sì, ma contro la Germania. Qualcuno osò anche di
annullarne i meriti definendo la sua fine come quella di
SCIUPONE L’AFRICANO, satireggiando sulla figura di
Scipione l’Africano, a causa delle sue continue e sontuose
feste in Libia a spese dell’erario italiano.

Per quanto concerne la mancanza di coerenza tra i vari
reparti italiani operanti in guerra, bisogna riconoscere che
vi erano in atto delle discrepanze e dei malintesi, forse non
del  tutto  casuali.  In  proposito,  voglio  citare  un  altro
episodio abbastanza eclatante, come quello della morte di
Italo Balbo, passato sotto silenzio ma che costò all’Italia la
perdita  del  dominio  marittimo  del  Mediterraneo:  la
battaglia di Punta Stilo, presso cui la flotta italiana venne
in contatto con quella inglese.

 

 

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Nell’incalzare  della  battaglia,  da  parte  italiana,  fu
richiesto l’intervento dell’aviazione e quest’ultimo non fu
tempestivo.  Avvenne  che  lo  stormo  degli  aerei  italiani,
anziché  bombardare  solo  la  flotta  inglese,  per  un  fatale
errore,  bombardò  quella  italiana.  Solo  successivamente
individuò  quella  inglese,  quando  ormai  il  carico  delle
bombe si era esaurito. Del fatto non se ne parlò proprio.
Solo dopo, ma molto tempo dopo, venne a galla la verità,
di  cui  non  si  ebbe  alcun  chiarimento  e  l’evento  rimase
avvolto nel mistero di dubbi e di motivi reconditi.

Altro grave episodio di mancanza d’intesa tra i reparti
al  fronte,  avvenne  anche  nella  precedente  guerra  del
1915/18. Mi riferisco alla disfatta di Caporetto. Gli austro-
ungarici  non  sarebbero  riusciti  a  sfondare  la  difesa
italiana,  se  l’artiglieria  italiana,  comandata  da  Badoglio,
avesse  attuato  il  fuoco  di  sbarramento.  Ma  ciò  non
avvenne  per  la  mancanza  d’intesa  con  il  Generale
Cadorna, capo dello stato maggiore dell’esercito.

 

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NELLE MANI DEI TEDESCHI: LA DISFATTA

 

 

Dopo   quel   fatale       1940,   le   fasi   della   guerra precipitarono a sfavore della Germania e dell’Italia, grazie anche  all’intervento  fattivo  delle  truppe  americane  con l’esito che tutti conosciamo.

Paolo  Nascara,  in  seguito  all’evento  di  Tobruck,  fu
dirottato verso altri incarichi. In parole povere fu messo in
ombra.

Bisognava che scomparisse dalla vicenda che lo aveva
visto come anello di congiunzione nell’operazione che si
era risolta con la morte del numero due del Fascio, dovuta
al fuoco amico.

Bisognava  allontanare  del  tutto  il  sospetto  del complotto e convincere l’opinione pubblica del malinteso originato anche dall’operare sconnesso dello stesso Italo, che non aveva segnalato la sua posizione né l'intenzione di atterrare con i suoi due aerei a Tobruck.

Gli onori e le manifestazioni di cordoglio, nei confronti
dell’eroe perduto inondarono l’Italia e furono immensi.
     Si discusse pure sulla questione che l’aereo non guidato da  Italo  riuscì  ad  atterrare,  mentre  l’altro  fu  abbattuto senza colpo ferire e della nomina a Podestà di Catania del Maggiore Petronelli.

Lo  stesso  Nascara  partecipò  al  picchetto  d’onore
celebrativo dei  funerali  di Stato. Anche  gli Inglesi si
presentarono con i loro aerei sul cielo di Tobruck, non per

 

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bombardare il porto ma per lanciare ghirlande di fiori e
volantini inneggianti all’eroismo del grande Italo, che la
volontà  divina  e  gli  eventi  avevano  posto  nel  campo
avverso.

Paolo Nascara, muto come un pesce, accettò di essere
trasferito  da  quel  suo  incarico  ad  altro  nell’ambito
dell’OVRA e accettò anche di buon grado la promozione a
colonnello.

Era del tutto calato il silenzio sull’episodio di Tobruck
anche  per  l’incalzare  dei  nuovi  fatti.  Ormai  la  bilancia
degli  eventi  pendeva  dalla  parte  avversa  alle  speranze
italo-tedesche.  L’Italia  era  continuamente  soggetta  ai
bombardamenti americani, e quando ormai la situazione
era diventata critica, il Gran consiglio del fascismo, sotto
l’azione  del  conte  Ciano,  genero  di  Mussolini,  mise  in
minoranza  il  Duce,  che  fu  costretto  a  presentare  le  sue
dimissioni a Vittorio Emanuele III.

Il Duce si recò al Quirinale, rendendo edotto il Re di non poter più esercitare la sua autorità nel Gran Consiglio, e chiese di designare il successore al suo governo.

All’uscita dalla sala delle udienze ebbe la sorpresa di essere accolto da una pattuglia di carabinieri che lo arrestò in nome di sua maestà Re e Imperatore.

Mussolini, pur con tutti i riguardi dovuti, fu privato non solo  del  potere,  ma  anche  della  libertà  e  spedito  sotto scorta nella fortezza-prigione del Gran Sasso.

Il Re affidò la reggenza del nuovo Governo a Badoglio, con il preciso compito di trattare l’armistizio con le forze alleate, le quali avevano già invaso la Sicilia.

 

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Venne  firmato  l’armistizio  di  Cassibile  e fu diramato
l’ambiguo  proclama  che  la  guerra  continuava.  Cosa,
quest’ultima, che mise in imbarazzo le truppe italiane, le
quali,  prese  alla  sprovvista  si  videro  aggredite  dagli  ex
alleati.

Il  Duce  fu  liberato  con  un  raid  aereo  dalle  forze
tedesche, che lo rimisero a capo del Gran Consiglio e fu la
fine  dei  vari  Ciano,  de  Bono  e  altri  gerarchi  dissidenti,
fucilati  alla  schiena  come  traditori  della  Patria,  dopo  il
processo-burla di Verona. Fu lo scoppio della guerra civile
in  Italia  e  dell’invasione  tedesca  dell’Italia  in  appoggio
alle forze fasciste.

A Mussolini, ormai nelle mani dei tedeschi, che lo
usarono  come  un  burattino,  non  restò  che  fondare  la
Repubblica Sociale di Salò. Nel mentre, sotto la spinta
partigiana, le città italiane si ribellavano al Fascismo e ai
tedeschi,  il  Re  Vittorio  Emanuele  III,  per  non  cadere
prigioniero  degli  alleati  fuggi  verso  Brindisi,  per  poi
andare in esilio in Egitto, abdicando troppo tardi in favore
del figlio Umberto II, che passò alla storia come il Re di
maggio.

Per completare lo scenario di sfacelo delle forze italo-
tedesche,  bisogna  anche  dire  che  l’Etiopia  venne  persa insieme alla precedente colonia somala.

Nonostante  l’intervento  di  Rommel,  gli  Inglesi  del Generale  Montgomery  riuscirono  a  sconfiggere,  grazie alle  loro  truppe   corazzate,   gli   italo-tedeschi,   che lasciarono l’Africa per non tornarvi mai più.

In tutto questo disastroso scenario il Nascara, fedele al
suo Duce e ai dettami del suo Governo, ormai soggiogato

 

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alla  volontà  della  pazzia  galoppante  e  megalomane  di
Hitler,  aderì  alla  Repubblica  di  Salò  e  in  veste  di
colonnello dell’esercito repubblichino fu catturato, per sua
fortuna,  non  dai  partigiani,  che  all’istante  lo  avrebbero
fucilato,  come  avvenne  poi  per  Benito,  ma  dalle  truppe
americane.

La sua cattura avvenne a Vercelli, dopo un conflitto a
fuoco con i marines. Ormai lacero, privo di munizioni e
impossibilitato  a  difendersi,  fu  braccato  nelle  risaie  del
vercellese. Preso dalla pattuglia che lo cercava insieme al
suo  luogotenente  che  perì  nell’atto  di  fuggire,  fu
imbarcato  e  inviato,  per  sua  fortuna,  in  America,  sotto
stretta sorveglianza.

Al  momento  della  cattura,  non  rinnegò  il  suo  credo fascista,  ritenendosi  un  eroe.  Se  lo  avesse  fatto,  conse-
gnandosi spontaneamente alle  forze  alleate, non sarebbe stato sicuramente deportato.

Paolo  Nascara  dichiarò  il  suo  grado,  la  sua  fede  nel
Duce  e  si  dichiarò  prigioniero  di  guerra.  Per  questo  fu
impacchettato e insieme con gli altri irriducibili camerati
fu inviato in America in attesa di processo per crimini di
guerra.

Finiva  così  l’avventura  militare  del  giovane  fascista, iniziata  con  la  dissennata  marcia  su  Roma  e  conclusasi con  l’arresto  e  la  deportazione  con  l’accusa  di  sospetta attività criminale di guerra.

 

 

 

 

 

 

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LA VITA CONTINUA

 

Berta, nel fulgore della sua vita, aveva raggiunto una
posizione che non tutte le donne italiane di allora erano in
grado di ottenere. Moglie onorata e fedele (in apparenza)
di  un  eroe  nazionale,  stimato  dal  Duce,  intima  (e  pure
invidiata) amante di un uomo molto vicino a quell’Italo,
considerato il numero due del fascismo, madre di tre figli,
rispettata  signora  dell'alta  società  del  tempo  e  stella
nascente del Fascismo in chiave femminile, grazie alla sua
avvenenza e al suo modo di fare, aveva cercato di inserirsi
sempre ancor di più nei gangli della vita cittadina, allac-
ciando rapporti d’amicizia con le più eminenti personalità.

Partecipava a tutte le manifestazioni cittadine. Curava
le  attività  di  carità  sociale  e  anche  quelle  artistiche  e
sportive. Era del tutto soddisfatta. Ormai la sua principale
preoccupazione era di curare l’educazione dei figli.

Con  molta  arguzia,  quasi  prevenendo  il  burrascoso futuro  che  si  addensava  all’orizzonte,  spostò  le  sue attenzioni dal partito verso la Chiesa Cattolica.

Era diventata madrina di opere di carità promosse da
Pio XII e non omise di frequentare le messe domenicali.
Affidò l’istruzione delle sue due figlie femmine alle suore,
distogliendole  dalle  attività  fasciste  alle  quali  era  stata
educata, ritenendo l’educazione cattolica più appagante.

Era il caso di una conversione? Non proprio. Lei era
stata e continuava a essere cattolica, anche se era cresciuta
nello spirito patriottico fascista, a cui era stata aggregata,

 

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grazie  ai  concorsi  e  alle  attività  promosse  dal  PNF nell’ambito  delle  scuole.  Poi  l’attività  ginnica  l’aveva affascinata  non  poco,  dandole  quel  clima  di  libertà  e liberazione dei tabù che l’avevano condizionata.

Sostanzialmente a Berta non piaceva tanto il clima che si era venuto a creare in ambito internazionale. Da donna intelligente qual era, capì ben presto che lo stato attuale delle  cose  non  poteva  durare  a  lungo  e  che  ben  presto sarebbe avvenuto il crollo.

Difatti  aveva cominciato a dubitare  e non poco  delle
iniziative del Duce nell’ambito internazionale. Non era più
tanto  sicura  della  stabilità  di  quella  roboante  situazione
che si era venuta a creare; a lume di naso si rese conto che
non bisognava trascurare l’amicizia di chi non approvava
l’operato del Duce.

Qualcosa presto sarebbe cambiata, e ne ebbe la piena
certezza il giorno in cui Italo Balbo fu abbattuto dalla
contraerea italiana, di cui intuì le motivazioni dai discorsi
del marito. Più ascoltava le farneticanti parole di Paolo,
più si convinceva di vivere in un clima pronto a scoppiare
da un momento all’altro.

I fatti le dettero ragione e le nuove relazioni allacciate con  ambienti  lontani  del  partito  e  più  vicine  al  mondo cattolico le tornarono utili con la fine della guerra.

Sta  di  fatto  che  cessata  la  bufera  con  la  sconfitta
definitiva del fascismo, nel nuovo contesto sociale, grazie
a queste sue conoscenze e amicizie nell’ambito clericale,
pesò poco il suo passato di fascista convinta ed ebbe modo
di mettere la sua professionalità a disposizione del nuovo

 

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corso, grazie anche alle sue capacità organizzative.

Di non poco conto fu il suo sostegno alla causa ebrea.
     Di lei si ricordò dell'opera, prestata nel salvataggio di un gruppo di bambini ebrei, sottratti alla deportazione con l’intervento delle monache del convento delle carmelitane.
     Durante un rastrellamento, avvenuto nel ghetto romano degli  ebrei,  da  parte  dei  tedeschi  e  anche  dei  fascisti italiani,  avviati  poi  ai  vari  campi  di  concentramento  in Germania e in Polonia, Berta ebbe l’intuito di salvare gli alunni ebrei di una scolaresca, facendoli passare per figli d’italiani.   Di   loro   se   ne   occupò   personalmente nascondendoli poi nel convento delle carmelitane.
     Grazie  a  questi  suoi  trascorsi  e  alle  sue  capacità  di esperta contabile, fu incaricata come consulente del Banco di  Sicilia,  con  il  successivo  incarico  di  direttrice  di un’Agenzia.

Quindi non conversione la sua, ma versatilità al nuovo
corso. Non fanatismo né tradimento ma adeguamento alla
nuova  realtà  e  intuito  di  salvare  la  propria  famiglia  dal
disastro.  Forse  era  stata  anche  pietà  per  chi  si  trovava
nella sofferenza, desiderio di umanità e quant’altro. Tutto
sommato, anche se di fede fascista, non era cattiva e non
tutto  approvava  del  fascismo.  Molto  della  fede  in  lei,
inculcata dalla madre, era rimasta latente ed era emersa al
momento opportuno per salvare lei e la sua famiglia dal
disastro. In lei si era verificato quanto era avvenuto nella
coscienza  della  maggior  parte  degli  Italiani.  Tutte  cose
certamente non percepite dal marito, immerso del tutto
nel  tessuto  del  passato  regime,  cui  aveva  dato  tutto  se
stesso, le sue palle, il suo onore, la sua libertà con la cecità

 

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del fanatismo assoluto.

Infatti, Paolo Nascara, non fece nessun passò indietro rispetto al suo passato. Anzi continuò a fare passi verso quel baratro che gli si parava davanti, bevendo fino alla fine il suo amaro calice.

Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta,  come molti altri italiani, ebbe modo di riciclarsi alla luce delle nuove vicissitudini.  Con  l’incalzare  degli  eventi  capì  che  l’era gloriosa  fascista  stava  per  finire  e  che  era  necessario rinnovarsi nelle nuove pieghe sociali.

In effetti molte cose già da tempo non erano accettate e
condivise da lei di quel regime. Quella faccenda, poi, delle
leggi razziali, proprio non l’aveva gradita. Pensava pure
che quella maledetta guerra avrebbe potuto anche essere
evitata  e  che  sarebbe  stato  un  bene  lasciare  in  pace
quell’Etiopia, che le aveva procurato tanto danno. Capì in
anticipo che la posizione da lei raggiunta poteva crollare
improvvisamente  con  la  caduta  del  fascismo.  Per  questi
motivi  pensò  bene  di  allontanarsi  alla  chetichella  dagli
ambienti del PNF. Intensificò le sue opere di carità sociale
e si avvicinò più di quanto avesse fatto in passato alle
iniziative  cattoliche.  Ancor  prima  che  scoppiasse  il
dramma finale si era allontanata dal mondo in cui il marito
continuava imperterrito a sguazzare. Si era arroccata nella
sua  nuova  attività  d’impiegata  di  Banca,  prendendo  le
distanze  dal  marito,  di  cui  più  nulla  sapeva  se  non
solamente che era stato deportato in America, insieme ad
altri fascisti ritenuti pericolosi.

 

 

 

 

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IL RITORNO DI PAOLO

 

 

Che fine aveva fatto il marito, Paolo Nascara, cui era
ancora legata dal vincolo del matrimonio?
     Berta  non  aveva  più  saputo nulla  né  le  importava sapere. Molta acqua era passata sotto i ponti dal giorno in cui  si  erano  conosciuti.  C’era  stata  poi  la  parentesi piacevole con quel Tullio, camerata di Italo Balbo e padre di  Titti  e  Vittorio  Emanuele.  Scomparso  anche  lui  nel vortice  degli  eventi.  Aveva  solamente  saputo  che  era fuggito in Argentina, grazie ai maneggi internazionali con il  regime  di  Peron.  Nella  sua  vita  sentimentale  qualche altra piccola avventura si era aggiunta a quella naufragata nel nulla, assieme al castello di regime.

Nulla d’importante e degno di essere ricordato e messo in conto. Aveva ormai raggiunto uno stato di autonomia che non a tutte le donne era concessa e l’abbandonarsi a qualche  piccola  e  piacevole  distrazione  la  rendeva  più forte, battagliera e umana.

Finita  la  guerra,  la  vita  in  Italia  si  avviava  verso  la
normalizzazione e il fervido operare per ricostruire quanto
era  stato  distrutto,  la  rendeva  più  forte  e  sicura.  Non
appena  fu  pronta  prelevò  dal  collegio  di  suore  le  due
figlie,  ormai  grandicelle,  e  cercò  di  dare  loro  una
sistemazione per la vita. Il piccolo, lo aveva tenuto sempre
presso di se, curandone personalmente l’educazione.

 

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Ma ecco arrivare il fulmine a ciel sereno!

Fu durante un pomeriggio del 1950, che a casa si vide
presentare il marito dimenticato. Non pensava proprio di
doverlo  rivedere.  Restò  sorpresa  ma  lo  accolse  con
familiarità.  Del  resto  che  poteva  fare?  Era  sempre  suo
marito, anche se ormai estraneo alla sua vita. Tra Etiopia,
Repubblica Sociale e deportazione in America, era ormai
un  estraneo  nella  sua  vita  e  in  un  certo  senso  ne  era
contenta. Avrebbe fatto bene a non presentarsi a casa! Ma,
tutto  sommato,  lo  aveva  amato  e  in  ogni  caso  la  sua
presenza avrebbe dato la parvenza di vita normale alla sua
famiglia. Ricordava benissimo la situazione dell’uomo e
della sua castrazione, ma ormai si trattava di un problema
già  superato  da  tempo  e  tanto  valeva  fare  buon  viso  a
cattivo gioco.

Il  povero  Paolo  era  finito  in  uno  sperduto  campo  di
concentramento  americano.  Trattenuto  insieme  con  altri
fascisti italiani in stato di prigionia militare, fu sottoposto
a giudizio penale da una giuria per presunti crimini di
guerra. Nelle more del giudizio, fu costretto a lavorare per
vivere, come previsto dalla normativa americana.

Il carcere non fu certamente una esperienza piacevole.
Per sua fortuna non emersero a suo carico casi particolari
di  crimini  da  lui  compiuti  o  altri  delitti  a  cui  avesse
partecipato durante la guerra. L’unico suo neo era quello
di aver militato in guerra in qualità di fascista irriducibile.
Pertanto, dopo un congruo periodo di detenzione, grazie
anche  ai  rapporti  instaurati  tra  l’Italia  e  gli  USA e  agli
accordi  di  restituzione dei  prigionieri, fu  reimbarcato  su
un  aereo  e  restituito  libero  all’autorità  italiana,  che  lo

 

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considerò un reduce di guerra. Era stata appunto varata in
Italia una legge che non distingueva tra buoni e cattivi, tra
fascisti e partigiani e che considerava tutti i partecipanti
alla guerra trascorsa a qualunque fazione militata, reduci
di guerra. Era quello un segno di pace tra gli italiani per
chiudere  quel  burrascoso  periodo,  dopo  l’eliminazione
fisica dei gerarchi che erano stati fucilati dai partigiani e
appesi in testa in giù a piazzale Loreto a Milano.

Alla commozione e alla gioia di riabbracciare moglie e figli,  ben  presto  subentrarono  un’apatia  e  un  senso  di disagio mai provato prima.

Il periodo di prigionia lo aveva del tutto distrutto. Si sentiva come precipitato in un mondo perduto. Non si raccapezzava più della realtà in cui era costretto a vivere. Tutto  era  cambiato  da  quando  indossava  l’orbace  e  la gente  lo  salutava  romanamente  con  rispetto.  La  milizia, oltre al Duce, non esisteva più.

Messo in congedo illimitato come semplice reduce di
guerra, nulla gli era rimasto di quanto prima ottenuto con
il  suo  servizio  alla  patria,  anzi  era  costretto  a  non
mostrarlo per il quieto vivere. L’unica sua incombenza era
di  trovarsi  un  lavoro  per  sbarcare  il  lunario.  Ma  quale
lavoro?  Egli  nella  sua  vita  non  aveva  fatto  altro  che
obbedire ai suoi superiori e comandare ai suoi subalterni.
Non si era mai curato di intraprendere un mestiere e ormai
era  troppo  tardi  per  cominciare  un’attività  redditizia  di
qualunque tipo. Inoltre lo stato di depressione era tale che
non aveva intenzione di fare alcunché.

Si limitò a fare il principe consorte, anche se per farlo
non  aveva  più  gli  attributi.  Più  che  principe  consorte,

 

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senza un lavoro, senza arte ne parte, diventò piuttosto il lacchè  della  moglie  che  lo  comandava  a  bacchetta  e  lo impiegava a badare alle faccende domestiche. In più era ritornato  con  una  grave  affezione  ai  polmoni  che  gli rendeva difficile anche respirare.

Deluso, malato, insoddisfatto e privo di ogni velleità,
sopravvisse appena un anno dal suo ritorno in Italia.
     Un mattino del 1951 fu trovato morto stecchito nel letto in cui dormiva ormai separato in casa dalla moglie.
     Berta non sopportava più di averlo accanto la notte.
     Ufficialmente era il marito, il padre dei suoi figli, ma in casa  era  diverso.  Ognuno  viveva  per  i  fatti  suoi  senza dover dar conto del proprio operato.

I funerali avvennero in modo del tutto privato, senza
particolare rilevanza. Sulla bara, oltre al cesto di fiori di
rito,  nulla  vi  era  a ricordare  i  suoi  lontani  fasti,  se non
qualche  lacrima  delle  due  figlie.  Il  maschio,  ancora
ragazzino, quasi per istinto, non lo accettò mai come padre
e la sua morte lo lasciò completamente indifferente.

Figura  emblematica,  quella  di  Paolo  Nascara,  che
rappresenta l’ideale dell’amor di patria soverchiato dalla
sconfitta e dal crollo del suo “credo” politico, ma che però
accetta  senza  alcuna  remora  uno  stato  di  fatti  e
avvenimenti  da  condannare  perché  basati  non  sul  bene
comune  della  nazione,  ma  sul  fanatico  egoismo  di  un
singolo uomo, illuso di essere al di sopra di tutto e di tutti.
Se è da ammirare la sua fedeltà al giuramento prestato alla
patria,  non  è  certo  da  lodare  per  la  cecità,  che  rasenta
l’auto-annullamento della personalità umana.

 

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LA VEDOVANZA DI BERTA

 

Un  nuovo  capitolo  si  apriva  nella  vita  della  nostra eroina,  divenuta  vedova  sconsolata  in  apparenza,  ma libera del tutto di fare i suoi comodi e di soddisfare senza alcun freno la propria libertà in tutti i campi.

Nel suo ambiente era conosciuta e stimata per la sua
disponibilità a dialogare con il personale e anche con la
clientela.

Nonostante gli anni avanzati, sentiva ancora gli stimoli
della carne e pur con molta discrezione aveva un amico
fisso con il quale di tanto in tanto passava qualche serata
in compagnia.

Nulla di travolgente come ai tempi di Paolo e di Tullio. Una  relazione  amichevole,  di  reciproca  compagnia  in alcune ore libere da impegni di tutta la settimana.

Subito dopo la fine della guerra, grazie all’impulso dato
dal governo di allora per la ricostruzione, era facile potere
accedere  a  prestiti  bancari  per  dare  inizio  a  imprese  e
iniziative atte a far ripartire l’economia. La concessione di
tali prestiti era, per lo più affidata all’acume del Direttore
dell’Agenzia bancaria.

Berta, in materia di conoscenza e acume aveva il pregio o la fortuna di concedere prestiti a persone che riuscivano sempre  a tener fede  agli  impegni  assunti.  Per questo motivo era molto stimata nell’ambito del Banco di Sicilia per il suo contributo produttivo.

Rischiando  molto,  concedeva  prestiti  a  imprese  edili,

 

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che a garanzia esibivano pacchi di cambiali di clienti, per la  riscossione  delle  quali  se  ne  faceva  carico,  tramite l’organizzazione bancaria.

Non le andò mai buca!

Le  imprese  costruivano,  vendevano  case  di  nuova costruzione, accettando in pagamento la sottoscrizione di un certo numero di cambiali a cadenze stabilite e la Banca riusciva a realizzare dei profitti cospicui.

Al tempo, nonostante gli aiuti dell’America, circolava poco denaro liquido, ma la cambiale si assunse l’onere di sostituirlo egregiamente.

Nonostante le stima acquisita e la bravura dimostrata
nel suo ruolo, tuttavia le malelingue dicevano di lei che la
sua  carriera  fosse  anche  frutto  dell’amicizia  non  certo
fraterna  con  un  personaggio  della  politica  nazionale  il
quale, in un modo o nell’altro, anche se non in maniera
molto latente, un certo rapporto aveva avuto con il passato
regime.

Subito  dopo  la  proclamazione  della  Repubblica
Italiana, seguita al Referendum in proposito, vinto con uno
scarto   minimo   del   nuovo   assetto  statale  italiano,
nonostante il partito fascista fosse stato proclamato fuori
legge,  tuttavia  alcuni  nostalgici  del  passato  regime
riuscirono  a  riciclarsi  politicamente  militando  nei  nuovi
partiti.

 

Si chiacchierava molto su Berta di Savoiano in Nascara
e sulla sua rapida carriera in Banca rispetto ad altri più
anziani di lei. Si mormorava che il ragioniere Mancuso,
molto  più  anziano di  lei,  fu costretto a dimettersi  ancor

 

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prima di aver raggiunto i limiti per andare in pensione e che  il  giovane  ragioniere  Viscuso  fu  trasferito  in  un piccolo centro dell’Ennese, per un incarico per cui erano necessari i suoi meriti e le sue prerogative.

A parte di ogni particolare considerazione, la questione
che fosse lei donna tra dipendenti quasi tutti maschi, per di
più vedova, e che mostrava una certa avvenenza non del
tutto spenta, era certamente d’impulso alle dicerie.

A ogni buon conto mai nulla emerse di scandaloso o di
riprovevole in lei, che mostrava sempre un cipiglio altero
e padrone di sé, ereditato dalla sua militanza nell’ex PNF.
Ma una considerazione va fatta. Pur essendo scomparso il
vecchio regime, sostituito dal nuovo corso, continuava a
persistere il vecchio sistema delle raccomandazioni, più o
meno evidenti di sempre.

Già! Quel sistema che aveva contribuito a far perdere gli  attributi  in  Etiopia  a  Paolo  e  che  adesso  a  lei permetteva di fare carriera.

L’altra  considerazione  anch’essa  amara  è  che  non
poche  donne  riuscivano  a  imporsi  sia  nel  lavoro  sia  in
società grazie alla meritocrazia, ma anche alla concessione
della loro intimità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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MAFALDA

 

Mafalda era la prima delle figlie di Berta, il cui padre
naturale  era  Paolo.  La  ragazza  fin  dall’età  scolare  fu
affidata alla cura delle suore insieme alla sorella Titti. Gli
impegni della madre non consentivano che frequentassero
le  scuole statali. Tale frequenza  la esonerava da tutte  le
altre incombenze di madre, e non solo questo. Lei credeva
che le suore fossero le persone più adatte a dare alle sue
figliole una perfetta educazione.

Aveva  un  bel  dire  il  Duce  a  sostenere  che  la  scuola
pubblica statale fosse migliore di quella privata cattolica.
In quest’ultima non s’insegnava solo a essere delle ottime
cittadine,  ma  s’inculcavano  principi  di  umanità  e  amore
ignorati dal regime.

Mafalda, che non a caso aveva questo nome perché una
delle  principesse  figlie  di  Vittorio  Emanuele  III  si
chiamava  così,  era  venuta  su  molto  bene.  Una  vera
principessa! Anche il nome, opportunamente scelto, le si
addiceva. Peccato quel brutto cognome popolare Nascara.
Sarebbe stato più bello Mafalda di Savoiano. Quel pizzico
di  nobiltà  lontana  era  una  delle  fisse  di  Berta,  che  non
perdeva  mai  occasione  di  ricordare  alla  figlia  di  essere
lontana  cugina  di  quell’altra  Mafalda  di  Savoia,  quella
morta martire in un campo di concentramento, prigioniera
dei tedeschi e che nelle sue vene scorreva sangue reale.

In  verità  non  correva  un  buon  rapporto  tra  madre  e
figlia.  A parte  la  poca  frequenza,  avevano  un  carattere

 

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differente,  accentuato  dal  modo  diverso  di  concepire  la
vita.  Molto  attiva  Berta,  irruente  e  padrona  di  sé,  più
pacata  e  sognatrice  Mafalda,  che  si  scopriva  spesso  a
immaginare un mondo diverso da ciò che lo circondava,
popolato  da  principi  azzurri,  favolose  storie  e  fiumi  di
serenità dove le notizie di guerra e i discorsi di eroiche
vicende non trovavano posto.

Lei era una sognatrice e vedeva tutto colorato di rosa
come nelle fiabe. Aveva una venerazione per il padre che
conosceva pochissimo e lo immaginava, armato di corazza
e lancia, scorrazzare per i campi di battaglia con lo
stendardo del tricolore, cavalcando un cavallo bianco.

La  sua  costante  lontananza  a  causa  del  suo  ideale
politico,  glielo  faceva  identificare  con  quel  San  Giorgio
dipinto  nel  muro  dell’oratorio  del  convento  nell’atto  di
uccidere  il  drago.  Quando  lo  conobbe,  reduce  dalla
prigionia in America, stanco e ammalato ne ebbe pietà, ma
anche una grande delusione. Tuttavia non le fece mancare
il suo affetto e gli restò accanto fino alla morte.

Del  resto,  lei  apprese  dalle  suore  tutto  quanto  era
necessario per la sua futura vita di donna morigerata nel
mondo,  oltre  alla  sensibilità  affettiva  nei  confronti  del
prossimo e dei propri genitori. Poco conosceva della vita
piuttosto avventurosa e libertina della madre. Si sentiva di
essere  una  donna  virtuosa,  ricca  di  sentimenti,  pronta  a
dare ai suoi futuri figli quegli affetti, materni, che sentiva
essere  a  lei  mancati  nella  sua  lunga  permanenza  in
collegio.  La  sua  aspirazione  era  di  sposarsi,  amare  un
uomo e avere una famiglia sua, dove regnasse l’armonia e
la serenità, soprattutto non si parlasse di guerra, di bombe,

 

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di  sirene  d’allarmi  e  di  paurose  invasioni  nemiche.  La
mancanza del padre, sempre lontano da lei, a combattere
per i suoi ideali, se da un punto di vista umano rendeva
l’uomo  eroico  e  degno  di  stima,  dall’altra  lo  privava  di
umanità filiale. La sua vita, durante la guerra, non era stata
facile in collegio e ciò aveva maggiormente forgiato il suo
carattere e il suo desiderio di serenità in tutti i modi.

 

 

 

 

 

 

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IL FIDANZAMENTO

 

Berta ritiratasi a casa, dopo una giornata di duro lavoro
in  banca,  tra  analisi  di  conti,  revisioni  di  capitolati  e  le
discussioni  che  non  mancavano  mai,  fu  raggiunta  dalla
voce di Mafalda, la prima figlia, che dopo aver lasciato il
collegio  viveva  con  lei.  Questa  volta  il  tono  le  sembrò
diverso dal solito. Non mancava mai di dialogare con le
sue  figlie,  anche  se di  sfuggita,  ma  questa  volta  si  rese
conto che c'era qualcosa di nuovo nel suo atteggiamento.

«Mamma ti debbo parlare» disse Mafalda con fare  po’ impacciato.

«Che cosa c’è».

«Ho conosciuto un ragazzo, che mi fa la corte e... mi sono accorta di volergli bene» aggiunse.

Mafalda non era stata del tutto sincera, poiché con quel ragazzo amoreggiava già da tempo, ma non sapeva come dirglielo. Erano ancora gli anni in cui le ragazze non tanto facilmente  accettavano  di  uscire  con  un  coetaneo,  e l’averlo fatto, li faceva sentire in colpa.

«Ho capito» rispose Berta, che ormai aveva una certa
esperienza in materia. «Dimmi almeno chi è. Poi ti dirò se
potrai frequentarlo o no» aggiunse con tono accomodante.

«Si  chiamava  Giovanni.  Questo  ragazzo  mi  è  molto
caro  e  quando  lo  conoscerai  te  ne  renderai  conto  tu
stessa».

«Vedremo» rispose Berta, abituata a toccare con mani la realtà e a dare dopo un giudizio sul da farsi.

 

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Quel “vedremo” fece capire alla figlia che si sarebbe informata sul conto del suo fidanzato.

Mafalda lo aveva conosciuto durante una festicciola di ballo che si era svolta a casa di un'amica.

In quegli anni i giovani organizzavano le festa il sabato
sera a turno a casa di loro e si ballava con la musica
passata  su  un  giradischi.  In  questo  modo  si  aveva  la
possibilità  di  fare  conoscenze  e  intavolare  anche  dei
rapporti amorosi, che talvolta sfociavano in fidanzamenti e
conseguenti matrimoni.

Mafalda aveva appena sedici anni, un’età critica per le
ragazze, alquanto disposte a essere corteggiate e a essere
abbindolate da chi mostra loro delle attenzioni particolari.

Giovanni, un ragazzo sui venticinque anni, simpatico, dai modi gentili, dagli occhi espressivi e dal cravattino a farfalla sulla camicia bianca, l’aveva invitata a ballare una prima volta, poi una seconda e una terza…

Il  sabato  successivo  la  accolse  con  un  sorriso  che
diceva  tutto,  la  invitò  a  ballare  e  tutta  la  serata,  non  la
lasciò libera. Parlava, parlava e lei ascoltava come in un
sogno. Al terzo sabato la invitò a una passeggiata alla villa
Bellini. Lei accettò.

Fu il primo bacio, almeno per lei. Fu così che si erano conosciuti  e  amati  e  fu  proprio  lui  a  dirgli  di  volerla sposare. Per questo ne aveva parlato alla madre.

Passati alcuni giorni, la brutta sorpresa per Mafalda fu
la sua voce imperiosa a dirle espressamente di piantarlo
poiché non era adatto a lei. «Devi sapere che costui non ha
né arte né parte. È uno spiantato. Non solo. Spacciandosi
per nipote  di  Giovanni  Verga,  ha  architettato  anche  una

 

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truffa nei confronti di una gioielleria, beccandosi due anni di reclusione con la condizionale. Ha frequentato l’Istituto Tecnico  Gemmellaro  senza  riuscire  a  conseguire  il diploma di ragioniere. Non se ne deve parlare per niente! Ti proibisco di frequentarlo. Costui è capace di rovinarti l’esistenza e di complicarci la vita, che è già abbastanza difficile. Niente. Dico niente, figlia mia».

Le  parole  di  Berta  non  convinsero  la  figliola  che  si sciolse in lacrime. Era innamorata e non aveva nessuna voglia di abbandonare l'uomo dei suoi sogni.

 

Durano per qualche gli scontri che si erano instaurati
tra  madre  e  figlia.  Era  una  vera  guerra,  fatta  di  pianto,
sorrisi, promesse, minacce e quanto possa accadere tra una
figlia innamorata e una madre sinceramente preoccupata
per il suo avvenire.

Alla fine, a cedere le armi non fu la figlia ma la madre.
Berta permise alla sua figliola di fidanzarsi ufficialmente
con quel  suo  pretendente,  nella  speranza  che  la  vicenda
avrebbe avuto l’epilogo da lei sperato, a condizione che
continuasse gli studi e conseguisse il diploma magistrale.

«Va  bene»  disse  infine  «di’ a  quel  bell’imbusto  di venire a casa che gli voglio parlare».

Giovanni si presentò, asciutto e sorridente, con un bel
mazzo di rose rosse per la fidanzata e un presente per la
futura suocera, che non omise di chiamare mamma, con
tono accattivante. Disse che purtroppo non era in grado di
far conoscere i suoi genitori perché ormai nel mondo dei
più e chiarì subito che le intenzioni per sua figlia erano
“serie”.

 

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Giovanni non sapeva che proprio quella “serietà” non
piaceva alla madre la quale, senza mezzi termini e con una
certa alterigia, gli fece capire che lei sarebbe stata sempre
vigile sulla vita della figliuola, alla quale nulla negava. Per
questo motivo da Lui, come suocera, pretendeva non solo
l’amore per la sua figliola, sua futura sposa, ma anche la
promessa che l’avrebbe resa felice, soprattutto con il suo
comportamento. Gli disse chiaramente che avrebbe accon-
sentito al matrimonio a condizioni che lui riprendesse gli
studi  interrotti  e  si  diplomasse  da  ragioniere  e  gli  fece
intendere che a sistemarlo in Banca avrebbe provveduto
lei.

Giovanni promise e cercò anche di mantenere. Fu un fidanzato  perfetto.  Alternando  la  sua  attività  lavorativa saltuaria di commesso presso un negozio di stoffe, e i libri, cercò di riprendere gli studi interrotti.

La suocera intervenne anche economicamente, pagando profumatamente le lezioni per la preparazione agli esami.
     Giovanni fece la richiesta di presentarsi da esterno per conseguire il diploma di ragioniere.

Alla  sua  preparazione  aveva  provveduto  un  istituto
privato, che millantava di far recuperare gli anni perduti,
ma si capì subito che l’impresa sarebbe stata proibitiva,
nonostante  l’impegno  economico  affrontato  dalla  futura
suocera.  Lo  capì  benissimo  Berta,  molto  vigile  in
proposito, che scoprì di avere tra i suoi clienti il presidente
della commissione di esami del futuro genero.

Lo andò a trovare, e correndo con il professore un certo rapporto di amicizia, gli parlò del suo problema di madre e di futura suocera.

 

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«Carissimo  professore,  vengo  da  lei  con  il  cuore  in
mano.  Lei  mi  conosce  e  sa  benissimo  che  mai  le  avrei
chiesto un favore. Ma questo caso non riguarda me. Vengo
a raccomandarmi per una persona, che per quanto mi
riguarda avrei preferito non aver mai tra i piedi. Purtroppo
mia figlia, che è la luce dei miei occhi, ha deciso di legarsi
a lui e non posso che fare buon viso a cattivo gioco. Lui si
sta  presentando  da  esterno  per  conseguire  il  diploma  di
ragioniere. So che non lo merita perché ha preso sempre
sottobanco  la  scuola.  Spero  che  in  questo  modo,  possa
mettere la testa a partito e che non faccia soffrire la mia
diletta figlia».

Il  caro  professore  fu  buono,  anche  perché  una  mano lava l’altra e nella vita non si può mai sapere.
     Giovanni  diventò  ragioniere,  aspirante  a  un  posto  di prestigio  in  banca  o  in  qualche  altro  ramo  dell’attività commerciale e non solo.

Berta riuscì a farlo assumere al Banco di Sicilia, ma non nella sua Agenzia, per carità!

Fu così che il fantomatico nipote del famoso Giovanni
Verga,  mise  da  parte  questa  sua  millantata  parentela  e
decise  di  mettere  la  testa  a  posto.  Aveva  una  fidanzata
giovane che lo adorava, una suocera che lo proteggeva più
che sua madre morta da tempo, un posto di tutto rispetto e
la possibilità di far carriera.

 

 

 

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GIOVANNI

 

Quel  vezzo  del  tutto  vecchio  delle  raccomandazioni, che non erano certo motivi di meritocrazia, ma che sempre utili sono, lo aveva favorito; sarebbe stato da stupidi non trarre vantaggio da quella situazione.

Il padre, un modesto contadino, aveva cercato in tutti i
modi  di  far  studiare  il  figlio.  Fu  così  che  Giovanni  era
passato dal mondo rurale alla scoperta di un mondo molto
al di sopra del suo stato, che lo aveva spinto solamente ad
“apparire”, senza curarsi di avere una formazione culturale
solida capace di affrontare le avversità della vita.

In  questa  sua  corsa  verso  un  mondo  fatuo  lo  aveva
spinto anche la morte della madre. Per questo cumulo di
motivi connessi alla sua situazione, già grandicello, si era
trovato a dover vivere di espedienti pur di tirare avanti. La
truffa, il guadagno illecito, il gioco e quanto la società in
espansione offriva, gli consentivano di andare avanti e
tenere  un  tenore  di  vita  improntato  al  benessere.  Era
chiaro che il suo non era benessere, ma il modo di poter
restare a galla.

Adesso  tutto  questo  era  stato  superato  e  poteva  dire
d’avere raggiunto una posizione di tutto rispetto.
     In  verità,  per quanto la  ragazza  gli piacesse, non  era stato  il  sentimento  a  spingerlo  al  matrimonio,  ma  la certezza d'aver trovato la classica gallina dalle uova d’oro, per di più figlia di una donna influente che per amore della figlia avrebbe pensato anche a una sua sistemazione.

 

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Giovanni  si  era  integrato  perfettamente  nella  nuova
famiglia, e con il tempo riuscì a conquistarsi la stima di
Berta, che alla fine riconobbe che la figlia aveva fatto
un’ottima scelta, di certo migliore della sua per Paolo, suo
padre,  che  era  sempre  stato  con  la  testa  tra  le  nuvole
rincorrendo fantasmi di gloria e l’aveva lasciata sola per
correre in Etiopia a conquistare l’Impero per l’Italia.

Berta aveva concluso in cuor suo che non sempre il
diavolo è così brutto come lo si dipinge e non sempre ciò
che  è  brutto  resta  brutto  e  quello  che  sembra  bello  è
sempre bello.

Le vicissitudini della vita possono contribuire a rendere il mondo migliore, e talvolta anche peggiore.

Giovanni,  dopo  aver  conseguito  il  diploma,  sposò Mafalda e misero su casa, e facendo tesoro dei consigli della  suocera,  abbandonò  le  cattive  abitudini  di  giovane scapestrato e si mise sulla buona strada.

La loro unione fu allietata dalla nascita di un figlio che diventò la gioia di nonna Berta che iniziò ad apprezzare quella felicità che lei non si aspettava di ricevere.

Anche come padre, quella lenza di Giovanni aveva dato degli ottimi risultati e doveva ammettere che questo suo genero era sempre pronto a correre in suo aiuto tutte le volte che glielo richiedeva.

 

 

 

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LA DIVERSITÀ DI TITTI

 

 

Titti, la seconda figliola di Berta, pur assomigliando più alla  madre  che  alla  sorella,  sia  nell’aspetto  sia  nella mentalità, incominciò a darle serie preoccupazioni, seppur del tutto giustificate.

Titti era molto diversa da Mafalda. Quanto assennata e sognatrice  la  prima,  tanto  istintiva,  volitiva  e  permeata d’idee che la madre riteneva balzane, la seconda.

Titti era amante dell’avventura e del vivere improntato sull’attimo  fuggente.  Rifiutava  l’idea  del  matrimonio  e affermava espressamente di non volersi legare a qualcuno che potesse imporle la sua volontà.

D'indole indipendente era di un forte individualismo e autostima  che  lasciavano  perplessa  la  povera  Berta,  che pur riconosceva lei stessa di non essere stata morigerata nelle sue scelte passate, però riteneva di aver saputo porre un limite alle sue intemperanze e infine di aver imbroccato la strada giusta per riuscire nella vita.

Berta sperava che anche Titti scegliesse di sposarsi e
mettere su famiglia, come del resto lei aveva fatto. Avere
una famiglia propria è sempre un porto sicuro in tutte le
evenienze, e poi da che mondo e mondo il marito è sempre
stato un ottimo parafulmine per la donna. Per lei Paolo lo
era stato, almeno questo ruolo l’aveva assolta con dignità
nei confronti di lei.

 

 

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Dopo  aver  conseguito  la  licenza  media  presso  il
collegio di suore, come la sorella, Titti si era rifiutata di
proseguire gli  studi presso di loro. Scelse di frequentare il
Liceo Classico statale con la ferma intenzione di iniziare
dopo  un  corso  universitario  di  legge  per  conseguire  la
laurea  in  scienze  giuridiche.  Una  vera  novità  per  quei
tempi.  Inoltre  era  sua  ferma  intenzione  di  conseguire  il
brevetto di pilota civile. Il suo sogno era di volare.

Berta,  in  quel  comportamento  individuò  la  diversa
paternità  delle  ragazze.  Anche  fisicamente  avevano  un
aspetto differente. Mafalda era bruna con gli occhi neri
come Paolo e in più aveva paura di salire su un aereo e
Titti era castano chiaro con gli occhi azzurri di Tullio e
non  sognava  altro  di  volare  e  addirittura  di  pilotare  un
aereo.

Al tempo non si parlava di donne laureate in legge né tanto meno di partecipazione delle donne nell’aviazione o nell’esercito, ma la caparbia volontà di Titti impose alla madre Berta e al padre ufficiale Paolo, che poco contava di seguire i suoi disegni.

Berta si rese conto che la figlia, oltre ad aver ereditato
parte del suo carattere, aveva ereditato in pieno lo spirito
avventuriero del padre, quel Tullio felice di scorrazzare in
cielo con l’aereo come se passeggiasse per le vie cittadine.

Titti,  oltre  al  suo  modo  di  pensare,  aveva  acquisito l’indole del padre naturale.

Tullio, belloccio e amante della natura e dell’avventura,
aveva  accettato  la  relazione  con  Berta,  che  lo  rendeva
libero delle sue azioni. Era un uomo fatto così! Estroverso,
avventuroso, facinoroso, ma anche amabile e piacevole a

 

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frequentarsi. Per Berta, quell’uomo era andato benissimo.
Non aveva preteso nulla da lui, se non di fare l’amore. Le
piaceva  godere  della  sua  presenza,  viverne  la  vita
estroversa, coglierne i momenti più belli, annullarsi in
quegli attimi d’amore che la rendevano felice. Però non
ammetteva  che  una  simile  personalità  e  una  simile
condotta di vita, fosse una buona cosa per la figlia e che
sarebbe stata certo di nocumento a lei stessa e di certo
avrebbe  arrecato  dei  dispiaceri  anche  a  lei,  nella  sua
qualità di madre. Tullio era un uomo e Titti una donna!
Mica lei poteva comportarsi come un uomo.

I tempi non lo permettevano più. Dopo la caduta del
fascismo, con l’avvento della DC le donne erano rientrate
nel  loro  guscio  di  candore  e  di  decantata  purezza  di
sentimenti.

Era meglio seguire l’evoluzione dei tempi.

Quantunque  non  le  restò  che  assecondarla,  non
omettendo  di  ricordarle  in  continuazione  che  per  una
donna il matrimonio era la posizione ideale. Un marito si
poteva  sempre  lasciare  oppure,  come  aveva  fatto  lei,
ridurlo in posizione di sudditanza. Cercò di spiegarle che
la  sua  vita,  da  sola,  sarebbe  stata  difficile  in  un  mondo
dove  ancora  l’essere  maschio  costituiva  un  privilegio
sociale, oltre che naturale. Per l’esperienza che ne aveva
avuto, c'era da dire che il marito andava addomesticato,
come  aveva  fatto  lei  con  Paolo,  sebbene  fascista  e
maschilista.

Titti non le dette ascolto e intanto si iscrisse a un corso
di paracadutismo, continuando per altro a seguire alcune
attività  sportive  non  del  tutto  femminili,  quali  la  lotta

 

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libera, il lancio del disco e il nuoto. Di tanto in tanto si accompagnava a qualche spasimante ma nulla di serio e d'impegnativo.

Berta, ormai avanti negli anni, finì per arrendersi e
lasciò sua figlia Titti libera di scegliersi la via da seguire,
purché  tenesse  conto  di  crearsi  i  presupposti  per  un
avvenire senza dover elemosinare l’aiuto di qualcuno.

Questo  consiglio  fu  accettato  dalla  figlia,  che  la
rassicurò, accettando di frequentare la Scuola Normale di
Pisa per conseguire una laurea in Astronomia, anziché in
Legge, tra l’altro, più confacente alle sue aspirazioni.

 

 

 

 

 

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LA MATURITÀ DELLA VITA DI BERTA

 

 

Berta, durante gli anni tremendi della guerra, con il suo
carattere intraprendente, era riuscita a tracciare la sua
strada, pur contorta, riuscendo a imporsi nella vita e nella
società.

Con  l’avanzare  degli  anni  si  era  resa  conto  che  la
seconda  parte  della  sua  vita  si  preannunciava  non  tanto
tranquilla a causa dell’impatto con la personalità dei figli.

Il  marito  non  era  stato  d'ostacolo  alla  sua  ascesa
sociale.  Nonostante  la  menomazione  fisica  e  l'aderenza
maniacale alle idee  patriottiche, era riuscita a imporre le
sue capacità.

Anche se la scelta di Mafalda, all’apparenza del tutto screanzata, in fin dei conti era andata bene, invece quella di Titti la lasciava molto dubbiosa e incerta.

Temeva molto per lei, per il suo avvenire e per quel suo
sentirsi diversa dalla sorella. Per questa ragione cominciò
a torturarla il tarlo d'aver commesso degli errori durante la
sua  vita  rispetto  ai  figli  e  che  avrebbe  potuto  evitare,
porgendo loro maggiore attenzione nell’educazione.

Non rimpiangeva nulla di tutto ciò che aveva fatto nella
vita.  Era  stata  coerente  con  se  stessa  e  al  momento
opportuno aveva saputo prendere la giusta direzione. Non
si lamentava di nulla. Aveva fatto bene a non mollare il
marito “eunuco per amor di patria”, a essersi comunque
prese tutte le soddisfazioni, anche sessuali, che la vita le

 

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aveva offerto. Però temeva fortemente di aver errato nel mettere al mondo altri figli. Sentiva che i due venuti dopo la prima, erano sicuramente diversi.

Eppure la sua scelta era stata voluta e coerente con il
suo  modo  di  pensare.  Non  voleva  lasciar  sola  Mafalda,
che  le  appariva  bisognosa  di  compagnia.  Riteneva  che
darle una sorella e un fratello fosse un dono di cui non
bisognava privarla.

Adesso  recepiva  che,  non  essendo  figli  dello  stesso
padre, avevano delle diversità ereditarie di carattere, che
non aveva calcolato. Questo pensiero la turbava e non se
ne dava ragione.

Anche  se  i  figli  non  erano  a  conoscenza  della  sua
aggrovigliata  vicenda  matrimoniale  e  sentimentale,  non
avendo mai saputo dell’impotenza sessuale acquisita dal
loro padre ufficiale né delle sue relazioni extra-coniugali,
purtroppo il problema era emerso all'improvviso e in tutta
la sua drammaticità.

Tutto  questo  cominciò  a  pensare  la  superba  signora
Berta, tanto sicura di sé ma incerta dell’avvenire dei figli e
non  sapeva  ancora  cosa  frullasse  nella  testa  di  Vittorio
Emanuele!

 

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VITTORIO EMANUELE

 

 

Quando Berta si accorse di essere incinta per la terza
volta,  sperò  tanto  che  fosse  un  maschio  per  poterlo
chiamare  Vittorio  Emanuele  oppure Umberto, in  ricordo
delle sue lontane origini reali e questi nomi erano quelli
giusti. Il suo idolatrato segreto di sentirsi di sangue reale e
di nobile schiatta era sempre presente in lei e il desiderio
di perpetuarlo nel tempo era il suo problema principale di
vita.

Appena  nato,  fu  subito  stabilito  doversi  chiamare Vittorio  Emanuele, perché lei trovo nel profilo  dei tratti somiglianti.  Tutti  furono  d’accordo  con  lei,  sia  il  padre giuridico  sia  quello  naturale,  anche  se  il  primo  avrebbe preferito Benito e il secondo Italo.

La  scelta  del  nome  era  caduta  sul  nome  del  re  in
persona  e  Berta  si  era  ripromessa  che  quando  il  figlio
sarebbe stato più grande, gli avrebbe detto che era un
lontano cugino del Re e ne portava il nome. Di sicuro non
poteva esibire il blasone di cotanta origine ma il saperlo
era  motivo  di  soddisfazione.  Va  bene  che  la  Rosina,  in
fondo non era che una contadina ma ciò che contava era la
fecondazione  reale.  Ciò  che  vale  nella  riproduzione  è  il
seme e non la terra raccolta nel vaso.

Berta teneva molto a questa discendenza anche se non
poteva vantarsene apertamente ma ci teneva a trasmetterlo
ai figli e far sapere che nelle loro vene scorreva del sangue

 

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reale; quello stesso che era del principe Biancamano, capo
stipite dei Savoia, e del primo Re d’Italia. Non a caso nel
suo  salotto  aveva  appeso  un  bellissimo  ritratto  del  Re
Vittorio Emanuele II, con tanto di baffi svolazzanti e in
divisa militare.

 

Vittorio  Emanuele  cresceva  bello,  robusto,  gioviale  e allegro. Dimostrava una prestanza e un’eleganza fuori dal comune... Definiamolo pure reale!

In verità a Berta sembrava e s’illudeva che somigliasse
a lei in alcune parti del viso, per individuare le tracce della
sua nobile discendenza, ma la fronte spaziosa, lo sguardo
penetrante,  il  gesticolare  volitivo,  i  capelli  leggermente
biondicci, le labbra sottili, le orecchie un poco aguzze, gli
occhi  azzurri,  richiamavano  i  lineamenti  del  padre
naturale.

Crescendo,  la  somiglianza  sembrava  sempre  più
veritiera, anche se il padre ufficiale, si sforzava di dire che
somigliasse, tale e quale, a quel suo nonno morto durante
la grande guerra, sul Monte Ortigara. Ci teneva a dire che
questo suo nonno  aveva sposato  una  donna  che  aveva i
capelli biondi e aveva pure gli occhi azzurri. Sì, quella era
una  prova  certa  che  si  trattasse  di  suo  figlio,  nel  caso
qualcuno insinuasse il contrario.

Berta fu felice di avere questo figlio maschio, che curò
in modo particolare e per il quale nutriva delle aspirazioni
mirabolanti.

Pensò  di  avviarlo  alla  carriera  bancaria  o  comunque
legata  al  mondo  finanziario.  Per questo  dopo  la  licenza
media  lo  iscrisse  all’Istituto  Tecnico  Gemmellaro  di

 

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Catania, con l’intento di farlo diplomare in ragioneria e in
seguito frequentare l’Università nella facoltà di Economia
e Commercio.

Il giovane sembrava seguire i suggerimenti della madre
e ascoltarne i consigli ma allo stesso tempo dimostrava di
avere una certa tendenza ad amare la vita. Frequentava,
contemporaneamente agli impegni di studio, una palestra
ma  senza  l’attaccamento  maniacale  della  sorella  Titti.
Rispetto  a Mafalda, aveva soltanto in comune una certa
predisposizione al sentimentalismo amoroso.

In questo Berta rilevò un certo tratto comune tra il suo
carattere e quella di questi due figli. Anche lei come loro
andava incontro alle attrazioni sentimentali alle quali dava
molta importanza.

In verità Mafalda, per quanto ne sapeva, era rimasta al
palo con il suo Giovanni, senza altre avventure. Del resto
anche  lei,  Berta  l'avrebbe  fatto  se  non  ci  fosse  stata  di
mezzo l’Etiopia...

Vittorio Emanuele, che per brevità chiamava solamente
Vittorio, sembrava più farfallino in materia di donne.
     Certamente l'unione di Berta con Paolo era stato un matrimonio d’amore, anche se dopo gli eventi della vita avevano imposto altre scelte. Anche Mafalda aveva fatto una scelta d’amore, sposando quel ragazzo che a lei non era piaciuto, ma che la figlia aveva caparbiamente voluto.
     Sì, era proprio il caso di pensare che i tre figli avessero in comune questa tendenza al sentimento, come scelta di vita.

Vittorio Emanuele, rispetto a Titti, aveva in comune la
cura della persona, l’amore per lo sport, ma senza lo stesso

 

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calore della sorella. Non gli saltava in testa nemmeno il pensiero di fare il pilota di aerei. Pilota sì! Magari di una auto sportiva, con una bella ragazza accanto.

Certamente un poco esibizionista Vittorio lo era ma aveva  motivo  di  esserlo,  essendo  proprio  ben  fatto, intelligente e prestante.

Ecco  che  Berta,  pensando  all’avvenire  del  figlio,  era
attenta a ogni suo desiderio, a ogni sua aspirazione a ogni
suo  pensiero.  Aveva  financo  pensato  a  un  eventuale
matrimonio  con  una  ragazza  della  Catania  bene.  Per
esempio la figlia di quel professore che l’aveva favorita
per il diploma di Giovanni. Un’ottima famiglia, di costumi
morigerati e benestante. La figliuola cresceva bene ed era
anche  carina.  L’aveva  conosciuta  quella  volta  che  era
venuta in Banca con il padre.

Berta si coglieva a volte a fantasticare sul futuro di
Vittorio  Emanuele.  Non  pensava  che  diventasse  Re,  ma
l’aspetto di principe lo aveva. Buon sangue non mente!

 

 

 

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L’ETÀ SENILE DI BERTA

 

 

 

 

Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta, ormai si era fatta una vecchia signora dai capelli bianchi. In gran parte aveva  dimenticato  le  vicissitudini  di  una  vita  alquanto burrascosa ma appagante.

In  fin dei conti   era  riuscita  ad  affermarsi  nella  vita,
nonostante una micidiale guerra che aveva condizionato la
sua esistenza.

Sorrideva tutte le volte che pensava al Duce e alle sue impennate  politiche,  e  ancor  di  più  a  suo  marito  che rincorrendo gli ideali patriottici, era riuscito a complicarle la vita più di quanto lei stessa avesse immaginato. Però si congratulava  con  se  stessa  per  essere  riuscita  a  trarne anche piacere e soddisfazione.

Adesso viveva in un appartamentino vicino a  Mafalda
e godeva pure dell’affetto dei suoi due nipotini.
     Peccato  che  Titti  avesse  deciso  di  star  lontano  da Catania e rincorrere a Pisa le sue stelle. “Di quella lì qualche  giorno  sentirò  dire  che  si  è  imbarcata  per  la luna” diceva scherzosamente quando parlava di lei e nel farlo  non  le  mancava  di  pensare  a  quel  Tullio  che  era scomparso del tutto. Non aveva saputo più nulla. Non era stato  certamente  un  uomo  tranquillo,  ma  aveva  saputo darle dei bei momenti che ricordava con piacere.

 

 

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Paolo se ne era ormai andato all'altro mondo a tenere compagnia al suo amato Duce. Se solo avesse pensato di più  a  lei  e  meno  al  Duce,  certo  sarebbe  andata  meglio. Chissà! Magari non ci sarebbe stato Tullio.

Berta, pur crogiolandosi nei ricordi, sembrava aver raggiunto quella serenità che non aveva mai avuto durante la sua esistenza piuttosto burrascosa.

Fu durante una di quelle mattine uggiose, che ai primi
albori  dell’inverno  riescono  a  incutere  malinconia,  che
venne  a  trovarla  il  figlio.  Appena  lo  vide  le  passò  ogni
malinconia.

Vittorio  era  ormai  un  uomo  affermato  e  funzionario dell’ENI di recente istituzione.

Aveva  dovuto  accompagnare  il  suo  capo,  l’ingegner Mattei, in visita a Gagliano Castelferrato, in occasione della  sua  venuta  in  Sicilia  per  una  programmazione  del suo progetto politico.

Per quanto venisse spesso a trovarla, Vittorio era quasi
sempre fuori Catania a causa dei suoi molteplici impegni
lavorativi. Le sue mansioni lo costringevano a girovagare
per l’Italia e anche per il Nord-Africa. Era interessato al
mercato del petrolio in ascesa per l’intensiva produzione
di automobili con il motore a scoppio. La Libia, l’Egitto e
il Medio-Oriente erano le sedi che frequentava.

Anche questo impiego lo doveva alla madre, grazie ai rapporti che aveva allacciato in seno alla DC, di cui era diventata un'importante esponente.

L’ingegner  Mattei  era  un  “pezzo  grosso”  del  Partito.
Berta  lo  aveva  conosciuto  per  questioni  bancarie  dal

 

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momento  che  aveva  ricevuto  l’incarico  dal  Governo  di mettere in liquidazione la Società petrolifera AGIP perché non redditizia.

Invece,  grazie  al  suo  spiccato  acume,  la  trasformò nell’Ente  Nazionale  Idrocarburi  Italiano,  riscuotendo  un enorme successo politico.

A questo punto fu facile per Betta  far assumere nel
nuovo ente questo suo figliolo, appena diplomato.
     Adesso,  tutto  preso  da  questo  lavoro,  Vittorio Emanuele non pensava a sposarsi. La questione dispiaceva a Berta, come del resto le dispiacevano le scelte fatte da Titti. Questi due figli erano diversi da Mafalda, tutta casa e famiglia.

 

 

 

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IL PASSATO RIAFFIORA

 

 

 

Vittorio, con un largo sorriso,  annunciò alla madre che si  vedeva  con  una  ragazza,  descrivendola  con  un entusiasmo sorprendente. In confidenza le disse di trovarsi bene con lei. Si frequentavano da poco ma fin dal primo istante gli aveva ispirato tanta simpatia.

«Finalmente!» disse Berta. «Posso sapere di dov’è?»

«Ho capito. Hai paura che non sia un'italiana. Invece lo è» rispose Vittorio.

«Vedrai che piacerà pure a te. Ciò che mi ha sorpreso di lei è stata la sensazione di conoscerla da sempre.  Ancora non le ho detto nulla e non so perché ancora sono titubante a dirle ciò che provo per lei».

«Mi piacerebbe conoscerla» rispose Berta. «Te la faccio vedere subito. Guarda».

Tirò fuori dal portafoglio una foto della ragazza e gliela
mostrò.

«Sembra  pure  a  me  un  viso  conosciuto,  di  dov’è?» chiese Berta, dopo averla osservata attentamente.
     «Milano» fu la risposta.

Continuarono  a  parlare  del  più  e  del  meno,  del  suo
lavoro, di quella ragazza, che tra l’altro sembrava di essere
di valido aiuto nel lavoro del figlio. Era di cinque anni più
giovane di lui. Conosceva l’inglese e il francese, ma anche
l’arabo.  Da  quanto  aveva  capito,  era  la  sua  segretaria
d’ufficio.

 

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Qualunque discorso iniziasse, tra loro, si finiva sempre per evidenziare le doti di quella ragazza che per un verso o un  altro  sembrava  essere  diventata  l’oggetto  principale delle loro attenzioni.

«Come si chiama» chiese Berta, punta dalla curiosità. «Adele» rispose Vittorio.

«Certo che mi sarebbe piaciuto che si fosse chiamata Margherita, come la moglie di Umberto I, il  Re buono» Berta sorrise e aggiunse: «Adele… Come?»

«Adele Petronelli» rispose Vittorio.

A quel cognome ebbe un sussulto che la scosse fino alla cima dei capelli.

«Hai conosciuto il padre?»

«No, è morto. Si chiamava Tullio Petronelli ed era un pilota dell’aviazione italiana».

Berta si era sbiancata in viso. Non era possibile! No!
Che scherzo era questo? Le sembrava di sognare. Sperava
di sbagliarsi.

«Per caso era quel pilota che a Tobruck fu mitragliato
dalla contraerea italiana» domandò con un fil di voce.
     «Sì mamma, Adele me ne ha parlato ma tu come fai a conoscerlo?»

«Ne  parlò  tuo  padre,  era  fascista  anche  lui»  rispose
mentendo.  Ovviamente  quel  “tuo  padre”  era  riferito  al
marito Paolo.

«Tu non puoi sposare Adele» disse Berta con le lacrime agli occhi.

Sorpreso  Vittorio  restò  senza  parole  e  non  si  chiese
neppure il perché di quell’avversione improvvisa. Aveva
gradito  la  notizia  ma  che  cosa  le  aveva  fatto  cambiare

 

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idea? Era d’accordo con lei che il padre, fascista convinto,
l’avesse  fatta  soffrire  ma  ormai  era  acqua  passata.  Così
com’era acqua passata la faccenda che il padre di Adele
fosse fascista.

«Ormai il tempo ha cancellato il passato...» riprese il figlio sconvolto.

«Non sempre» rispose Berta con le lacrime agli occhi. «Che cosa mi impedisce di sposare questa ragazza?» «Il fatto che tu, Titti e Adele siete fratelli».

Il ricordo di Tullio la catapultò nel mondo dei ricordi, e a questo punto fu costretta a rivelare al figlio chi fosse davvero  suo  padre,  e  a  raccontargli  la  triste  vicenda  di Paolo, marito e fratello.

Vittorio osservò la madre ed ebbe pietà di lei, ma nello stesso  tempo  apprezzò  la  caparbia  volontà  e  la  forza d’animo  che  l’aveva  spinta  a  superare  quel  tremendo dramma della sua vita.

La  strinse  teneramente  al  petto  e  cercò  di  consolarla mentre le lacrime le inondavano il viso. Le apparve infine per quello che era diventata: una fragile donna in balia a una tempesta che aveva sconvolto la sua vita, rendendo lei una vera eroina rispetto a quei due uomini, che giudicò due meschini egoisti che l’avevano usata.

Vittorio,  sbalordito e sconvolto, non si raccapezzava più della sua effettiva identità. Aveva subito un profondo trauma per le rivelazioni fatte da sua madre.

Quel Paolo, che fino ad allora aveva ritenuto suo padre
e un eroe del passato regime, gli apparve nella sua giusta
luce di stupido assertore di una filosofia di vita errata, che
gli era costata la sua menomazione di uomo e che aveva

 

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avvelenato la vita di sua madre.

Gli  sembrò  di  capire  e  giustificare  quell’inconsueta avversione che aveva provato per lui fin da bambino e il poco dispiacere provato in occasione della sua morte. Ne ebbe pure pietà per il suo insulso fanatismo.

Quell’altro,  il  vero  padre,  che  gli  aveva  dato  la  vita,
così... quasi per gioco, senza curarsene, pur essendo stato
un uomo coinvolto da ideali più grandi di lui, lo giudicò
molto leggero e privo di sentimenti veri. Lui nulla doveva
a quei due uomini e doveva ringraziare solamente sua
madre per averlo cresciuto, educato e amato.

Berta adesso che si era liberata di quel segreto che le
opprimeva l’anima, si sentì più serena, ma ne ricavò un
senso di disagio vedendo il turbamento del figlio. Tuttavia
non poteva fare altrimenti, dopo la notizia del suo innamo-
ramento e fargli rendere conto della sua vera identità. Lo
pregò solo di non rivelare la storia alle sorelle, forse non
l’avrebbero  capita  e  ne  sarebbero  rimaste  traumatizzate,
specialmente  la  Titti,  che  era  così  strana  e  per  questo
bisognosa di attenzioni.

Vittorio rassicurò la madre e continuò ad asciugare le sue lacrime.

Berta  lo  abbracciò  chiedendogli  perdono  per  non
averglielo  mai  detto  prima.  Riteneva  la  questione  ormai
chiusa ma non pensava mai che Vittorio, per ironia della
sorte, avrebbe mai incontrato questa sua sorella e che se
ne fosse innamorato né che egli avesse mai sentito parlare
di Tullio Petronelli.

 

 

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LE TURBE DI BERTA

 

 

Vittorio  era  rimasto  di  stucco  alle  rivelazioni  della madre ma non fece trapelare nulla di ciò che era accaduto dentro di sé. Non disse nulla. Gli era sembrato di vivere in un incubo, dove l’assurdo si mischiava al reale.

Forse  aveva  capito  male?  No!  La  madre  gli  aveva confermato ogni cosa. Era tutto vero!

Soverchiato ancora dall’emozione, aveva avuto pure la
forza di asciugare le lacrime della madre ma dentro di sé
qualcosa gli si era spezzata facendolo sprofondare in un
lungo precipizio.

Si  sentì  improvvisamente  una  nullità,  un  oggetto  in preda alla furia degli eventi. Si chiese ancora chi fosse, se aveva capito bene.

Lui non era lui, cioè suo padre non era colui che aveva sempre pensato che fosse in realtà.

Ricapitolò nel suo intimo il racconto della madre e pure
nell’angoscia della notizia così dissacrante, capì il dramma
di chi lo aveva allevato come un figlio, pur sapendo di non
esserlo. Ebbe pietà di lui e del suo stato per aver accettato
quel ruolo amaro e degradante e per la forza che aveva
imposto  a  se  stesso  accettandolo  come  figlio.  Senza
dubbio  quell’uomo  amava  non  solo  lui  ma  anche  sua
madre,  restandole  accanto  e  certamente  soffrendo.  Gli
apparse  come  un  gigante  e  si  rimproverò  di  non  averlo
quasi mai apprezzato nella vita, come avrebbe meritato.

 

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Il rimorso gli fece venire alla gola un nodo e pianse di
dolore.  Pensò  pure  alla  sorella  Titt  che  nulla  sapeva  di
quel dramma. Pensò ad Adele. Che cosa le avrebbe detto?
Nulla!  Forse  era  meglio  non  parlargliene  per  non  farle
provare  lo  stesso  disgusto  che  lui  provava  per quel  suo
padre naturale, che lo aveva messo al mondo senza curarsi
del  suo  avvenire  e  nemmeno  di  quello  della  comune
sorella  Titti,  esattamente  come  fa  in  natura  il  cuculo,
l’immondo  ed  egoista uccello  che  non si piglia  la  briga
nemmeno di covare le uova da lui deposte nei nidi degli
altri ignari uccelli.

Una decisione doveva pur prenderla.

Ora più che mai non poteva abbandonare Adele al suo
destino. Non poteva. Le aveva voluto bene istintivamente.
Adesso aveva un motivo in più per non starle lontano.

Avrebbe corretto il suo comportamento con Adele, cui
fortunatamente  non  aveva  ancora  dato  il  suo  naturale
sfogo amoroso. Solo pensava che sarebbe stato facile farle
capire che le voleva bene, come se fosse sua sorella. Già!
In effetti lo era, ma non glielo avrebbe mai rivelato. Le
avrebbe detto che poteva contare sul suo affetto fraterno e
anche quello delle sue sorelle Mafalda e Titti. Le avrebbe
detto  che  in  lui  e  nelle  sue  sorelle,  avrebbe  trovato  il
conforto  della  famiglia  che  non  aveva  più.  Le  avrebbe
anche  detto  di  essersi  innamorato  di  un’altra  donna.
Insomma, le avrebbe mentito ma non poteva fare in altro
modo.  Non  poteva  suscitare  anche  in  lei  la  tempesta  di
sentimenti contrastanti che era scoppiata dentro la sua
anima. Intanto bisognava che stesse ancora più vicino alla
madre, vittima di una vicenda molto più grande di lei, che

 

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aveva  saputo  reagire  e  soffrire  in  silenzio  contro  una situazione assurda.

Ebbe  per  lei  ammirazione  e  stima  più  di  quanto  ne avesse avuto prima. Aveva saputo combattere e accettare con rassegnazione quel ruolo che la natura non le aveva assegnato, ma la sorte sì.

Anche con lei la vita era stata ingiusta, facendo rivelare
al figlio quel suo segreto, che credeva ormai sepolto e
lontano.  Al  dolore  subito,  si  aggiungeva  la  beffa  della
cattiva sorte e l’ignominia della vergogna per non essere
stata fedele al marito. Tutto questo sarebbe stato doloroso
per  lei,  donna  altera  e  superba,  per  l’immagine  che
avrebbe mostrato al mondo.

 

 

 

 

 

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LA TRAGEDIA DI TITTI

 

 

Dal giorno della rivelazione al figlio, Berta non fu più la  donna  di  prima,  sicura  di  sé,  capace  di  affrontare  il mondo.  Anche  lei  si  sentì  come  una  canna  in  balia  del vento, fragile, infelice, basita e inutile.

Come madre aveva fallito la sua missione nel mondo,
nascondendo la vera origine dei suoi due ultimi figli. Si
sentì meschina per aver ceduto al richiamo della passione
amorosa  al  di  fuori  del  matrimonio.  Non  aveva  tradito
soltanto il marito, ma tutti i suoi ideali di donna.

Tutto l’orgoglio che fino ad allora l’aveva sostentata, crollò d’improvviso. Era una donnetta di poco conto, per di più vecchia e malata.

Si  ritrovava  nelle  ore  di  solitudine,  muta,  con  lo
sguardo fisso nel vuoto, come se rincorresse le nuvole che
immaginariamente  vedeva  scorrere  sotto  il  suo  sguardo.
Farneticava tra sé e sé, della sorte delle stelle. Le guardava
fisse in cielo, ma temeva che un bel giorno si muovessero
e andassero a cozzare l’una contro l’altra. Lei non poteva
saperlo ma sua figlia Titti sì. Lei le studiava le stelle. Era
astronoma. Le aveva detto che aveva accettato l’incarico
di ricercatrice presso la Scuola Normale di Pisa, che aveva
scelto come sua residenza.

Il passato era emerso mostruosamente facendo nascere
in Berta il desiderio di espiare la sua colpa e di vendicarsi
per il torto subito.  Ma vendicarsi contro chi? Non certo

 

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contro quel poveraccio di Paolo che aveva accettato la sua cattiva sorte e neppure contro lo stesso Tullio che non aveva  fatto  altro  che  soddisfare  le  sue  esigenze,  senza chiederle nulla in cambio.

Sì! Avrebbe dovuto vendicarsi di se stessa per quanto
freddamente aveva fatto, causando un dolore immenso ai
suoi figli.

Provò vergogna di sé per aver pensato soltanto a godere
i piaceri della vita. Pensò al suicidio ma non poteva,
avrebbe  dato  un  dispiacere  a  Mafalda,  povera  figlia
innocente e ai suoi  nipotini, e poi Vittorio poteva avere
ancora bisogno di lei e Titti, anche lei coinvolta in quel
dramma, cosa avrebbe fatto?

Questa sua seconda figlia le dava tante preoccupazioni.
     Sola, lì  a Pisa,  a rincorrere  stelle e astri  lontani,  alla ricerca  di  chissà  quali  sogni.  Come  avrebbe  reagito  a quella notizia?

Pensò  di  raggiungerla,  di  starle  vicino.  Decise  di parlarne con Vittorio. Lui avrebbe capito. Sarebbe venuto in suo aiuto. Era ormai un uomo equilibrato e sapeva fare le  sue  scelte.  Non  per  niente  era  diventato  l’uomo  di fiducia dell’ingegner Mattei.

Era passato quasi un anno dal giorno in cui Berta aveva
rivelato  al  figlio  il  suo  terribile  segreto.  Vittorio  aveva
risolto  per  il  meglio  la  sua  relazione  con  Adele,  che
trattava  ormai  da  sorella,  rivelandole,  non  ultime,  le
preoccupazioni per sua madre che da qualche tempo non
stava tanto bene. Le telefonava spesso e faceva di tutto per
non farla sentire sola.

 

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Quella  mattina,  infagottata  nella  sua  vestaglia  da
camera, Berta, dopo aver chiuso la telefonata con Vittorio,
accese la TV, era l'ora del telegiornale. Mentre si alterna
vano  li  sport  pubblicitari  sentì  suonare  il  campanello  di
casa.

Dallo  spioncino  del  vide  che  si  trattava  di  due carabinieri. Sobbalzò all'istante e il pensiero corse subito a Vittorio, sempre in viaggio  con gli aerei.

«È lei  la signora Manuela Filiberta di Savoiano»  le chiese il maresciallo, salutando.

Berta annuì con la testa senza parlare.

Il graduato con tatto e usando dei termini di circostanza le comunicò che sua figlia Caterina Nascara, detta Titti, ricercatrice  astronoma  della  Scuola  Normale  di  Pisa, aveva  avuto  un  incidente.  Nulla  di  grave.  Però  era necessario che lei andasse a trovarla. Avrebbe provveduto lui stesso per accompagnarla.

A quella notizia Betta le sue gambe cedettero e si accasciò per  terra. I due militi la soccorsero e  subito le chiesero se vivesse da sola.

La  donna  rispose  di  sì,  ma  l'altra  sua  figlia  Mafalda
viveva a qualche isolato più in là. Parlò anche di Vittorio,
che era lontano, forse in Libia o a Milano. Non sapeva.

Uno  dei  due  militi  provvide  a  rintracciare  Mafalda,
mentre al telegiornale veniva data la notizia che a Pisa era
avvenuto l’omicidio di una giovane donna ricercatrice che
frequentava  la  Scuola  Normale  di  Pisa  e  che  erano  in
corso delle indagini.

Era la conferma di quanto erano venuti a comunicare i
due carabinieri. Titti era stata trovata cadavere a casa sua e

 

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ancora  non  si  conosceva  l'assassino,  erano  in  corso  le indagini di rito. Si riteneva che con molta probabilità la causa del delitto fosse una rapina, essendo stati trovati dei cassetti manomessi.

Berta non resse alla notizia. Tuttavia, si dovette recare a Pisa  per  il  riconoscimento  della  figlia,  il  cui  corpo  fu sottoposto ad autopsia.

All’amarezza della morte di Titti si aggiunse la notizia che  dopo  i  primi  accertamenti  la  rapina  era  stata  una semplice messa in scena.

Tra  il  personale  dell’Università,  l'interrogatorio  fu
esteso anche a Berta, Mafalda e Vittorio. Le indagini erano
indirizzate a conoscere le persone che Titti frequentava.

La ragazza, con addosso una camicia da notte, era stata trovata  sanguinante  a  terra  lungo  il  corridoio  della  sua abitazione.  A  prima  vista  mostrava  un  grosso  coltello conficcato alla schiena.

In casa tutti i cassetti e gli sportelli dell’armadio erano aperti e il contenuto sparso per terra.

A destare i sospetti della finta rapina era stata la
mancata  effrazione  alla  porta  dell’appartamento.  Gli
inquirenti  sospettarono  che  la  vittima  conoscesse  il  suo
aggressore.

Era  ormai  fuor  di  dubbio  che  vittima  e  assassino  si
conoscessero. Bisognava adesso attendere i risultati degli
accertamenti.

L’esame del DNA sul sangue rinvenuto sul manico del coltello  doveva  appartenere  all’assassino,  che  magari nell’infiggerlo si era ferito alle mani.

 

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Fu anche rilevato che nell’appartamento erano entrate persone diverse dalla vittima e dall’assassino. Bisognava però  stabilire  se  vi  fossero  entrate  prima  o  durante  il delitto, ma ciò che aveva soprattutto attirato l’attenzione degli inquirenti furono i lividi ai polsi della vittima, come se fossero state strette da legacci o nastri.

Dalla lunga e complessa inchiesta emerse che la Titti
era solita ricevere nel suo appartamento degli “amici” coi
quali era solita intrattenersi in rapporti sessuali sado-maso,
tutti estranei al delitto tranne uno, che ne fu in verità solo
la causa.

A uccidere Titti era stata la moglie di uno dei tanti amici  che  la  frequentavano.  Quest'ultima,  una  volta scoperta la tresca, spinta dalla gelosia, andò a trovarla a casa sua per darle una lezione.

Titti  doveva  avere  con  la  sua  assassina  un  rapporto confidenziale, tant'è che era stata ricevuta in camicia da notte,  poiché  stava  per  andare  a  letto,  e  perdippiù  in cucina, dove ebbe luogo la loro violenta discussione, e ben presto la donna alzò le mani.

Nella  foga  della  rissa,  Titti  alzò  i  tacchi  e  fece  per
andarsene. Ancora più irretita la moglie tradita afferrò un
grosso coltello  e glielo piantò alle spalle mentre stava per
uscire dalla stanza. Resasi conto di averla uccisa, mise in
scena  un  tentativo  di  rapina.  Aprì  i  cassetti  del  comò  e
dell’armadio  della  stanza  da  letto  e  buttando  all’aria  i
vestiti. Dopo, tirandosi dietro la porta, silenziosamente se
ne andò.

A lei gli inquirenti giunsero non appena fu stabilita

 

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l’ora del delitto. Tramite una videocamera accertarono che
in quel lasso di tempo a sostare nella strada c'era stata solo
la  sua  auto.  L’assassina  ammise  il  delitto  e  ne  chiarì  la
causa.

Da  tutta  la  questione  emerse  che  a  Pisa,  oltreché  a dedicarsi  alle  stelle,  agli  studi  e  alla  ricerca,  Titti  non disdegnava di condurre una vita libertina.

Certamente  non  amava  il  matrimonio,  che  avrebbe
condizionato la sua libertà, ma non evitava di rinunciare a
quanto il matrimonio poteva offrire in materia sessuale.

Per  quei  tempi  un  simile  comportamento  non  era moralmente accettabile, specie se a esserne oggetto fosse una Dottoressa ricercatrice universitaria.

 

 

 

 

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28

TEMPO DI BILANCI

 

 

Berta,  Mafalda  e  Vittorio,  oltre  al  dispiacere  della perdita, dovettero subire anche il senso della vergogna che sentivano a fior di pelle per l'immorale comportamento della loro congiunta.

Mafalda finì per non uscire più di casa per non sentirsi additare  come  la  sorella  della  buttana  di  Pis”,  che  si faceva magari legare a letto per fare le zozzerie.

Lo stesso Giovanni, il marito, che non era proprio uno stinco di santo, anche lui era rimasto turbato dalla storia che interessava la cognata.

Vittorio fu pervaso da una crisi morale. Si rimproverò di  non  essere  intervenuto  in  maniera  opportuna  nei confronti  dei suoi cari, dopo aver conosciuto il  dramma della sua famiglia e di essere stato poco vicino alla sorella, che più di tutti  aveva  bisogno di sostegno per quel  suo carattere intraprendente e libertino.

Dopo la disgrazia si chiuse in se stesso, riconoscendo
che  anche  lui  era  stato  egoista  come  il  padre  naturale,
avendo  pensato  solo  a  se  stesso  e  alla  sua  amarezza,
dimenticando la madre e le due sorelle. Non aveva capito
l’ansia della madre per la figlia lontana, il cui solo torto
era stato quello di averle nascosta la verità per amore di
tutti  e  per  il  buon  nome  della  famiglia.  Adesso  si
rimproverava  di  non  essere  corso  in  tempo  a  Pisa  per
occuparsi della sorella e guidarla a vivere serenamente.

 

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Berta era distrutta. Amava questa sua figlia che le
ricordava l’estrosità di Tullio, ma non pensava mai che lei
avrebbe seguito le orme del padre anche nelle faccende di
letto.

Nel  suo  immaginario  era  convinta  che  le  donne,  in
questioni di sesso, erano diverse dagli uomini. Certo lei, la
Berta, era stata un poco libertina, ma fu costretta dagli
eventi e poi era molto prudente. Mica andava con tutti gli
uomini che aveva conosciuto. Quella sua figliola era stata
troppo imprudente. Da quando aveva appreso che a Pisa
era andata a letto con i professori di mezza Università. Se
si fosse fidata di lei non avrebbe fatto quella brutta fine.

Dopo la morte di Titti, rinunciò a vivere. Usciva solo
per andare al cimitero a portare i fiori a Paolo e a lei nella
tomba  di  famiglia.  Aveva  provveduto  a  far  traslare  la
salma della figlia da Pisa a Catania, per darle una degna
sepoltura nella tomba di famiglia, dove anche lei sarebbe
andata  a  dormire  insieme  agli  altri  membri  della  sua
famiglia.

Ironia della sorte Paolo, da morto, ebbe il privilegio di
ricevere finalmente dei fiori a seguito della morte di quella
sua  figlia  spuria.  Da  quand'era  stato  sepolto  era  stato
dimenticato da Berta e anche da Mafalda, presa com'era
dagli impegni familiari.

Nella vita di Berta questo fu certo il periodo più nero.
Erano lontani i tempi quando da giovanissima inneggiava
all’Italia  Fascista. Le  mancavano le comodità  che allora
aveva e anche la libertà di fare cò che voleva. E poi fu
quello il periodo in cui conobbe Paolo, le pazzie fatte con

 

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lui e per lui. Appena un anno ma intenso, pieno di sorprese
amorose di speranze di gloria e della gioia di una figlia
come Mafalda. Era riuscita a toccare il cielo con un dito.
Fu veramente felice e lo sarebbe stata ancor di più se non
ci fosse stata la vicenda dell’Etiopia… Poi venne la guerra
con quel discorso roboante di Mussolini, che l’annunciò
da  Piazza  Venezia  e  tutti  a  battere  le  mani,  come  se  si
andasse in gita. Arrivarono le bombe, insieme alle leggi
autarchiche  e  alle  sanzioni.  Anni  duri  ma  intensamente
vissuti. Con il ritorno di Paolo, purtroppo evirato, non fu
più  tanto  felice.  Le  cose  non  andarono  per niente  bene.
L’unica  novità  apprezzabile  era  stata  la  conoscenza  di
Tullio che gli regalò Titti e Vittorio.

Non  era  il  grande  amore  provato  la  prima  volta  per Paolo,  ma  quel  Tulliaccio  riusciva  a  elettrizzarla  e  a regalarle  delle  ore  di  abbandono.  Non  era  pienamente felice, ma riusciva a vivere bene.

Seguì  la  scomparsa  di  Tullio  in  modo  definitivo  e  il
ritorno  del  profugo  Paolo  dalla  prigionia  dell’America.
Non la gradì tanto, ma lei era ormai cresciuta aveva saputo
imporsi in quel maledetto crogiuolo del dopoguerra.

Si  era  presa  qualche  piccola  rivincita  nei  confronti degli uomini.

Paolo aveva tolto l’incomodo, Mafalda si era accasata con quel suo squinternato Giovanni che però aveva messo la testa a posto.

Lei gongolava e se proprio felice non era, si barcame-
nava nella serenità. Ma adesso il tempo verteva verso il
brutto. La vicenda di Titti, l’aveva distrutta e le aveva tolto
la velleità di vivere. Per sua fortuna Mafalda le aveva fatto

 

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il dono dei nipotini Giulio ed Enrico e suo figlio Vittorio
era  sulla  buona  strada  per  raggiungere  l’apice  della
carriera con l’incontro fortunato con l’ingegner Mattei.

Era  riapparso  il  fantasma  di  Tullio,  ma  per  fortuna
Vittorio aveva capito e superato l’ambascia.
     Non  le  restava  che  attendere  la  fine  e  nell’attesa cercare,  con le sue opere di bene, di rendere felice quanti non  lo  erano,  nella  speranza  di  guadagnarsi  il  paradiso, che il parroco diceva che esistesse dopo questa vita.
     Certo qualcosa già in passato lei aveva fatto cercando di  aiutare  dei  bambini  ebrei,  nel  periodo  del  razzismo rabbioso anche in Italia. Le veniva solo il dubbio se l’aiuto profuso a ebrei sarebbe stato tenuto in conto da Dio!
     Ma i guai per la povera Berta non erano finiti. Il ciclo delle sue peripezie non si era chiuso.

Giorni più neri apparivano all’orizzonte.

 

 

 

 

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29

LA SCOMPARSA DI MATTEI

 

 

Vittorio, dopo la triste vicenda della sorella Titti, restò
vicino alla madre assistendola con affetto però,  ritenendo
di essere psicologicamente vittima di eventi più grande di
lui, piombò in una specie di pessimismo che lo spinse a
non aver fiducia nel prossimo. Tuttavia, rifugiandosi nel
suo lavoro di collaboratore dell'ingegner Mattei, seguendo
passo  passo  i  progressi  dell’ENI,  entrò  in  quel  giro  di
affari  contrastanti  e  internazionali  che  l’ente  petrolifero
nuovo aveva creato.

Evidentemente  la  soppressione  dell’AGIP  era  stata
ideata semplicemente perché qualcuno aveva intuito il suo
futuro  sviluppo  nel  campo  della  ricerca  petrolifera.
L’ingegner Mattei aveva capito cosa bollisse in pentola e,
pur avendo l’incarico ufficiale di liquidarla, tergiversò e la
trasformò  in  quell’ente  che  apportò  vantaggi  allo  Stato,
ma contemporaneamente creò intorno a sé un numero di
nemici che cercarono in ogni modo di ostacolarne l’opera.

Dopo la scomparsa di Mattei, vittima di un incidente
aereo avvenuto nel 1962 a Bescapé, Vittorio, pur non
restando  a  capo  dell’ENI,  vi  continuò  a  lavorare,
apportando  un  alto  contributo  di  competenza  e  perizia.
Ovviamente era il tenutario di notizie, fatti e circostanze
che  interessavano  la  vita  di  Mattei,  e  quando  qualcuno
avanzò l’ipotesi che l’incidente di Bescapé altro non era
stato  che  un  attentato  per  togliere  di  mezzo  l'ideatore

 

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scomodo dell’ENI, la magistratura venne a conoscenza di
determinate circostanze, la cui fonte fu individuata proprio
tra  i  suoi  collaboratori,  tra  i  quali  spiccava  la  figura  di
Vittorio.

Probabilmente  per  questo  cumulo  di  circostanze  e illazioni,  la  morte  di  Vittorio  avvenuta  in  strane circostanze, sollevò molte perplessità, che tali restarono, ma che dettero il colpo finale alla fibra di Berta.

Lei apprese della morte del figlio mentre era ricoverata
presso un pensionato di persone anziane. Quando ascoltò
la  figlia  Mafalda,  costretta  a  rivelargli  che  Vittorio  non
c’era  più  per  le  mancate  visite  del  figlio,  Berta  non
resistette al dolore e si lasciò morire senza più assumere le
medicine che era costretta a prendere giornalmente.

 

 

 

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30

IL VIALE DEL TRAMONTO

 

 

 

 

«Come  ti  chiami?»  Berta  chiedeva  alla  figlia.  I  suoi
momenti  di  confusione  mentale  diventavano  sempre  più
frequenti. Gli  ultimi  drammi avevano  messo in  croce  la
donna.

La  povera  Mafalda,  si  preoccupò  moltissimo  per  lo
stato  di  salute  mentale  della  madre  il  giorno  in  cui  le
chiese che cosa stesse aspettando per mettere al mondo dei
figli.

«Mamma» le rispose turbata «che stai dicendo? Proprio una settimana fa a cena hai dato la paghetta a Giulia ed Enrico, i tuoi nipoti. Come fai a non ricordarlo?»

Berta era solita dare ai suoi nipotini la paghetta ed era
felice di dargliela personalmente. Si sedeva e apriva la sua
borsa. Tirava il portafoglio con molta lentezza e prendeva
prima  due  banconote  da  cinquanta  lire  chiamando  per
nome  Giulia,  la  più  maggiore  dei  due  nipotini  e  poi
un'altra di pari taglio che consegnava a Enrico di due anni
più  piccolo.  Dopo  offriva  la  guancia  per  il  bacio  di
ringraziamento.

Ormai  era  un  rito  settimanale!  Come  faceva  a  non
ricordarsi sua madre che non aveva figli? E dire che erano
stati  entrambi  tenuti  a  battesimo  da  lei.  Qualcosa  non
andava.  Ne  parlò  con  il  marito,  ma  Giovanni  la
tranquillizzò. Le parlò  di un vezzo frequente della terza

 

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età  di  confondere  vecchi  ricordi  o  di  non  ricordarsi  le
cose. Era normale. Non aveva nulla da temere.
     Mafalda si abituò ai vuoti di memoria della madre, che per il resto continuava ad avere un aspetto normale, e a occuparsi delle sue opere di beneficenza. Aveva soltanto un’avversione  verso tutto  ciò che  riguardava la sua vita passata.  Era  come  se  avesse  voluto  dare  un  colpo  di spugna alla sua precedente vita.

Diceva di non ricordare più il nome del marito e a volte
diceva allusivamente di non ricordare nemmeno di essersi
mai sposata.

Mafalda ne parlò con uno neurologo. La risposta che fu
data  alle  sue  domande  era  che  la  madre  aveva  rimosso
dalla sua memoria i ricordi spiacevoli che riguardavano il
marito,  la  cui  unione  non  era  stata  felice.  Per  il  resto
ragionava perfettamente e non c’era da preoccuparsi.

 

 

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EPILOGO

 

 

Io  non  ho  mai  conosciuto  la  signora  Berta  di  cui  ho raccontato la sua triste vicenda e quella della sua famiglia e i fatti legati alla guerra e al dopoguerra che in qualche modo ho vissuto anche io, ma ho avuto modo di parlarne con la signora Mafalda, mia coetanea.

 

Il giorno che la incontrai mi parlò di sua madre.

«Lei non sa la pena che mi ha fatto  povera donna» mi
disse  con  le  lacrime  agli  occhi,  il  giorno  in  cui  ci
trovammo nel pensionato per anziani Maria Ausiliatrice di
Cibali.

Mafalda era andata a trovare la madre per dirle della morte del fratello Vittorio.

Avrebbe  dovuto  non  dirglielo,  ma  lei  insisteva  per
sapere il perché Vittorio non venisse più a cercarla né a
telefonarle.

Berta la guardò negli occhi come a dirle che non poteva
essere  vero.  Mafalda  la  consolò,  la  strinse  al  petto  e  le
confermò che purtroppo quella era la verità. Vittorio non
c’era più.

La povera Berta piangendo le disse che la maledizione
aleggiava su di lei perché era stata una cattiva donna e il
Signore  l'aveva  punirla  per  non  essere  stata  fedele  al
marito.

In  quest’occasione  le  rivelò  che  Titti  e  Vittorio  non
erano figli del marito, che lei aveva tradito per soddisfare i

 

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suoi  capricci  e  il  suo  egoismo.  Fu  così  che  Mafalda
conobbe  pure  la  disavventura  del  padre  e  le  chiese
perdono.

Ma di cosa doveva perdonarla, se non di nulla, essendo stata sempre per lei una madre perfetta?

Mafalda  l’abbracciò  consolandola  e  invitandola  a dimenticare il suo passato e di avere fiducia nel Signore e di pregare la Madonna per le anime dei loro cari.

Anche  lei  le  disse  che  quanto  era  avvenuto  non  era stato  per  sua  causa,  ma  della  maledetta  guerra  e  della cattiveria degli uomini e che il Signore non era un Dio di vendetta ma un Dio misericordioso.

Quando  Mafalda  ritornò  a  trovarla,  il  suo  stato  era peggiorato.  Le  chiese  ancora  perché  Vittorio  non  le telefonasse ancora…

La figlia si rese conto che aveva dimenticato la visita precedente.  «Tranquilla  mamma,  Vittorio   sta  bene.  Per adesso non può venire perché si trova in Egitto».

Forse era meglio che lei non ricordasse più. Il Signore ha avuto pietà di lei facendole dimenticare ogni cosa.

 

 

Quando  per  puro  caso  mi  presentarono  Mafalda,  mi
colpì quel suo cognome, quasi simile al mio. Via via che
entrammo in confidenza, lei mi raccontò la storia dei suoi
genitori.  Fu  in  questa  circostanza  che  una  vicenda  in
particolare  mi  richiamò  alla  memoria  un  episodio  della
vita  di  mio  padre,  da  lui  raccontatomi  durante  uno  dei
ricordi della sua gioventù e riguardanti, quasi sempre le
peripezie affrontate durante la guerra da lui combattuta e

 

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da me pure vissuta.

L’episodio  in  questione  riguardava  la  sua  mancata partenza per l’Etiopia nel 1935 nonostante ne avesse fatto richiesta di volontariato.

Le rimanenti cose che mi raccontò di sua madre e della
sua  famiglia,  miste  alle  mie  conoscenze  storiche  del
periodo  da  me  in  parte  vissuto,  hanno  stimolato  la  mia
fantasia, al punto tale di mettere in moto la mia mente e
riportare   sulla   carta   un   racconto   tinteggiato   da
ricostruzioni fantasiose ed in parte anche vere. E’ cosi che
è nato questo mio libro, dallo sfondo storico e infarcito da
personaggi un po’ inventati, un po’ veri, ma adeguati ad
un’epoca dalle molteplici sfaccettature.

 

 

 

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Ormai molti anni sono passati anche dalla morte della
povera  signora  Mafalda.  Il  vento  del  tempo  ha  forse
cancellato la storia di una famiglia che ha attraversato le
peripezie della seconda guerra mondiale e il resto, ma lì,
nel vecchio cimitero, una tomba, ormai poco curata, quasi
dimenticata,  con  le  foto  e  i  nomi  delle  persone  da  me
descritte, resta a ricordarle tutte.

Sulla  lastra  di  marmo,  dove  sono  riportate  le  foto  di
tutti i personaggi della famiglia, spicca quella maestosa di
Manuela Filiberta di Savoiano con la scritta, voluta dalla
figlia Mafalda:

MADRE E NOBILDONNA IRRIPETIBILE.

 

 

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Nota dell’Autore

 

 

Tutte le volte che mi accingo a scrivere dei racconti,
istintivamente  li  ambiento  nel  periodo che ho  vissuto, e
che  ancora  adesso  vivo.  Magari  potrò  essere  tacciato  di
poca fantasia o di poco talento creativo, in realtà è la vita
vissuta  che  mi  offre  tutto  un  panorama  di  eventi  e
personaggi  adatti  a  stimolare  la  mia  sensibilità.  È come
avere davanti agli occhi un modello inesauribile dal quale
attingere dati da riportare sopra una tela dipingendoli con
il colore dei miei pensieri.

Penso che non sia un caso del tutto isolato quello di esternare il proprio pensiero, attingendone la materia dal mondo che sta intorno, pronto per essere colto.

Da questo punto di vista, quindi, penso di essere nella
norma.  Tuttavia  ritengo  che  le  vicende  da  me  vissute,
giustifichino  questa  mia  tendenza,  essendo  partecipe  e
testimone  di  eventi  avvenuti  recentemente  e  nel  breve
passato del tutto eccezionali. Ho vissuto una delle guerre
più intensamente coinvolgente e sconvolgente: la seconda
guerra  mondiale  e il  susseguente  periodo  di  ritorno  alla
normalità.  Da  questi  fatti  emergono  aspetti  tremendi  e
personaggi del tutto fuori dal comune, che caratterizzano
l’epoca  e,  pertanto,  stimolanti  e  degni  di  essere
evidenziati.  Come  si  fa  a  non  restare  impressionati  da
figure  come  Hitler,  Mussolini,  Italo  Balbo  e  delle
innumerevoli persone che intorno a essi hanno intessuto la
loro  vita  costruendo  una  realtà  complessa  e  ricca  di

 

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sentimenti e vicende che non possono passare inosservati da  parte  di  chi  li  ha  conosciuti  o  anche  sfiorati inconsapevolmente.

Come si fa a non ricordare le bombe cadere dal cielo
come  la  grandine,  le  macerie  e  le  morti  cui  hai  dovuto
assistere  tuo  malgrado  o  tutti  i  personaggi,  che  dopo  la
sopraggiunta pace, sono apparsi in una continua agitazione
tendente   alla   ricostruzione   con   una   caparbietà
ammirevole,   magari   sconfessando   le   aspirazioni
precedenti o anche nostalgicamente ricordandole.

A solleticare il mio interesse, è il fatto storico in se
stesso, iniziato con una banalità spaventosa e succeduto a
un precedente sanguinoso evento, che mai avrebbe dovuto
avere un seguito così repentino e micidiale. Infatti appena
una  ventina  di  anni  separano  le  due  grandi  guerre
mondiali.

Da  questa  realtà  testé  descritta,  vengono  fuori  dei
personaggi emblematici e rappresentativi, degni di essere
evidenziati.  Uno  dei  tanti  che  mi  sono  inventato  è
Manuela  Filiberta  di  Savoiano,  una  figura,  in  cui
convergono  molti  aspetti  che  riguardano  in  generale  le
donne di quel periodo, come per esempio il voler essere il
prodotto finale di discendenze regali, la volontà velata di
voler gareggiare con gli uomini  in dignità e libertà, pur
subendone  il  fascino  e  la  dipendenza,  il  desiderio  mai
sopito  di  una  famiglia  unita,  anche  se  complicata  e
l’apparire  all’orizzonte  di  problematiche  fino  ad  allora
ignorate o sottaciute.

La  mia  intenzione,  nel  parlare  di  questa  fantomatica
donna, è stata quella di voler individuare tutti gli spunti di

 

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quelle spinte emotive che solamente dopo il 1968 hanno
consentito  l’emancipazione  delle  donne.  Diciamo  una
figura  di  mezzo  tra  l’antico  e  il  moderno,  con  tutti  i
risvolti e le caratteristiche che vengono evidenziate, una
precorritrice dell’odierna figura femminile proiettata verso
cime un tempo mai sperate.

Chiaramente, attorno a essa circolano altri personaggi
caratteristici dell’epoca, pieni di contraddizioni, di eroiche
prese  di  posizione,  di  disagio  morale  e  di  eccessivo
protagonismo.

In sostanza, ho voluto semplicemente rappresentare lo scenario  di  tutto  un  periodo,  il  mio,  in  cui  l’umanità  è incorsa   in   errori,   profonde   contraddizioni,   disagi, esaltazioni, fallimenti e miseri esiti di vita.

Intendo  precisare  che  ogni  personaggio  assomma  le caratteristiche di più persone da me conosciute, o di cui ho avuto sentore. A eccezione delle figure storiche, citate per inquadrare nel tempo i personaggi fantasiosi da me creati. Non  è  possibile  fare  alcun  riferimento  a  singole  e  ben individuate persone realmente esistite.

Voglio  semplicemente  dire  che  la  signora  Berta  altro
non è che la sommatoria di altre figure di donne vissute in
quel  periodo;  parimenti  per  le  altre  figure  descritte  nel
racconto.

La signora Berta, e anche i suoi figli e le altre persone, sono personaggi di comodo che mi hanno permesso di rac-
contare la mia epoca, anche se mi sforzo di farli apparire veri  con  addentellati  e riferimenti  reali, attribuendo  loro vicende da altre persone realmente vissute.

Quello  che  maggiormente  ho  voluto  evidenziare  è  il

 

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personaggio  abbastanza  complesso  di  questa  donna,  che costituisce una figura simbolo.

La signora Manuela Filiberta di Savoiano è una vera
eroina di un periodo oscuro per l’Italia che, vittima della
guerra e delle sue tristi conseguenze, ha saputo sollevarsi
dallo  stato  di  miseria  morale  in  cui  era  precipitata,
seguendo il suo istinto, per ergersi al ruolo di protagonista
di una nuova vita, che è stata anche di guida per tutta la
famiglia.   Ha   superato   le   difficoltà   incontrate,   ha
commesso forse anche degli errori, ma alla fine è riuscita
a dare un senso alla sua famiglia e a se stessa.

Pur  condizionata  dalla  grave  menomazione  di  un
marito,  dedito  a  fantasiosi  ideali  di  eroismi  che  ha
anteposto  alla  famiglia,  non  lo  abbandona  e  pur
sopportandone l’ingombrante presenza, non lo trascura del
tutto  restando  fedele  all’impegno  di  mutua  assistenza
assunto con il matrimonio.

Da questo punto di vista costituisce il prototipo della
donna moderna, libera dei vecchi tabù, proiettata verso la
conquista dei suoi ideali di libertà e parità con gli uomini.
Riesce infine  a raggiungere il  successo  da lei agognato,
anche  se,  come  sempre  accade  anche  agli  uomini,  deve
arrendersi  al  dolore  e  alle  tristi  evenienze  della  vita,
calpestando dei principi morali fondamentali.

È da questo punto di vista che la sua figura appare profondamente umana, sia nel bene che nel male, e riesce a dimostrare che anche in questo la donna è pari all’uomo in ogni sua manifestazione di vita.

Spero,  comunque,  che  la  lettura  del  racconto  in  ogni
caso  sia  utile  per  apprendere  delle  notizie  e  qualche

 

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particolare episodio del nostro ultimo periodo storico ed
emerga, infine, la volontà di condannare quella maledetta
mania che noi uomini abbiamo di fare le guerre e mettere
in  atto  tutte  quelle  cattiverie  che  affliggono  l’umanità
spacciandole per eroiche imprese e cose buone.

 

Pippo Nasca

 

 

 

 

 

 

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