Pippo Nasca
MANUELA FILIBERTA DI SAVOIANO
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A CAMPAGNA D'ETIOPIA
Introduzione
Prima che inizio a parlare di questa storia è
necessario
che spiego la situazione politica di quand'è iniziata,
partendo dai fatti antecedenti alla campagna d’Etiopia, che
ebbe per scopo la
sua colonizzazione da parte del regime
fascista. Ciò per avere un quadro chiaro degli eventi che si
succedono nel
racconto, dove i personaggi si muovono,
mescolandosi a quelli storici, in un groviglio di vicende
che
consentono al lettore di conoscere e valutare gli acca-
dimenti, le cui conseguenze, per certi versi, continuano a
persistere.
Tra il 3 ottobre del
1935 e il 5 maggio del 1936 si
svolse la guerra d'Etiopia, che vide contrapposti il Regno
d'Italia e l'Impero d'Etiopia. Fu la campagna coloniale più
grande della storia italiana e fu
anche un conflitto
altamente simbolico, dove il regime fascista impiegò una
grande
quantità di mezzi propagandistici con lo scopo di
impostare e condurre una guerra in linea con le esigenze di
prestigio
internazionale e di rinsaldamento interno del
regime stesso, volute da Benito Mussolini, con l'obiettivo
a lungo
termine di orientare l'emigrazione italiana verso
una nuova colonia popolata da italiani e amministrata in
regime di
apartheid sulla base di una rigorosa separazione
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razziale.
Nonostante una dura resistenza, le forze etiopiche
furo-
no
soverchiate dalla superiorità numerica e tecnologica degli italiani e il conflitto si concluse con l'ingresso delle
forze di Badoglio nella capitale Addis Abeba.
Una delle conseguenze cui venivano sottoposti i soldati Italiani, che per malaugurata sorte cadevano nelle mani degli abissini, vivi o morti, feriti o no, era quella di essere sottoposti alla immediata castrazione.
Non appena catturati, li legavano come tanti salami
e,
strappati i calzoni, con un colpo secco tagliavano loro i
testicoli, lasciandoli dissanguare. Nel caso che restavano
vivi, li sgozzavano con un colpo di
pugnale alla gola.
Quest’usanza era invalsa come ritorsione allo
scorretto comportamento dei
soldati, proiettati alla conquista del-
l’impero, voluto dal Benito nazionale.
Mi spiace ammetterlo, ma i nostri soldati, tutte le
volte
che conquistavano un villaggio, prima di darlo alle
fiamme, non tralasciavano di stuprare le donne, qualunque
fosse la loro età. In questo
erano simili a bestie assatanate
che sfogavano i loro istinti sessuali senza ritegno e senza
rispetto.
Per inquadrare bene nel tempo questo racconto,
credo sia necessario spendere qualche rigo di chiarimento.
Per intenderci l’episodio della partenza del primo contingente per la guerra di Etiopia, avvenne alla fine del
1935 o forse all’inizio del 1936, quando mio padre ancora celibe e proprio a causa della mancata
partenza per l’Etiopia, decise di sposarsi. Era già fidanzato con mia madre e fu così che io nacqui
nel 1937.
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Mi preme evidenziare il clima politico di quei giorni.
Il Duce era già in sella al governo da quasi un decennio
e
armeggiando con i suoi metodi, improntati al chiaro-
oscuro politico internazionale, si barcamenava in materia
di
politica estera, seguendo le vicissitudini tedesche e
inglesi. Egli vedeva la politica estera in funzione del suo
rafforzamento in seno all’Italia e allo stesso fascismo.
All’inizio non lasciava capire una tendenza del suo futuro
appoggio alla
politica aggressiva tedesca. Anzi nel 1930
aveva condiviso con l’Inghilterra i Patti di
Stresa, che
volevano porre un argine alle aspirazioni di
Hitler.
A Mussolini non era piaciuta tanto l’annessione
del-
l’Austria alla Germania, che rendeva meno sicuri i confini con quest’ultima in fase espansionistica.
Al tempo si temeva che a Hitler sarebbe potuto
venire
il ghiribizzo di riprendersi il Trentino e il Sud-Tirolo. Per
di più l’adesione a quei Patti
gli consentiva di acquisire
meriti di
paciere e prestigio in seno alle Nazioni Unite, da
sbandierare in Italia per far crescere il suo consenso
inter-
no e imporre con maggiore incidenza il suo dispotismo
politico.
Fu in questo periodo che varò la nuova legge elettorale,
che sanciva la lista unica dei candidati da lui stabiliti con
l’abolizione di altre liste e dei partiti, tranne il Fascismo.
Per quanto il Duce sembrasse di voler costruire un argine contro le mire germaniche, al contempo friggeva dal desiderio di imitarle per dare corpo alla sua idea di rifondare l’impero romano dei secoli scorsi.
Purtroppo le condizioni economiche delle casse italiane
non gli consentivano di fare la
stessa politica spavalda e
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aggressiva di Hitler, ma
pur di realizzare il suo sogno,
cercò di ottenere il massimo con il minimo sforzo, cercan-
do di individuare le nazioni più
deboli da conquistare. Una
di questa fu l’Albania, che capitolò senza colpo ferire; la
sua conquista si rivelò una passeggiata per il nostro
esercito e, deposto l’inetto Re Zog, Vittorio Emanuele III
diventò Re d’Italia e
d’Albania.
La seconda nazione individuata fu l’Etiopia, un
paese
povero e senza risorse quanto l’Albania, confinante con la
Somalia, già colonia italiana, decantato dalla propaganda
come un
paese ricco di tesori e di metalli utili all’industria
italiana. Fu proprio intorno agli anni
trenta che il Duce
cominciò a ideare una guerra nei confronti di quest’ultima
nazione, preparandone i presupposti in maniera subdola
con le famose leggi autarchiche che
imponevano agli
italiani di risparmiare sulle spese interne per dirottare le
risorse economiche alle esigenze militari, preminenti per
gli interessi dello Stato.
Dopo un’accurata preparazione
e una superficiale
valutazione della situazione, finalmente, nonostante la sua
posizione in seno alle Nazioni Unite, dopo aver creato
degli strumentali incidenti di frontiera, il 2 ottobre 1935,
dal balcone di Palazzo
Venezia annunciò che la guerra con
l’Etiopia era iniziata.
«Abbiamo pazientato quarant'anni. Ora Basta!» disse con voce ferma e convincente. La reazione delle Nazioni Unite furono le sanzioni economiche contro l’Italia, che non colpirono i prodotti petroliferi, utili per condurre la guerra, anzi favorirono il traghettamento della politica estera italiana verso quella tedesca.
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Queste sanzioni nelle mani del Duce si
trasformarono
in leve da usare per stimolare l’odio nei confronti della
perfida Albione (l’Inghilterra), che voleva impedire
al-
l’Italia di mettere le mani sulle tante decantate ricchezze
dell’Etiopia, facendogli farneticare future aggressioni al
Canale di Suez, a Malta e allo Stretto di Gibilterra, per
distruggere il suo mondo coloniale, e non solo questo.
Tali sanzioni gli consentirono di spremere meglio gli Italiani e di alleggerire le loro tasche, con la decurtazione del 12% degli stipendi statali e con la famosa operazione della donazione dell’oro alla Patria.
Dagli anulari della mano sinistra di tutte le coppie di sposi scomparvero le fedi auree, per dar luogo a quelle di alluminio, fornite dallo Stato in sostituzione di quelle spontaneamente donate.
Si insinuò in seguito
che non tutto l'oro prese la via
dell’erario dello Stato, ma che furono dirottate nelle tasche
di qualche gerarca; lo
scandalo fu messo a tacere e fu solo
glorificata la dedizione e l’amor di Patria degli Italiani.
La guerra contro l’Etiopia
non fu un'operazione
semplice così com'era stata prospettata, poiché il Negus
ricevette gli aiuti militari dalle Nazioni Unite, diventate
ostili all’Italia, e il Duce fu
costretto a inviare altri
contingenti militari, provvedendo anche alla
rimozione
dell’inetto comandante generale De Bono, in compenso
promosso Maresciallo d’Italia e sostituito dal più energico
e incisivo generale
Badoglio.
Fu necessario impiegare anche l’aviazione,
all’inizio
non prevista, per bombardare le postazioni militari. Tale
impiego, in verità fece arricciare il naso al Duce, poiché
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determinò un rafforzamento non
gradito della posizione politica di
Italo Balbo e aizzò maggiormente la propagan-
da delle Nazioni Unite contro l’Italia per l’eccidio della cittadinanza civile coinvolta.
Sì, Italo Balbo! Anche costui era un problema per il Duce. Per lui rappresentava un pericolo costante, emergente dalla situazione interna. Ne temeva la crescente fama, temendo che potesse scalzarlo dal posto di capo del Fascismo e del governo.
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LA RACCOMANDAZIONE FATALE
La malaugurata sorte di cadere vivo tra le mani degli abissini era capitata al camicia nera, Paolo Nascara, volontario, che per fortuna era riuscito a riportare a casa, se non le palle, almeno la vita.
Durante un combattimento, una decina di camerati, tra i quali c’era anche lui, erano stati soverchiati da un’orda di abissini, e nonostante la strenua difesa, finite le munizioni, furono tutti catturati, svestiti, e castrati. In seguito, alcuni degli uomini armati da coltelli affilati, avevano sgozzato quelli che trovati ancora vivi.
Il povero Paolo, avendo capito la situazione, nonostante l'atroce dolore, quando giunse il suo turno, si guardò bene dal lamentarsi e si finse morto.
Fu così che rimase vivo e dolorante.
Subito dopo, per fortuna, avvenne un rovesciamento di fronte, e quando le truppe italiane avanzarono, proiettate alla conquista di Addis Abeba, Paolo fu raccolto dalla Croce Rossa Italiana e portato in un ospedale da campo dove fu curato, e dopo rimpatriato in Italia.
Paolo Nascara, per andare a combattere in Etiopia,
si
era fatto raccomandare e grazie ad influenti amicizie, era
riuscito a scalzare un certo Paolo
Nasca, arruolato in
precedenza.
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Il Nascara non era un Camicia
Nera qualunque.
Invo-
gliato dalla
propaganda e coinvolto dalla sete di grandezza
dell’Italia, aveva contribuito, e non
poco, alla conquista
del potere fascista, punendo i sovversivi con il manganello
e costringendoli talvolta alla purga con l’olio di ricino.
Insomma, avendo partecipato alla marcia su Roma,
era
un milite fortemente motivato e aspirava a coprirsi di
eroismo e di gloria, in occasione della conquista
dell’ago-
gnato posto al
sole e quando si presentò come
volontario
per
combattere in Etiopia, rimase male nel sentirsi dire che
ormai i posti erano stati tutti
coperti e che occorreva
attendere una successiva chiamata, nel caso vi fosse stato
bisogno.
Era opinione comune che quel contingente sarebbe bastato a conquistare l’Etiopia; quindi, chi non partiva era escluso dalla gloria della sicura conquista.
La propaganda aveva ottenuto il suo effetto.
Quanti partivano volontari, erano pienamente convinti che la guerra in Africa fosse poco più che una passeggiata. In fondo si trattava di combattere contro uomini neri di razza inferiore, armati malamente di lance e coltelli, tra l’altro felici di essere conquistati da quel popolo grande e civile, che era quello italiano.
“Faccetta nera, bell'abissina
Aspetta e spera che già l'ora si avvicina! quando saremo insieme a te,
noi ti daremo un'altra legge e un altro Re”.
Questo ritornello, alternato all’inno di Mameli,
veniva
strombazzato dalla Radio, assieme ai bollettini dei prepa-
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rativi militari, e ai roboanti discorsi del Duce, trasmessi direttamente da Palazzo Venezia a Roma.
Il Camicia
Nera Paolo Nascara non poteva
arrendersi
dopo essere stato imbottito dalla propaganda convincente
e lusinghiera. Non poteva! Lui, con tanto di fez in testa e
quella camicia nera che indossava con religioso orgoglio
anche quando andava a dormire, non poteva essere escluso
da quella sicura e storica
gloria annunciata, dopo tutto ciò
che aveva fatto per la causa.
Nel suo paese d’origine,
Gravina di Catania, aveva
indossato fin da subito la camicia nera, aveva fatto buon
uso del
manganello sul groppone di viddani
ribelli, aveva
fatto ingoiare il salutare olio di ricino a qualche
facinoroso
sindacalista e addirittura aveva schiaffeggiato in pubblico
il maresciallo dei carabinieri. Certo quella volta fu dura e
dovette
ringraziare i camerati per averlo fatto sfuggire
dalle grinfie degli sbirri e non finire in gattabuia.
Per queste ragioni si presentò al gerarca capo-manipolo
e dopo aver
romanamente salutato chiese di voler essere
aiutato a esternare il suo furore patriottico. Di sicuro gli
faceva gola la lauta paga prevista per quell’impresa, ma
Paolo ribadiva che non era questo
il motivo del suo
disappunto. Voleva raggiungere l’apoteosi e
la giusta
ricompensa del suo fremente amor di patria per L’Italia, il
Re e il Duce.
Tanto girò per le sedi del Fascio di Catania e tanto
si
dette da fare che infine riuscì a salire sul piroscafo per
l’Abissinia, con sulle spalle lo zaino, il
fucile e l’elmetto,
lasciando a casa la giovane moglie
e anche una figlia,
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ancora neonata.
Il bacio, l’abbraccio e le lacrime di pianto della
moglie
e di gioia sue, nonché la foto con la bandiera tricolore ac-
canto, l’inno nazionale che si accompagnava alle ovazioni
nei confronti
del Duce, fecero parte della partenza degli
eroi, conquistatori di un nuovo corso ancora più nuovo e
glorioso.
Da quella partenza aveva inizio lo storico evento della rifondazione dell’impero romano e lui, col suo moschetto e con il suo bagaglio di grandi aspirazioni patriottiche, era tronfio e felice di essere tra i futuri eroi.
Anche lo sbarco, avvenuto in suolo già conquistato dall’Italia in Somalia, colonia italiana in precedenza acquisita, non dette fastidio.
Fu soltanto dopo che la conquista dell’Etiopia si
rivelò
abbastanza dura per la resistenza opposta dagli indigeni,
trovati laceri e scalzi, ma in possesso di armi abbastanza
efficienti,
fornite da altre nazioni opposte all’Italia e alla
Germania. Difatti, la perfida Albione, come l’Inghilterra
era
indicata dalla propaganda, era intervenuta a difesa
dell’Etiopia fornendo armi modernissime e con le sanzioni
contro l’Italia.
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LO SCAMBIO DI PERSONA
L’opportunità dell’arruolamento era abbastanza ghiotta per il suo avvenire. Lui non voleva fare la fine del fratello Ciccio, che per la sua avversione al fascismo era rimasto inchiodato in paese senza arte né parte.
Anch'egli coinvolto dalla propaganda fascista, credeva a tutto ciò che Mussolini predicava, peraltro senza il fanatismo eccessivo del momento. Polo Nasca credeva di poter ritornare dall’Etiopia con un gruzzoletto, raccolto con il premio del suo volontariato, e acquisire nello stesso tempo dei meriti in seno alla società.
D’altronde non vi era altra prospettiva nel suo paese, se non quella del lavoro nei campi, pur avendo già appreso il mestiere di falegname ebanista, di sicuro sviluppo, ma al momento non tanto richiesto.
Non pensava che in quell’impresa militare avrebbe potuto lasciarci la pelle. Credeva fermamente a quanto veniva predicato dalla propaganda.
Qualche giorno dopo dall’avvenuta partenza del
piro-
scafo per l’Abissinia, il giovane Paolo Nasca nativo di
Grammichele, si presentò alla casa del Fascio di Catania
per conoscere la motivazione del suo mancato precetto,
nonostante la conferma dell'arruolamento volontario, a suo
tempo notificata.
Nessuna comunicazione era arrivata a casa del
giovane
aspirante volontario, regolarmente arruolato. Si trattava di
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mio padre, allora giovanissimo, e anche lui alla
ricerca di
una fetta di gloria e del pezzo di pane giornaliero da
guadagnarsi.
«Non può essere camerata» gli fu semplicemente
detto.
«Dai
nostri documenti risulta che tu sei partito. Come fai a
essere ancora qui? Mica hai disertato fuggendo a nuoto?»
«Chi, io? Ma se non stavo aspettando altro di
partire.
Com’è scritto qui, su questo foglio, firmato dal Podestà.
Dovevo attendere soltanto di essere
avvisato del giorno
della partenza. Non mi è arrivata nessuna comunicazione e
solo ieri ho appreso dalla Radio che la nave dei volontari è
già partita ed è per questo che sono venuto a
informarmi.»
«Impossibile» fu la risposta. «Risulta che sei imbarcato e avendo dato conferma del ricevimento del precetto, sei stato anche avvisato in tempo utile.»
«Non ho ricevuto nulla né firmato nessuna conferma di ricevimento» fu la sua risposta.
«Bella questa...» affermò il
gerarca, grattandosi
dubbioso il mento. «Vediamo che cosa ci sta sotto a questo
imbroglio».
Prese un altro registro, quello con i verbali
d’imbarco e
scorse le righe velocemente con il dito. Al numero
corrispondente al nome di Nasca Paolo di Gr di CT, vi era
un altro nome del tutto
simile: Nascara Paolo di Gr di CT.
«Che significa quel Gr? Tu sei di Gravina di Catania? Ma ti chiami Nasca o Nascara?»
«No, sono di Grammichele in provincia di Catania e mi chiamo Nasca e non Nascara» fu la risposta secca.
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«Ho capito tutto, camerata!»
rispose il gerarca, dopo
aver verificato la tessera d’iscrizione al fascio. «Ti hanno
fatto le scarpe! Al posto tuo è partito un certo Nascara
Paolo di Gravina di Catania» disse grattandosi ancora il
mento. «È stato
facile modificare il cognome. N-corpu di
pinna o cuntrariu.»
«Allora?» domandò il mancato volontario.
«Allura,
nenti! Che cosa vuoi fare? Si vede che
costui
era cchiù ammanigghiatu
di tia. È così la vita...
Chi ci voi
fari?».
«Che significa accussì è la
vita? Voglio fare ricorso al
Duce. Dovevo essere io a partire. Voglio sapere chi mi ha
imbrogliato».
«Non concluderesti nulla. Figurati se il Duce, con
tutto
il da fare che ha, possa occuparsi di una tale sciocchezza.
La pratica sarebbe affidata a qualcuno, che direbbe esserci
stato un banale errore. E poi per la Patria o lui o tu non ha
importanza. Ciò che conta è che il posto sia stato coperto.
Se
si fosse trattato di diserzione, sarebbe stato diverso. Il
caso si sarebbe finito davanti al plotone d’esecuzione! Sei
stato fortunato. Qui il caso è opposto. Capisci, camerata?
Bonu facisti a
veniri. Così si è chiarito tutto.
Avresti potu-
to passare i guai, mittennu ca
t’attruvava ccà, mentri ave-
vi a essiri ddà.
«Sì, ma io sono stato defraudato di un diritto, che mi toccava. Dovevo essere io a partire».
«Eh, tu non sai. Con la giustizia militare non si va tanto
per il
sottile. Vai a farlo capire ai giudici della Corte
Marziale che sei stato raggirato. Quelli avrebbero pensato
che ti eri
pentito di partire. Certo, hai ragione a sentirti
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danneggiato per non poter
partecipare a questa gloriosa
impresa, ma un tuo ricorso non
approderebbe a nulla,
poiché è meglio ignorare gli imbrogli che sono fatti sotto
banco. La scoperta dell’inganno darebbe solo fastidio e
imbarazzo, perché la cosa più importante per il regime è
che tutto
sembri giusto, bello, leale e senza macchia. Se
poi c’è qualche sbavatura, cosa vuoi che conta? Meglio
ignorarla.
Dopo tutto, tu o un altro, cosa vuoi che sia
rilevante ai fini del risultato finale
della conquista
dell’Etiopia?! Ascuta a mia, è
megghiu starisi mutu e fari
finta di nenti. Ci fai cchiù
figura.»
A Paolo Nasca non restò che salutare, romanamente piccato, girare i tacchi e andarsene.
Da quel giorno mise da parte la camicia nera e fu anche
tentato
di strappare la tessera del Partito in faccia al
Podestà, ma non lo fece perché questo avrebbe significato
la sua morte
civile e la certezza di non poter trovare alcun
tipo di lavoro in Italia, guadagnandosi solo la nomea di
sovversivo,
così com’era accaduto al fratello Ciccio, che
mai si era voluto iscrivere al Partito ed era
rimasto a
vivacchiare a Grammichele.
Non partecipò più alle alle adunate, alle
manifestazioni
patriottiche, parate militari e quant’altro
aveva praticato
nell’ultimo periodo e, ricordandosi di
avere un mestiere
che avrebbe potuto rendere bene,
cominciò intanto ad
accettare quel lavoro di segantino che
gli si offriva a
Caltagirone, nel bosco di Santo Pietro, e a dedicarsi al
lavoro
saltuario di ebanisteria, finché non fu richiamato,
essendovi in aria odore di guerra imminente.
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Che fare? Non poteva non rifiutarsi. Fu tentato di
farlo,
per protesta al torto subìto, ma capì che quest’ultima gli
sarebbe costata cara. Tuttavia si presentò e fu assunto
come operaio
militarizzato col grado di sergente maggiore
dell’aviazione, dove gli fu assegnato il compito di riparare
gli aerei
che ritornavano a Catania sforacchiati dalle
mitragliatrici nemiche.
Vi chiederete cosa c’entrasse il mestiere di falegname con gli aerei militari. Vi dirò che era pertinente perché i nostri aerei, allora, erano rivestiti non da lamiere, ma da compensato verniciato e i buchi provocati dalle pallottole venivano riparati con una tecnica particolare.
Sì, i nostri aerei, i
famosi caccia che andavano a
bombardare Malta erano di compensato verniciato!
Fu così che Paolo Nasca, mio padre,
durante la seconda guerra mondiale, trascorse la vita militare a peregrinare per gli aeroporti di fortuna della Sicilia, tappando i buchi da mitraglia ai nostri aerei,
riuscendo a conservare la propria pelle e anche i suoi attributi maschili, che invece furono lasciati in Etiopia da quel povero Paolo Nascara, suo sostituto volontario alla conquista del fantomatico impero romano.
Non tutti i mali vengono per nuocere ed io forse
non
sarei qui a scrivere e raccontare questa vicenda! Infatti,
mio padre, fallito il suo tentativo di partire per l’Etiopia,
nel 1936 pensò solo a sposarsi e l’anno successivo nacqui
io.
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3
L’INSODDISFACENTE CARRIERA
Paolo Nascara, quando rientrò in
Italia, fu insignito
della Croce di Guerra, della Medaglia
d’argento e di
diritto fu inserito tra gli eroi del Fascio, con la promessa di
ricevere in futuro importanti incarichi
di responsabilità.
Intanto, trasferito a Roma, fu intruppato nella Milizia che
sostituiva le Regie
Guardie del passato Governo.
La sua menomazione fisica passò sotto silenzio.
Tanto
non si vedeva. Si sapeva che fosse stato ferito in Etiopia,
ma nessuno conosceva in quale parte. Anzi non si sentì più
parlare della
sua perdita di efficienza sessuale. Sarebbe
stato disdicevole e disonorevole per il regime il fatto che
un
eroico gerarca di grande spessore e utilità per lo Stato,
fosse stato evirato da quattro negracci selvaggi. Del resto
l’efficienza che mostrava con fierezza era in grado di
occultare quel neo. L’eroismo talvolta fortifica e rende per
di più
gli uomini più sodi e corpulenti e lui lo era. In
sostanza il suo aspetto era diventato più
prestante e più
imponente, così come avviene ai capponi del pollaio che,
esonerati da
certe incombenze, finiscono per ingrassare e
diventare sempre più maestosi.
Intanto era diventato uno dei
personaggi chiave del
partito, acquisendo i meriti per una folgorante carriera.
La moglie, grazie
alle sua conoscenza della lingua francese e del tedesco, era riuscita a inserirsi nel tessuto del partito, sfruttando il suo
notevole aspetto e la sua formazione. Nonostante il suo impegno politico, dopo il
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rientro del marito dall’Etiopia, oltre alla prima
figlia, ne
mise
al mondo un’altra e in seguito anche un figlio.
Ufficialmente il
padre di questi altri due figli era il marito, con il quale conviveva e molte volte compariva
nelle serate di gala. In effetti non lo era, poiché in Etiopia aveva lasciato i suoi
testicoli e con essi la facoltà di generare.
Si vociferava che il padre naturale di questi due
ultimi
era il Podestà in persona, con il beneplacito dell’eroico
marito. D’altronde il Nascara, pur di non far trapelare
la
sua menomazione, aveva accettato che sua moglie
frequentasse un sostituto, purché nulla si sapesse e fosse
salvo il
loro onore, che coincideva con quello della Patria,
del Partito e della Famiglia.
Nonostante l'apparente riservatezza della famiglia, di tanto in tanto qualche pettegolezzo affiorava.
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4
ITALO BALBO E TULLIO PETRONELLI
Il Podestà, oltre a
essere un bell’uomo, era pure un
illustre personaggio del mondo fascista. Per altri meriti era
riuscito a imporsi nel mondo politico. Era un altro
eroe del
partito, una persona che sapeva imporre con eleganza la
sua personalità. Si trattava dell’ex maggiore pilota Tullio
Petronelli, luogotenente del famoso Italo Balbo, che si era
permesso il lusso di dare del tu al Duce, di trattarlo con
molta e
forse eccessiva ironia, lasciandoci pure le penne,
ovvero le ali del suo aereo.
Il Duce, più che essere gratificato del
comportamento
di Italo Balbo, ne era sinceramente
frastornato e faceva
buon viso a cattivo gioco. Diciamo che si faceva piuttosto
scuro in viso tutte le volte che se lo trovava attorno,
amichevolmente sfottente e gioviale, pronto
a sfornargli
qualche battuta piccante e per niente gradita. Questo suo
fedele, ma
sopportato camerata, aveva raggiunto una certa
notorietà, per il comportamento da guascone molto gradito
dal popolo.
La sua popolarità era accresciuta dopo aver
trasvolato
l’Atlantico con il suo aereo, dall’Italia all’America, dove
era stato accolto con tutti gli
onori, assieme all'amico
luogotenente Tullio Petronelli e tutto il Gruppo di volo.
Un personaggio fondamentale per il PNF, capace di attirare intorno a sé le simpatie del popolo e di sicura fedeltà al Fascismo e al suo Capo riconosciuto.
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Per motivi di convenienza, non poteva essere ignorato dal regime né tanto meno dal Duce, poiché portava molta acqua al mulino, anche se nei suoi riguardi il sospettoso Mussolini diventava sempre più guardingo.
Non gli piaceva proprio la sua fama: avrebbe potuto oscurare lo splendore della sua figura, né tanto meno le sue guasconate che mostrava con sfrontatezza.
Non gradiva che lo si additasse come un suo successore alla guida dell’Italia e del PNF, anzi questa diceria non gli faceva dormire sonni tranquilli la notte.
Purtroppo Mussolini, come tutti i dittatori, non era
una
persona che amava circondarsi di persone di un certo
spessore e di una certa eminenza di
pregi. Più che la
gelosia era la paura che qualcuno
potesse detronizzarlo
dalla sua posizione di preminenza. Per questa ragione tutti
i
suoi collaboratori erano delle mezze cartucce, gente che
brillavano sì di luce propria, ma giusto quel tanto da non
intaccare il
suo splendore. Preferiva avere dei manichini,
degli obbedienti
ossequiosi e persone di una
intelligenza
limitata, che al momento opportuno li sostituiva per paura
che crescessero troppo e
lo mettessero all’angolo.
Da questo punto di vista non risparmiò nessuno
dalla
sua fisima. Nemmeno quel Galeazzo Ciano, che sposò sua
figlia, e che alla fine non esitò a farlo fucilare insieme a
Grandi, De Bono e altri che ebbero l’ardire di metterlo in
minoranza. Mussolini trovava sempre il modo per elimi-
nare diplomaticamente i possibili
camerati emergenti e tali
d'ambire alla sua carica di capo indiscusso di tutto.
Nei confronti di Italo Balbo, in verità si sentì spiazzato.
Il pensiero che lui
fosse indicato come il numero due del
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regime, quindi il suo successore, lo disturbava parecchio e non sapeva proprio come levarselo di torno. La sua defenestrazione non sarebbe stata accettata dal popolo fascista e questo era un grande pericolo.
Anche se Italo Balbo dimostrava di essergli fedele, quei
suoi atteggiamenti di
cameratismo estrinseco e largamente
manifestato, lo colpivano nel vivo. Per di più la sua fama
di valente pilota, di aver organizzato l’aviazione italiana,
di aver attraversato l’oceano atlantico con un primato da
numero uno,
lo sconvolgevano, ma rendevano sempre più
insolubile il suo problema.
Un metodo precedentemente applicato con successo
a
un altro
personaggio altrettanto scomodo, con il Balbo non
attecchiva, non era valido. Lui era troppo perfetto, troppo
fascistamente completo. Era troppo fedele questo
probabile aspirante alla sua leader-ship e che aveva
anche
il difetto
di possedere dei meriti che lui riconosceva di non
avere.
Mi riferisco a Gabriele D’Annunzio, il poeta
soldato,
che tanti problemi gli creò con quelle sue guasconate e
fughe in avanti senza il suo consenso in Dalmazia, e con
quella sua
teoria di alternativa al fascismo. Gli fu allora
facile studiare la sua personalità e
individuare il suo
tallone d’Achille, consistente nello scarso acume politico e
nell'immensa fame di denaro che lo assillava per realizzare
le sue
megalomani e faraoniche idee, tanto da renderlo
vulnerabile e addomesticabile oltre ogni limite.
Gli fu altrettanto facile relegarlo in quella sua fantastica
villa del Vittoriale, inondandolo di denaro a profusione,
che lo stimolava sempre più a insistere nella raccolta di
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cimeli, opere d’arte e quant’altro idoneo a stupire i posteri.
Tanto a lui bastava e tanto gli dava per renderlo docile e sottomesso.
Il D’Annunzio rinunziò spontaneamente alle sue vedute politiche, che poi non erano per niente incisive, dimenticò lui in prima persona e anche il popolo le sue eroiche gesta per dedicarsi al suo sogno di artista.
In questa posizione di beato isolamento il grande poeta soldato non solo non gli dette più fastidio, ma fu utile alla sua opera di progressione al potere, additandolo come esempio e sacra icona del fascismo.
Il maggiore Tullio Petronelli, amico di Italo Balbo
e al
pari di lui, gioviale e altamente invadente, era intimo
amico dei coniugi Nascara e
non si faceva scrupolo di
baciare e abbracciare la moglie di Paolo con troppa enfasi,
lasciando spazio alle illazioni, che in verità erano
certezze.
Né la signora sembrava restia ad accogliere le sue
effusioni di amicizia, che alimentavano
non poco i
pettegolezzi del regime, tutto basato sull’efficienza della
figura maschile. Tuttavia, il Petronelli non turbava la
psiche di Mussolini, che lo considerava di poco conto e di
poca aspirazione al potere, dal momento che si
accontentava di scopare la moglie di
quello stupido e
infingardo milite che si era lasciato tagliare i coglioni in
Etiopia.
No, proprio no, il Petronelli non era da temere. Era una persona controllabile e di secondaria importanza. Il suo diretto capo sì, quello era da eliminare. Ma come?
23
5
MANUELA FILIBERTA DI SAVOIANO
Chi era la moglie di Paolo Nascara, eroe
d’Etiopia e
gerarca di mezza tacca, assurto agli
onori del partito,
avendo perso le palle durante una
disgraziata azione di
guerra?
Indubbiamente una donna di una certa rilevanza, che
la
sapeva lunga in materia di uomini e di potere, che
senz'altro non mirava ad alte cariche nel partito, tra l’altro
al
tempo non previste. Tuttavia era una persona quadrata,
che sapeva sfruttare le situazioni a suo vantaggio.
Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta, presunta nobildonna, di non certa aristocratica schiatta, oralmente tramandata in seno alla famiglia.
Ma chi era costei?
Com’era diventata la moglie del Nascara? Da dove veniva?
Di chi era figlia?
Quali erano le sue aspirazioni e i suoi desideri?
La fama, sempre più
avvalorata da recenti ricerche
storiche, vuole che il primo Re d’Italia, al secolo Vittorio
Emanuele II di Savoia, nonostante il suo cruccio relativo
all’unità d’Italia e di non
essere insensibile al grido di
dolore
degli italiani, avesse una
particolare inclinazione a
incrementare il numero dei suoi sudditi, prestando la sua
opera
generante in maniera del tutto continua, costante e
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sagace nel suo piccolo stato originario, a ridosso della Francia, il Regno di Piemonte.
Al suo lontano avo e capostipite della famiglia, Bianca-
mano di
Savoia, e ai suoi discendenti, era andata molto
bene essendo riusciti ad allargare i confini del
piccolo
principato della Savoia. A lui andò ancora meglio, essendo
diventato Re d’Italia, anche se gli costò la cessione della
Savoia alla Francia, in cambio del Lombardo-Veneto.
Comunque siano andate le
cose (che il fido Camillo
Benso Conte di Cavour del resto dimostrava di saper
giostrare
egregiamente) nel suo piccolo Piemonte Vittorio
Emanuele II amava andare a caccia non solo di
selvag-
gina, ma
anche di fanciulle. In particolare ve n'era una che
frequentava spesso e con molta passione.
Era la bella
Rosina, di cui tutti parlavano e
tacevano. Anzi ne
parlavano ma con parecchio tatto e circospezione. Tant’è
che molti
contadini si rivolgevano a Lei per avere dei
favori da parte del Re.
A quei tempi non era uno scandalo essere l’amante
di
un Re, anzi era considerato un onore. Un vecchio prover-
bio siciliano diceva che i corna di Re, nun
sunu corna, per
significare
che era nella facoltà del Re andare con una sua
suddita, senza che il marito si ritenesse curnutu.
Si racconta che prima di uscire a cavallo per andare
a
trovare
la bella Rosina, il Re le facesse pervenire una
missiva, raccomandandole di non lavarsi, poiché l’odore
del
suo corpo al naturale lo inebriava e lo rendeva più
sensibile e focoso. A quanto pare gli faceva accrescere
l’impulso dello stallone. Non so fino a che punto le
preventive mancate abluzioni igieniche fossero vere, ma
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cosa certa è che Vittorio Emanuele II non disdegnasse di portarsi a letto le suddite che gli piacessero, senza curarsi di lasciarle incinte e se fossero pulite o meno. Ma pare che non disdegnasse nemmeno le nobildonne.
Si dice anche che avesse dato qualche ripassatina
alla
cugina
di Cavour, la Contessa di Castiglione, prima di
cederla a Napoleone III, in veste di ambasciatrice del
Piemonte in Francia e spia-ruffiana
scelta del nuovo regno
sabaudo.
Salvo che non si trattasse di una vanteria della famosa Contessa, la notizia dovrebbe essere vera, essendo stata testualmente raccontata tra le note autobiografiche della donna fatale, che tra l’altro si vantava di essere stata imperatrice di Francia, per più di una notte nella sua vita, e in precedenza anche regina d’Italia.
Com’è possibile constatare a un certo livello politico i nostri capi di governo, regnanti e simili personaggi, anche in passato, come ai nostri giorni, non hanno mai cessato di approfondire certi argomenti di natura amatoria.
Cambiano i personaggi, le
donne, i luoghi, ma la
sostanza è sempre quella. Una volta queste donne erano
chiamate amanti se non putte e
adesso invece escort.
Una volta andavano bene le stalle olezzanti di
letame o
la campurella
alla clorofilla, adesso sono di moda le ville
verdeggianti e i castelli antichi e non ci si scandalizzava
per certe cose che avvenivano e avvengono a tutti i livelli.
Sorvolando sulle altre relazioni del focoso Re
Vittorio,
sembra che i rapporti con la bella Rosina, oltre ad aver
reso quest’ultima ricca e in possesso di un certo potere,
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l’abbiano fatta divenire madre di reali rampolli, i
quali il
Re non omise di proteggere e insignire di onorificenze e
vita agiata. Uno di questi fu un certo Emanuele Filiberto
Piemonte, cognome da trovatello, nominato in seguito
Conte di Savoiano.
Ebbene, Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta,
in
Nascara,
si vantava d'essere discendente dal nobiluomo in
questione e che nelle sue vene scorresse sangue reale, lo
stesso del
Re Sciaboletta, nipote di Vittorio Emanuele II,
suo avo in pectore.
Ecco dunque che la signora in questione, forte della sua
nascita, da giovanissima aveva aderito all’astro sorgente
del Fascismo, che era stato supinamente
accettato dalla
monarchia sabauda in occasione della
marcia su Roma,
nonostante il parere discorde dell’allora Presidente del
Consiglio dei Ministri, che lo aveva consigliato
di far
intervenire l’esercito.
Berta, fortemente interessata alle vicende
politiche del
suo casato, sosteneva che il Re aveva
fatto bene a dare
l’incarico a Mussolini di formare il
governo e di dargli
quei poteri che difficilmente avrebbe mai ottenuto senza il
suo consenso.
Per lei, il suo lontano cugino era stato
lungimirante e
anche opportunamente intelligente. Aveva salvato l’Italia
dal caos in
cui era precipitata dopo la fine della guerra del
1915/18, che era stata vinta dall’Italia, ridotta però in stato
di fragilità economica.
Questo era il suo pensiero, essendo
del tutto coinvolta nelle spire della dialettica fascista cui
aderiva. Ma lasciando stare le vicende storiche, Manuela
Filiberta di Savoiano, detta Berta, imbevuta dalle nuove
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idee, fu felice di indossare la gonna scura e la camicia bianca, divisa emblematica delle giovani donne fasciste, e a frequentare le palestre del partito, partecipando alle oceaniche manifestazioni del sabato fascista, alle sfilate, ai giochi ginnici del cerchio e dei nastri tricolori, pur non trascurando il ricamo e l’arte della gestione domestica della famiglia, secondo la rigida mistica fascista, assurta come fondamento della politica statale.
Fu durante una di queste manifestazioni a Roma,
dove
si era trasferita assieme alla famiglia, proveniente dalla
lontana Torino, che conobbe un ardente Camicia Nera
siciliano, dai baffetti alla moda e dai capelli impomatati di
brillantina. L’incontro non fu del tutto casuale e innocente
e si trasformò fin da
subito in una relazione fissa.
Al tempo non si parlava di convivenza, ma grazie
al-
l’aderenza al partito, erano liberi di frequentarsi e di vedersi senza alcun pregiudizio. Nulla
di riprovevole in questo, ma le usanze d’allora imponevano di mantenere segreta la loro relazione.
I due si incontravano di nascosto.
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6
L’INCONTRO CON PAOLO NASCARA
La mattina in cui Berta, e Paolo si incontrarono era un sabato, il giorno della settimana assurto al rango simbolico di sagra settimanale fascista.
Mussolini, con molto
acume, per intensificare la sua
simpatia nel popolo e nel fascismo, non a caso convinto
della forza persuasiva del vezzo
degli imperatori romani di
dare al popolo non solo il panem
ma anche i circenses,
decise
di istituire il cosiddetto sabato
fascista, che altro
non era se
non l’anticipazione della giornata domenicale.
Lasciando al Papa e al Vaticano
la gestione del riposo
domenicale, da destinare a Dio con la Santa Messa.
Con l’intento di non attirarsi le antipatie dei cattolici, già non buone nei confronti del nuovo regno Italiano e dei Savoia, credette bene di far precedere la domenica da un sabato festivo, tutto laico e fascista, da dedicare alle manifestazioni patriottiche.
Lo scopo evidente era quello di bilanciare nel popolo l’influenza fascista con quella cattolica, ottenendo nello stesso tempo il plauso per la riduzione delle ore di lavoro settimanali, regalando un giorno in più di riposo.
Tuttavia il vero motivo era d'indottrinare più facilmente il popolo con la sua politica fascista, infarcita tra l’altro da attività sportive, oltre calle corpose conferenze di partito all’insegna del Fascio, dell’orbace e del fez.
Non a caso si cominciò a parlare di
mistica fascista,
una materia
nuova che gareggiava, o scimmiottava quella
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cattolica. Fu il periodo della militarizzazione a tappeto di tutta la nazione fin dalla nascita.
Appena nati, gli italiani diventarono figli della lupa, poi
balilla, indi
avanguardisti e infine militi effettivi. Fu anche
il periodo dell’obbligo del matrimonio e della condanna
del celibato.
In verità gli uomini erano liberi di non sposarsi ma dovevano pagare la tassa sul celibato, che cresceva nel tempo. Più si era celibi e più la tassa cresceva. O ci si sposava o si rischiava di pagare sempre di più.
Le donne, in questo caso furono avvantaggiate,
perché
escluse dal provvedimento in questione, ma l'esclusione
sanciva in modo evidente che il
diritto di scelta del
matrimonio era esclusivamente di pertinenza maschile.
Il giorno che Berta conobbe Paolo, si era recata a Campo di Marte, in veste di spettatrice, dov'era prevista una manifestazione ginnica con l’intervento del Duce e delle massime eminenze fasciste.
Berta era in compagnia di Lucia, l'amica del cuore,
una
giovane romana, molto coinvolta nelle attività di partito,
che frequentava da quando si era trasferita nella capitale.
In quest’occasione, le presentò il fidanzato, il milite Paolo
Nascara, un giovane catanese, trasferitosi a Roma, dov'era
stato assegnato.
Lucia gliene aveva talmente parlato che le sembrò
di
conoscerlo già
da tempo. Paolo era un bel giovanotto, alto,
imponente, coi baffetti appena accennati ma ben curati e i
capelli neri,
intrisi di brillantina, gli facevano risaltare gli
occhi scuri, rendendoli lucidi e
penetranti. Indossava la
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classica divisa orbace della milizia con il fez e il distintivo del fascio in evidenza sulla sinistra del petto e sul cappello che gli dava un’aria piuttosto imponente.
La stretta di mano fu preceduta dall'impeccabile
saluto
romano, fin dal primo momento Berta si sentì osservata
con un certo interesse che la turbò non poco.
Provò un
lungo brivido alla schiena nello stringerle calorosamente
la mano.
Gli occhi di Paolo la esplorarono dalla testa ai piedi.
Anche Berta lo soppesò
da cima a fondo prima di
giungere alla conclusione che era un bell’esemplare
di
uomo e che la descrizione fatta in precedenza da Lucia
corrispondeva al vero. Fu a questo punto che confidò a se
stessa,
con stupore e rabbia, che le sarebbe piaciuto
sentirsi accarezzata da quell’uomo, anche
baciare e
anche... Perché no? Tutto il resto!
Non poteva però ignorare quel senso di rabbia che le saliva nell’intimo, sapendo che Paolo apparteneva già a Lucia. Sapeva che mai poteva accadere ciò che pensava e per questo soffocò l'incedere dei pensieri. Ma non poteva negarsi che le piaceva e come se le piaceva!
Come sempre, mostrò
un’apparente freddezza e un
ferreo controllo delle emozioni, ma lei nel suo
intimo
gustava il desiderio di far l’amore con un uomo, e la vista
di Paolo le alimentò con la fantasia il fuoco che ribolliva
nelle sue vene. Anche lei era alla ricerca di un amore cui
abbandonarsi, in vivo contrasto con l’educazione ricevuta,
e
manifestava un carattere forte e deciso, con qualche
piccola paura. Berta aveva ricevuto un'educazione rigida e
improntata alla continenza e a tenere a bada gli slanci dei
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sensi. La madre era ligia ai principi di Santa Madre Chiesa e il padre, di tendenza liberale ma inflessibile con l’educazione di lei e del fratello.
Entrambi i genitori avevano influito sulla
formazione
del suo carattere. Tuttavia non vedeva l’ora di incontrare
l’uomo giusto per abbandonarsi ai sogni, buttando
alle
ortiche gli insegnamenti familiari, che sembravano dei
tabù alla luce delle nuove idee
apparse all’orizzonte.
Tuttavia aveva la paura di sbagliare. Non ammetteva che
la società le
impedisse a non essere lei a scegliere, ma a
essere scelta.
Quel giovane fascista le sarebbe andato proprio a
genio
per il
concetto che lei si era fatto del suo futuro marito.
Certo, marito. Non arrivava a concepire il rapporto amoroso al
di fuori dal matrimonio. Anzi pensava che piuttosto non si sarebbe mai messa con un uomo senza il matrimonio,
secondo gli insegnamenti ricevuti dai suoi. Le sembrava un’assurdità ma pensava che prima fosse necessario
sposarsi.
Il fascino dell’abito bianco la coinvolgeva, la tentava.
Però, quanto sarebbe stato bello senza quel vincolo assoluto. Queste cose rimescolava dentro di sé
osservando il fidanzato di Lucia, preda del suo dualismo intimo di moralità,
e scacciando ogni cattivo pensiero, la ritenne fortunata per aver trovato cotanto bel maschio da amare.
L’amica le aveva detto chiaro e tondo che
il loro amore non era platonico, fatto semplicemente di bacetti. Avevano fatto tutto. Chissà! Forse anche questa rivelazione faceva galoppare la
sua mente.
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7
SABATO FASCISTA
La giornata di sabato era trascorsa serena e
piacevole.
Dopo
aver assistito alle esibizioni ginniche, al discorso del
podestà e al fiume di retorica fascista messa in atto dal
bravissimo
Mussolini, che aveva sciorinato i recenti suc-
cessi all'estero e le sue remore nei confronti della politica
di Hitler per il suo razzismo dichiarato, Berta, Lucia e
Paolo, si incamminarono lungo il viale fino a
raggiungere
la più vicina carrozzella. Saliti a bordo, il contatto fisico
tra i tre fu quasi imposto. Paolo, con un braccio cinse la
vita
di Lucia, con l’altra mano non esitò a sfiorarle i
fianchi.
Berta ebbe un sussulto. Pensò di reagire, ma si
fermò
un po’ per
prudenza, un po’ perché non le dispiacque. Però
si sentiva a disagio, non riuscendo a stabilire se la causa
fosse dovuta dalla presenza dell’amica o per ciò che
provava intimamente.
Quella giornata alla fine era giunta a degna conclusione
e Berta lasciò i due
fidanzati, salutandoli affettuosamente.
In cuor suo Berta avrebbe voluto parlarne con Lucia, ma la ragione le disse che era meglio tacere. Tanto non ci sarebbe stata più una situazione analoga in futuro. In ogni caso non sapeva se disprezzare il comportamento di Paolo, o di aver gradito le attenzioni che in lei avevano suscitato qualcosa di mai provato prima.
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Erano trascorse due settimane dall’incontro con Paolo.
Berta
aveva messo a tacere tutte le sue contraddizioni fino a quando, si vide spuntare Lucia in lacrime.
«Cos'è successo?» Le chiese
preoccupata. «Cosa posso fare per te?» Incalzò.
«Nulla. Tu non puoi fare nulla» rispose singhiozzando. «Paolo mi ha lasciato. Ha detto che non mi ama più. Non mi vuole e non mi sopporta. Sono disperata.»
Per Berta fu una doccia fredda. Non le disse certo
che
si aspettava
che ciò succedesse. Avrebbe dovuto spiegare e
non le andava di raccontarle di quel giorno a Campo di
Marte. Cercò
di consolarla dicendole che era meglio non
pensarci e che quell’uomo non meritava il suo
amore.
Meglio
dimenticarlo.
Sarà stato il suo consiglio, sarà stato un caso o la fortuna ma Lucia, dopo appena tre giorni, tutta raggiante le disse di essersi innamorata di un altro che le stava dietro da parecchio e che adesso se ne fregava di Paolo.
«Chiodo schiaccia chiodo» le
disse Berta felice e
contenta.
«Meglio così» fu la risposta.
Berta fu doppiamente contenta. Lucia aveva superato
il
trauma dell'abbandono e lei, volendo, avrebbe potuto
incontrare Paolo senza alcun patema, se non quello
di
poter essere piantata a sua volta. Ma non gliene fregava
proprio nulla se dopo l’avesse piantata. Lo voleva e basta.
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8
INIZIO RELAZIONE CON PAOLO NASCARA
Lucia, dopo quell’incontro
di raggiante felicità,
scomparve definitivamente dalla vita di Berta. In effetti
per
lei, più che amica era una conoscenza un poco più
ravvicinata ma non profondamente affettiva. Di fatto cercò
di non frequentarla più, presa
com'era dall’idea di voler
rivedere Paolo, la loro amicizia sarebbe stata d’intralcio e
avrebbe potuto creare in lei dei risentimenti che voleva a
ogni costo evitare.
Aveva ancora tempo per decidere che cosa fare e come agire nei confronti di Paolo, poiché era convinta che quel birbante si sarebbe fatto vivo, e non si sbagliò.
Il loro successivo incontro fu pure casuale ma di fatto sperato e cercato da entrambi.
Questa volta erano da soli, senza testimoni scomodi. Parlarono delle cose più stupide e infine arrivò il momento della giterella in carrozza.
Fu il primo bacio appassionato. Nessun altro discorso o
parola,
niente fronzoli di voci appassionate, solo carezze e
bacetti non del tutto innocenti e profondamente intimi.
Al momento di lasciarsi,
Paolo le propose di farle
conoscere la casa dove abitava da solo. Berta rispose di sì,
ma non quel giorno perché in serata aveva un impegno in
famiglia. Rimandò a domenica. Essendo quel giorno
il
solito sabato
di prammatica, significò: domani.
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Berta e Paolo si incontrarono al Pantheon. Dopo aver consumato una piccola colazione alla caffetteria di fronte, si avviarono in una viuzza accanto, dove Paolo abitava al primo piano di un vecchio stabile.
Varcato l’uscio di casa
e chiusa la porta, Paolo la
abbracciò, la baciò e incominciò a spogliarla.
Berta corrispose alle effusioni e dopo
aver percorso il breve tratto di corridoio, in fondo al quale vi era la camera da letto, i due vi giunsero nudi come Adamo ed Eva.
Fecero
l’amore. Per Lei era la prima volta, ma non per questo ne fu meno intensamente coinvolta. Ed era
stato come se l’avesse fatto da sempre. Per lui provava un trasporto immenso, mai
provato, anche se desiderato. Ed era stato bello, proprio come l’aveva sognato.
Da quel giorno non smisero di vedersi e di incontrarsi a casa di Paolo. Quando stavano insieme Berta si sentiva appagata e felice di fare l’amore senza pensare a nulla.
Era come vivere in un sogno, dove tutto era meraviglioso ma, a forza di amoreggiare clandestinamente, ai due amanti accadde l'irreparabile.
Un bel giorno Berta disse a Paolo che non aveva più
le
“sue cose”. Era semplicemente gravida, come del resto fu
confermato da un esame clinico. Ma non fu un dramma
poiché loro due si amavano e decisero di
sposarsi subito.
Misero su casa in quella abitazione vicino al Pantheon. Paolo era in milizia e percepiva uno stipendio e la moglie Berta, inserita nell’organizzazione delle Giovani Fasciste, aspirava di essere assunta in banca. Si prospettava per loro un avvenire radioso e sereno.
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9
LA PARTENZA DI PAOLO PER L’ETIOPIA
Nel frattempo che la vita dei giovani coniugi Nascara procedeva nei miglior modi, così pure la gravidanza di Berta, gli accadimenti della Nazione maturavano sotto la guida del Duce, al quale rinacque l’idea del “posto al sole” e della ricomposizione dell’Impero Romano.
A Mussolini non bastava più la campagna del grano
né
la bonifica dell’agro pontino. La propria ambizione era
proiettata verso la conquista del mondo. Incoraggiato dalla
funzione di arbitro
internazionale a cui lo aveva promosso
la politica inglese, per bocca e volere del primo ministro
Eden. Dopo i
patti di Stresa, incominciò a mirare sempre
più in alto ed ecco che ideò di ampliare la colonia italiana
somala in Africa dichiarando guerra all’Etiopia, nonché di
estendere il conflitto anche alla Turchia per estrometterla
dalla Libia.
Paolo Nascara in tutto ciò non poteva restare
estraneo
agli impulsi patriottici del Duce, e nonostante avesse già
un incarico stabile nella milizia a Roma, chiese di essere
arruolato come volontario per la
conquista dell’Impero.
Per quanto gli fu detto che la sua opera era più proficua
in Italia lui,
protestando, voleva partire a tutti i costi.
Si rivolse addirittura a un membro
del Gran Consiglio del Fascio. E visto che a lui non si poteva scontentarlo, Paolo fu inserito nell'elenco dei
partenti al posto di un ignoto Paolo Nasca, scartato di punto in bianco con una
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piccola variazione furbesca sul verbale di partenza,
senza
andare
tanto per il sottile, correggendo appena il cognome.
Berta, mentre il marito partiva per l’Abissinia,
non
potendo
seguirlo perché donna, grazie alla fama di cotanto
patriottismo del coniuge, riuscì a
inserirsi meglio nel
partito, diventando una impiegata qualificata del Banco di
Roma. Qui fece valere la sua conoscenza del tedesco e del
francese, nonché il titolo di studio di ragioniera. Insomma
si dette da fare,
muovendosi con grande determinatezza.
Di fatto era entrata nelle mire di un noto
personaggio
che stava molto in alto nella gerarchia e non esitò a
sfruttarla. Sicché, mentre
il consorte combatteva in
Abissinia coprendosi di gloria. Berta,
servendo la causa
del Duce, riuscì a intrufolarsi nelle maglie del potere.
Fu d’obbligo stampare qualche corno al marito, ma di nascosto e senza pubblicità. In verità una leggera forma di trasgressione che tutto sommato mise in atto con una certa partecipazione sentita.
Del resto Paolo nulla sarebbe venuto a sapere, e occhio che non vede, cuore non duole. L’importante per Berta era portare la famiglia sulla via del benessere e nell’interesse anche del marito, che ritornando, avrebbe trovato la strada del successo agevolmente spianata.
E dunque qualche corno gli stava anche bene per averla lasciata sola per rincorrere i suoi sogni di gloria.
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10
IL RITORNO DI PAOLO
Il rientro di Paolo, annunciato d'improvvisa, per ferite riportate in guerra, fu per Berta un fulmine a ciel sereno, sia per lo stato di salute del marito, sia perché vedeva turbato l’equilibrio che era riuscita a crearsi.
Attese con pazienza l’arrivo della nave che
riportava in
Patria oltre al marito altri camerati feriti e anche i morti.
Quando lo abbracciò, fu
felice di constatare che le
ferite riportate non erano visivamente
deturpanti, ma
rimase di stucco quando seppe della menomazione da lui
ricevuta.
Il “coso” era al suo posto, ma imbelle, senza i
pendagli
che un tempo lo adornavano, e che lei riteneva di poco
conto e invece erano il vero sostegno di tutto l’apparato.
Quella prima notte dal suo arrivo, fu un dramma.
Baci, abbracci, piccoli morsi, carezze, ma tutto fu inutile.
E così la notte successiva e tutte le altre a venire.
Berta fece buon viso a cattivo gioco e una volta rincuorato il suo Paolo, gli disse che la cosa importante era che fosse ritornato vivo in Patria.
«A tutto c’è rimedio finché c’è vita» gli disse Berta.
Erno solo parole… ma che poteva aggiungere ai fatti se non parole?
Quello che c’era una volta, adesso non c’era più!
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Terminata la licenza premio, Paolo fu
reintegrato nel
corpo della milizia con il diritto a fregiarsi della Croce di
Guerra e della medaglia
d’argento, che gli fu assegnata per
la ferita riportata, che non fu
meglio specificata se non
come lesiva della sua vita, come fu definita. Ebbe anche
una
promozione di grado e un posto di grande rilevanza
nella sua Catania, dove pure la moglie si fece trasferire
presso la sede del Banco di Roma
della città etnea.
Paolo ricominciò a vivere la sua vita normale di sempre, ma non tanto normale. I rapporti con la moglie erano cambiati e di molto. Nulla, nemmeno l’intensità del suo affetto poteva cambiare la realtà: era fisicamente un eunuco, impossibilitato a esercitare i suoi doveri coniugali con la moglie e con qualsiasi altra donna.
La vita tra loro era un inferno pieno di incomprensioni, i litigi e tutto l’insieme di quelle cose che trovavano a letto l’armonico acquietamento degli eccessi, era saltato.
Berta a stento riusciva a essergli fedele. Ma fedele a che cosa? È da dire che lei aveva ceduto sì, alla infedeltà, mentre Paolo era in Abissinia, ma era stata una cosa non voluta, che era capitata, che non avrebbe voluto, una cosa del tutto occasionale ma adesso la situazione era cambiata. L’assenza sessuale del marito era permanente e i suoi sensi gridavano ancora... e come gridavano!
Le sembrava d’impazzire.
Paolo, da parte sua soffriva pure per lo stesso
motivo e
anche se non era cessato del tutto lo stimolo amoroso. Si
rendeva conto che la situazione precipitava di giorno in
giorno e
che ogni parola, ogni diverbio, ogni dissenso
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aveva il suo sottofondo in quell'anomala situazione.
Fu lui stesso che un bel giorno decise di affrontare la situazione. Le parlò facendo tutto un giro di parole, per cercare di introdurre la sua proposta.
Disse delle cose e delle motivazioni prese alla larga con
molta cura e con molto tatto. Alla fine ammise che non
essendo più in grado di renderla felice la lasciava libera di
cercare altrove quanto
lui non era più in grado di darle.
All’affermazione schietta e sincera di Berta, le
chiese
di essere discreta, di fare pure ciò che voleva alla sola
condizione di essere discreta, di non separarsi, di
restare
per il resto complici nella gestione della loro famiglia, di
non abbandonarlo. In altri termini, più schietto e chiaro, le
disse che poteva farsi un amante a condizione che nulla
trapelasse del loro dramma e che la loro
famiglia non
avesse a separarsi. In parole povere accettava di fare la
figura del marito-fratello. Diciamo pure del cornuto
volontario per causa di forza maggiore, fermo restando il
loro rapporto sociale.
Berta, lo baciò in fronte, lo abbracciò con calore.
«Grazie. Ti voglio bene» gli disse semplicemente.
Da quel giorno i rapporti di convivenza tra loro due mutarono. Si erano chiariti i ruoli del loro rapporto, improntati sulla lealtà e sulla sincerità e Berta promise che nel caso di “sostituzione a letto con un altro uomo” glielo avrebbe detto e così in effetti avvenne.
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11
TULLIO PETRONELLI
Berta annunziò al marito che per motivi inerenti al suo lavoro nel partito era costretta ad assentarsi per circa una settimana, per andare a Roma. Per l’occasione, si sarebbe dovuta incontrare con il gerarca, che lui conosceva e che era amico del numero due del PNF.
Sì, quello che era andato in America con
l’apparecchio
trasvolando l’oceano Atlantico, insieme a Italo Balbo. Per
l'appunto
Tullio Petronelli, che pure lui conosceva. Gli
disse che in passato, mentre lui
era in Abissinia, questi
aveva tentato di amoreggiare con lei, facendole la
corte
ma senza
successo.
In effetti la cosa era avvenuta ma gli disse,
mentendo,
che aveva resistito per amore suo e aggiunse che adesso,
costretti a incontrarsi per motivi di lavoro, lui
tornava
sempre a bomba e ci tentava sempre e che, vista la
situazione, a lei non sarebbe
dispiaciuto di fare “quello
che è...” con lui, ovviamente se
avesse avuto il suo
benestare.
«Sei libera di farlo» le disse Paolo «nel rispetto
che mi
devi.
Cerca di essere discreta e prudente».
Lei preparò la valigia con alcuni indumenti necessari, lo baciò e gli
disse pure quando sarebbe ritornata e partì con il treno per Roma.
Al tempo per recarsi da Catania a Roma si prendeva
il
treno. Si andava alla stazione centrale. Si attendeva quello
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che partiva da Siracusa, si cercava il posto prenotato e ci si sedeva leggendo qualche buon libro. Si arrivava a Roma Termini nello spazio di otto ore. Per fare ritorno si faceva lo stesso percorso a ritroso.
Durante il tragitto Berta era impaziente, le sembrava che il tempo non passasse mai.
Questa volta l’ansia aveva un gusto particolare, come se andasse a nozze. Già a nozze! Poiché andava a tradire il marito, per la prima volta con il suo beneplacito e la sua benedizione e che quello era l’inizio di una storia vecchia, ma di sapore diverso, quasi nuovo.
In effetti il lavoro da svolgere era stata una
scusa. In
verità i due, che già erano amanti, erano d'accordo a
vedersi e stare insieme
una settimana, in occasione del
ritorno del caro Tullio dall’Africa,
dove il suo diretto
superiore e camerata Italo era stato dirottato da Benito con
il titolo di Governatore della Libia, o qualcosa di
simile.
Berta dal finestrino vedendo le immagini dei
panorami
sempre diversi correre all’indietro, sfuggenti, irreali e pur
veri, le sembro di scorrere a ritroso gli episodi della sua
vita con il
marito.
Si rivide giovane e ricca di
idee di grandezza, con
quella sua gonna sotto il ginocchio e la camicia bianca.
A quel tempo non pensava a
agli uomini, che considerava dei semplici individui diversi da lei solo per il sesso.
Il giorno che conobbe Paolo, non pensava affatto
che
sarebbero finiti a letto. Non ci pensava nemmeno, ma lo
sperava. La seconda volta che si videro, lui seppe essere
così
birbante, carino, intraprendente e pieno d’attenzione
43
per lei, che quasi senza accorgersene piombò tra le sue braccia spontaneamente. Fu cosa piacevole e bellissima, che in cuor suo le fece nascere dei desideri e delle aspirazioni mai provate prima.
E dire che Berta, quando conobbe Paolo, lui era
il
fidanzato di Lucia, una sua amica, e che i primi approcci
avuti con lui l’avevano resa nervosa, anche se ansiosa data
la circostanza.
Però non poteva ammettere che le era
dispiaciuto. Ricordò la sorpresa di essere rimasta incinta,
il conseguente
matrimonio e la nascita della figlia.
Quando Paolo decise di partire volontario alla ricerca della gloria, in verità, ci rimase male. Cercò di convincerlo a non partire e di restare vicino a lei, ma fu irremovibile, Era troppo preso dai suoi ideali politici. Prima il Duce e poi tutto il resto. Che poteva fare, se non restare moglie e madre in attesa del ritorno del guerriero?
Quell’attesa tuttavia si trasformò presto
in tormento.
Ricordava le notti d’amore e di serenità appagata e pur
restando fedele al suo glorioso marito, cominciò ad andare
incontro a piccoli e innocenti
svaghi che la vita le offriva,
intensificando le sue presenze in seno alle manifestazioni
del sabato fascista e consolarsi ogni notte stringendo il
cuscino tra le gambe per spegnere la sua sete d’amore.
Fu proprio durante uno di quei
sabati, che conobbe Tullio Petronelli, in occasione di una manifestazione organizzata da
Italo Balbo per illustrare i progressi del-
l’aeronautica italiana.
Argomento del loro primo discorso fu la conoscenza
di
suo marito Paolo con Tullio. Le disse che era felicissimo
di conoscere la moglie di un suo grande amico e camerata
44
Paolo Nascara e ammiccandole un
sorriso, aggiunse di aver finalmente capito perché Paolo si era eclissato.
Tullio, che tra l’altro era un bel pezzo d’uomo, era il luogotenente di
Italo e svolgeva un ruolo importante nel campo aviatorio, in verità aveva avuto con Paolo un rapporto di semplice conoscenza.
Dopo il primo scambio di parole, condito da eloquenti sguardi, Berta accettò l’invito di Tullio a voler provare il brivido del volo.
Era convincente quell’uomo, sicuro di sé e mostrava un’alterigia che Paolo non aveva.
In verità quest’ultimo era assai gentile e la
colmava di
attenzioni che mai lei avrebbe sperato di ricevere. Tullio
era un altro tipo di uomo, uno di quelli che va dritto allo
scopo, anche in amore, senza tanti complimenti. In altre
parole era più maschio, più possessivo, più sessualmente
padrone dei suoi sensi.
Berta capì subito, alla luce delle sue esperienze,
cosa
avesse suscitato in lei la sua persona: il desiderio di essere
posseduta fino in fondo, di essere
più donna tra le sue
braccia, di sentirsi vinta e protetta, senza pensare ad altro.
Stranamente quella sensazione non le dispiacque.
Anzi ne provò un’intima soddisfazione tutta femminile. In fondo era quello che cercava: un rapporto piacevole e soddisfacente ma senza impegni sentimentali. Considerava il rapporto con Tullio, un amore “usa e getta”, un piacere passeggero, una semplice sostituzione temporale alla bisogna, come prendere un caffè insieme e lasciare che il tempo scorresse per gli affari suoi.
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Affari? Aveva pensato agli affari? Che c’entravano
gli affari con il tempo in questa situazione? Bah!
Pensò che stesse farneticando. Il vero affare in questa situazione era l’intenso piacere che quell’uomo le dava
senza nulla a pretendere e solo per gioco.
Al suo primo appuntamento, per provare
l’esperienza
del volo, si presentò molto più
curata nella persona da
quando lo aveva conosciuto. Era andata dal parrucchiere
prima e poi
si era agghindata indossando un abitino che
metteva in evidenza le sue forme e una camicetta di pizzo
che lasciava
intravvedere la procacità del suo seno. In
ultimo aveva steso uno strato di cipria sul viso e rossetto
sulle labbra. Si era fatta bella, controllando prima di
uscire, davanti allo specchio che tutto fosse in ordine. Ci
teneva proprio a
stimolare l’interesse mostrato da Tullio.
Appena salita sull’aereo, quest’ultimo non andò tanto per il sottile. La strinse e la baciò intensamente. Berta rispose al bacio e lo lasciò armeggiare intorno al suo corpo. Si aspettava quel comportamento e sinceramente ci sarebbe rimasta male se non l’avesse ricevuto.
Subito dopo l’aereo rullò
sulla pista e dolcemente si
levò in cielo. Le sembrò di volare, disse tra sé e sé. Ma
che
sembrare! Stava volando per davvero accanto a
quell’uomo che non cessava di
accarezzarla. Certo non
aveva le ali degli angeli, ma stava volando per davvero in
cielo, tra le
nuvole, che assumevano gli aspetti più strane.
Quella verso cui si stava dirigendo l’aereo aveva la forma
di un cuore e
quando gli si tuffò dentro si sentì commossa
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e felice. Le sembrò un bellissimo augurio. Volgendo
gli
occhi in basso le persone le sembrarono formiche agitarsi
tra i campi e il fiume, forse il Tevere, un nastro biondo che
li attraversava. Si sentiva grande, immensa,
superba. Altro
che principessa di sangue reale! Era una Dea pagana che
passeggiava tra le nubi e aveva accanto il cavaliere del
cielo, il padrone del mondo, che le stava facendo
provare
delle
emozioni stupende.
Erano diventati amanti fin da subito, così... quasi
per
gioco e per divertimento reciproco. Lei non pensava di
sostituirlo al marito, ma di
cogliere l’occasione per
distrarsi nell’attesa del suo ritorno. Era certa che quando
Paolo sarebbe tornato, sarebbe finito tutto. Tullio non era
il tipo da volersi legare in una relazione stabile né lei lo
pretendeva. Una semplice parentesi, magari da ricordare
piacevolmente ma nulla più.
Questa situazione la eccitava e la spingeva a godere quanto più potesse da quella situazione.
Poi c’era stato il
ritorno di Paolo e l’amara
constatazione della sua impotentia
coeundi acquisita
combattendo in Etiopia. Sì, forse si chiamava così la
menomazione con la quale era
ritornato dall’Africa.
Ricordava pure la delicatezza con cui
Paolo l’aveva
lasciata libera nei sentimenti e provò pietà per quell’uomo
che l’amava con sentimento, scegliendo il ruolo di marito
putativo. Pensò a San Giuseppe. No!
Certo no! Non
sarebbe diventato un Santo per questo. Piuttosto sarebbe
andato sicuramente
all’inferno per aver preferito il suo
Duce a lei e alla sua famiglia.
Proprio per quest'ultimo
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motivo provò nei suoi confronti
un senso di ripulsa per
averla lasciata sola rincorrendo la farfalla della gloria.
Era stata tentata di lasciarlo ma scacciò via quel suo cattivo
pensiero, pensando alla figlia, che avrebbe sofferto per la perdita del padre. In fondo, poi, pensò di non esserle andata completamente male, avendo incontrato quel Tullio capace di farla
sentire donna felice e soddisfatta di volta in volta, senza forse nemmeno pretendere di essere amato e desiderato.
Tullio la prendeva, la
possedeva e lei era felice di
esserlo. Niente sentimentalismi ma semplice piacere puro
e godimento
dei sensi, il cogliere a volo l’attimo fuggente
senza patemi e rimpianti. Per quanto riguardava la sfera
del
sentimento, le bastava l’affetto della figlia e di quel
suo marito impotente.
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12
RAPPORTI TRA BALBO E MUSSOLINI
Intanto mi preme ribadire ancora quali fossero i
cattivi
rapporti tra Italo Balbo e Mussolini. Questi erano di
assoluta amicizia e lealtà, ma
tra i due qualcosa non
andava proprio. Italo era un po' sciattone e non rispettoso
delle formalità. Nonostante Benito fosse divenuto il
numero uno d’Italia a cui bisognava dare il Voi come di
prammatica, Italo aveva continuato a dargli il Tu in
pubblico, a dargli pacche sulle spalle e a trattarlo come un
suo pari e a non rispettare la sua formale subordinazione.
Specialmente dopo l’eclatante successo della traversata
atlantica, che aveva fruttato all’intraprendente Italo onore
e ovazioni da tutto il mondo, in particolare dell’America,
il suo comportamento era diventato più guascone che mai
urtando la suscettibilità del Duce, suo malgrado fiero del
suo operato,
ma carico di bile, gelosia e timore di essere
detronizzato.
Benito, che di per sé era un assertore del culto
della
personalità, cominciò a temere proprio che Italo potesse
scavalcarlo nei consensi e potesse sostituirsi a lui. Ciò non
poteva e non doveva avvenire.
Il capo indiscusso del PNF
e dell’Italia era lui. Andava bene che sopportasse il Re,
quel
Sciaboletta, come lo chiamava,
che aveva avallato la
sua presa di potere. Questi non gli dava preoccupazione
alcuna. Era
abbastanza tronfio del suo operato avendolo
nominato, oltre che Re d’Albania,
imperatore d’Etiopia.
Ma Italo lo preoccupava moltissimo. Diciamo pure che lo
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temeva e poi non sopportava quei suoi sberleffi, quel suo modo di trattarlo come un suo pari e il seguito di uomini che lo ammiravano nel campo dell’aviazione a lui negata o per lo meno ostica, pur avendo cercato di pilotare un aereo con scarsi risultati.
E non solo questo: unico dei suoi gerarchi osava aperta-
mente
contraddirlo in seno al Gran Consiglio del Fasci-
smo, a manifestargli senza remore e
in pubblico il suo
dissenso, che tra l’altro si era manifestato traumatico, in
occasione
dell’alleanza voluta da Mussolini con Hitler,
osando suggerire in assemblea addirittura la tesi opposta
alla
sua e cioè di entrare in guerra contro la Germania.
Inoltre il Duce ebbe pure a subire lo schiaffo morale della
mancata applicazione in Libia delle leggi razziali contro
gli Ebrei, varata da Mussolini per ingraziarsi ancor più il
cancelliere
tedesco.
Avrebbe potuto fare un atto di forza e annientarlo
con
un suo ordine, ma temeva la reazione del popolo. Italo era
una sacra icona del fascismo. Non per niente lo si additava
come suo
successore al potere, cosa quest’ultima che
accresceva ancor di più la sua
poca serenità. Non gli
andava proprio giù che già si pensasse a un suo succes-
sore, mentre era vivo e
vegeto.
Benito, dopo aver riflettuto a lungo pensò bene
di
tenere lontano da Roma questo suo oppositore, poi non
tanto muto, anche se in
linea di massima obbediente e
osservante delle sue disposizioni finali,
approvate dal
Gran Consiglio del Fascio. In questo
senso non poteva
muovergli alcun appunto. Era fedele osservante di quanto
da
lui stabilito, anche se ricalcitrava prima. Era proprio
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quel ricalcitrare che gli dava fastidio e lo faceva temere di essere prima o poi scavalcato.
Colse l’occasione per toglierselo d’attorno e limitarlo, nominandolo responsabile diretto e governatore della Libia, dove la situazione politica non era poi così facile per la guerra interna delle tribù locali.
La sua speranza era che qualcuno dei nemici
avrebbe
trovato il modo di eliminarlo fisicamente. Ma non fu così,
Italo, grazie alla sua versatilità e al suo acume
politico,
riuscì a unificare le varie tribù della nuova colonia
italiana, smussando le ostilità, creando delle
innovazioni
favorevoli a tutto il popolo e pur ignorando alcuni drastici
provvedimenti di Mussolini, riuscì ad
aggregare tutta la
Libia sotto la sua inflessibile autorità. Né tanto meno il
provvedimento riuscì a tenerlo lontano da Roma, per il
fatto che nonostante le grane da risolvere,
Italo Balbo
riusciva a non tenersi lontano dalla
capitale, servendosi
del suo aereo personale che usava e pilotava direttamente,
come se fosse
un’automobile.
L’aver pensato che il soggetto avrebbe avuto tante di quelle gatte da pelare, da tenersi lontano da lui e dal potere centrale, si rivelò un’errata aspettativa.
Il grande e lungimirante
Benito aveva fatto i conti
senza l’oste. Non tenne presente la personalità irrequieta
di Italo,
che quasi giornalmente, dopo aver disimpegnato
in quattro e quattro otto i suoi doveri d’ufficio, saliva sul
suo aereo personale e nel giro di qualche ora era sempre
tra le scatole del Duce a Roma, a dargli pacche sulle spalle
e a trattarlo come un suo
pari e a contestargli delle piccole
cose che lo turbavano e non poco. Ogni pacca sulla spalla
51
per il Duce era una
coltellata e ogni battuta ironica
un’offesa grave alla sua persona. Non
sapeva proprio
come contenere l’invadenza del suo subalterno
più in
vista.
L’opinione pubblica, che lo considerava un
successore
sicuro alla guida del Fascio rendeva ancora più irrequieto
il sonno del Duce. Il fatto che si pensasse solamente a un
suo probabile successore, lo disturbava
enormemente.
Non gli restava che
affidare l’operato di Italo alla
stretta sorveglianza dell’OVRA1, come del resto faceva
con gli altri gerarchi, suoi stretti collaboratori, ma
con
un’attenzione particolare. Il suo motto era che fidarsi era
un bene, ma solo apparentemente. Bisognava sempre stare
sul chi
vive e sapere tutto di
tutti, non solo dei nemici,
anche degli amici che potevano trasformarsi in potenziali
nemici.
In questo modo seppe tutto di Italo, ossia dei suoi
fatti
personali, dei suoi traffici più o meno leciti, dei rapporti
che teneva con l’America, di certe
sue amicizie con la
perfida Albione, nonostante lui, Benito, pare che intratte-
nesse un rapporto
segreto con quel Churchill, che aveva
dichiarato nemico d’Italia. Gli arrivò sulla scrivania anche
il rapporto
sulla relazione del luogotenente di Italo, Tullio
Petronelli, con la signora Manuela di
Savoiano, detta
Berta, moglie di Paolo Nascara, diventato intanto capitano
della milizia,
per meriti di guerra. Tanto gli bastò sapere
per intervenire ed eventualmente eliminare il fantomatico
nemico prima che diventasse più
pericoloso del previsto.
1 L’OVRA è stata la polizia segreta dell’Italia fascista dal 1927 al 1943 e nella Repubblica Sociale Italiana dal 1943 al 1945.
52
Venti di guerra
Negli quegli anni a seguire i rapporti tra Berta e
il suo
amante subirono una certa accelerazione, grazie alle
continue trasvolate aeree del gerarca
Italo Balbo
dall’Africa a Roma e gli altrettanti viaggi della donna da
Catania a
Roma in treno. La faccenda veniva riferita
dettagliatamente al Duce che cominciò a meditarci sopra,
onde trarne
gli elementi di una difesa a oltranza del suo
potere, costantemente messo in pericolo
da quel suo
fattivo ma antipatico, gerarca.
Con il passare del tempo, la situazione politica in Europa andava sempre evolvendosi con fatti del tutto nuovi e forieri di tempesta.
In Germania, grazie al movimento delle famose Camicie Brune, era salito al potere, regolarmente eletto dal popolo, Adolfo Hitler che, preso come esempio il modo di governare del Duce italiano, manifestò la sua simpatia per il popolo italiano che aveva saputo far risorgere i fasti dell’antica Roma.
È da dire che l’offerta di amicizia del nuovo cancelliere fu accolta con orgoglio da Mussolini, tronfio per l'interesse che gli aveva suscitato.
Seguirono incontri, scambi
culturali, visite ufficiali e
segni evidenti di fraterna amicizia tra il popolo italiano e
quello germanico, nonostante la nota e ancora fresca
lacerazione avvenuta con la prima guerra mondiale e
la
53
non tanta segreta avversione italiana
manifestata con i
famosi patti di Stresa, messi in atto dalle Nazioni Unite.
Col tempo, mentre la politica
italiana, oltre alla guerra coloniale inglese, si era limitata ad arrestarsi ai confini con gli altri stati europei, quella tedesca si rivelava alquanto invadente, essendo
balzata in testa a Hitler l’idea di ricostituire il vecchio impero austro-ungarico.
La prima
mossa del cancelliere di ferro, fu quella di invadere l’Austria e di annetterla alla
Germania con un referendum, che sapeva di vincere, essendo egli austriaco di nascita.
Inghilterra e Francia incominciarono a stare sul chi vive, ma intenzionati a evitare la guerra invitarono Benito Mussolini, grazie ai
suoi rapporti con Hitler, di fare da paciere. Benito Mussolini si mosse con molta diplomazia e grazie a lui, pur
restando l’annessione dell’Austria alla Germania un dato di fatto, fu evitata la guerra e si parlò di pace.
È da dire che lo stesso Mussolini non gradì
l’annessione dell’Austria alla Germania, per il semplice
fatto che egli preferiva avere come confinante un paese
modesto come l’Austria, piuttosto che il colosso
germanico.
La stessa cosa avvenne l’anno successivo con l’occupazione tedesca della zona dei Monti Sudeti, interessanti i paesi cecoslovacchi.
Anche questa volta il Duce,
intervenuto da paciere,
riuscì a far passare l’azione tedesca con i ringraziamenti di
Francia e Inghilterra che, per
l’occasione venne definito
da Eden l’uomo della pace. Ma ecco
che apparve
all’orizzonte la questione della Polonia
e di Danzica.
54
Prendendo lo spunto da un presunto incidente di frontiera, l’esercito tedesco invase la Polonia, occupandola per quasi metà, lasciando l’altra metà alla mercé di Stalin, come da accordi precedenti presi sotto banco.
La spartizione della Polonia consentiva alla
Germania
di estendersi fino all’importante porto baltico di Danzica,
città già abitata da Tedeschi. A questo
punto, Francia e
Inghilterra non ricorsero più ai buoni servigi del Duce
italiano e imposero l’ultimatum a Hitler e fu la guerra,
al
quale il cancelliere tedesco già da qualche tempo aveva
pensato e preparato.
Hitler sapeva che non
avrebbe potuto affrontare la
Francia, difesa dalla famosa linea Maginot, una serie di
fortilizi,
sorta subito dopo la guerra del 1915/18, con lo
scopo di difendere il territorio da un’eventuale invasione
tedesca. Pertanto avvenuta la dichiarazione di guerra da
parte dei Francesi, l’esercito tedesco
invase senza un
preventivo motivo gli stati neutrali
Olanda, Belgio e
Lussemburgo e, dilagando alle spalle della linea Maginot,
aggirata, in
pochi giorni mise in ginocchio la Francia,
minacciando l’Inghilterra con raid aerei su Londra.
Sembrò evidente che la Germania sarebbe uscita vincitrice da questo conflitto europeo e che tutto si sarebbe risolto in una guerra-lampo.
Al gran Duce dell’italo onore, sembrò essere giunto
il
momento di godere dello splendore teutonico e così,
mentre la Spagna di Franco, se ne stette muta a guardare,
godendo dell’amicizia
silenziosa del cancelliere tedesco,
l’Italia, sotto la spinta di Mussolini, che
espressamente
chiese al gran consiglio del Fascio, di buttare sul piatto
55
della bilancia un pugno
di morti per potersi sedere al
tavolo dei vincitori, dichiarò guerra alla Francia.
Gli Alpini cercarono di
valicare le Alpi, in verità con scarso successo e, per non dimostrarsi da meno di Hitler, invasa
l’Albania, al grido di dover spezzare le reni alla Grecia, inviò un esercito d’occupazione in quest’ultima
nazione con l’intento di ricostruire il vecchio impero romano.
In verità al lungimirante
Hitler non piacque tanto
l’attacco alla Grecia, considerato da Benito un bocconcino
facile per dimostrare
l’italico valore a fronte di quello
teutonico. Qualcuno sembra aver riferito che il Cancelliere
tedesco abbia espressamente criticato dicendo: «Ma
che ce
ne facciamo della Grecia, povera in canna, per vincere i
nemici della Germania?»
Pare si sia incazzato ancor di più quando fu
costretto a
mandare in Grecia un buon numero di soldati tedeschi per
arginare le sconfitte degli Italiani, costretti ad arretrare in
Albania, respinti dai Greci, malamente armati, ma animati
dall’amor di patria e di difesa del loro sacro territorio.
Stalin cominciò a
preoccuparsi dell’intraprendenza di
Hitler e dopo aver invaso parte della Polonia, decise
di
fronteggiarlo, attaccando gli stati baltici, ritenuti filo-
tedeschi.
L’Inghilterra, messa alle strette, fece capire agli USA il
danno economico che ne sarebbe derivato da una sua
definitiva sconfitta e dall’allargamento del potere di Hitler,
che aveva
osato infestare anche l’Atlantico con i suoi
sommergibili, pronti ad affondare i soccorsi alla
perfida
Albione, che altro non erano se non navi americane.
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13
NUOVI SCENARI
Il conflitto che doveva essere una guerra-lampo, si
era
via via trasformata da europea a mondiale, poiché contro
l’alleanza italo-tedesca si scagliarono non solo gli USA, la
Russia, anche tutte le nazioni
facenti parte dell’entourage
coloniale francese e inglese. E i
Giapponesi, che non
rimasero a guardare, a Pearl Harbour attaccarono la flotta
americana,
distruggendola nello stesso istante in cui fu
dichiarata la guerra. Insomma l’inferno!
In questo nuovo scenario, i coniugi Nascara, furono completamente coinvolti. Paolo, sempre più imbevuto di eroico furore, chiese di essere impegnato in zone di prima linea. Forse, sperava di riscattare la sua misera posizione umana con il surrogato di una morte gloriosa.
Fu promosso da Capitano a Maggiore della milizia
con
un incarico particolare nell’ambito dell’OVRA. In verità,
il Duce, già a conoscenza del suo dramma e dei rapporti
della di lui
moglie Berta con il luogotenente di quel suo
antipatico e infido camerata Italo, pensò bene di inserirlo
nei suoi programmi di precauzionale posizione di difesa
personale. Conferitagli la promozione, lo
convocò a
Palazzo Venezia e gli parlò della funzione particolare che
gli veniva assegnata per la difesa
dello Stato. Apertamente
gli disse che il regime era minacciato da elementi interni,
non meglio specificati, che remavano contro la grandezza
dell’Italia. Il suo compito specifico era di sorvegliare
le
forze
marittime italiane di collegamento con la colonia
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della Libia, dove non tutti i suoi provvedimenti
venivano
rispettati, compreso quello della mancata applicazione
delle leggi razziali, approvati in conformità
all’alleanza
tedesca. Lì, in Libia operava un uomo che si era rivelato
non del tutto affidabile e si proponeva, quasi apertamente,
come nuovo capo dello stato fascista, di cui solo Lui era il
capo assoluto. Ecco quindi che bisognava tenere gli occhi
aperti ed essere pronti a
intervenire a un suo cenno.
Paolo Nascara, che già in cuor suo nutriva una certa avversione per la persona di cui si parlava, per i rapporti a lui già noti della moglie in quel settore, annuì e dette assicurazione della sua fedeltà incondizionata al Duce, che sedeva altezzosamente dietro la scrivania, dichiarandogli di essere pronto a eseguire ogni suo ordine.
In cuor suo, l’aver
larvatamente appreso che chi gli
aveva letteralmente rubato la moglie non apparteneva a un
gruppo che godesse la stima
del Duce, lo fece ben sperare
di trarre una possibilità di rivincita morale e personale.
Pur avendo accettato la situazione che si era venuta
a
creare con la moglie, la gelosia gli rodeva l’anima e
sperava di eliminare in un modo indolore quel suo rivale
occasionale, che già da tempo era in piena attività e non
cessava di continuare. Gli sembrò di capire che bisognava
attendere il
momento opportuno per agire e che lui, Paolo
Nascara, era stato designato dal Duce
a risolvere la
questione di particolare importanza per
l’Italia, e ironia
della sorte anche per sé medesimo.
Fu licenziato dal Duce con un saluto romano in attesa di disposizioni dettagliate sui compiti specifici che gli sarebbero stati affidati.
58
14
LA PERFIDA ALBIONE E IL FUOCO AMICO
Era il mese di Luglio del 1940. La guerra era scoppiata e l’Italia ne era pienamente coinvolta.
A Paolo Nascara era stato affidato il compito di
sorve-
glianza delle forze marittime del mediterraneo, ricevette direttamente dall’Ufficio del Duce, l’ordine
di far abbattere due aerei, di cui non
era nota la nazionalità, che si stavano
avvicinando in maniera sospetta a Tobruck. Quella località era
oggetto di continui raid aerei del Regno Unito, ossia, della perfida Albione.
In quei pressi stazionavano due imbarcazioni da guerra italiane: l’incrociatore San Giorgio e un sottomarino. Tutti e due le unità erano munite di batterie anti-aeree.
Fu impartito a entrambi l’ordine di abbattere i due velivoli, non appena si fossero presentati nel loro specchio d’osservazione.
L’ordine fu fedelmente eseguito e dei due aerei, uno riuscì ad atterrare indenne sulla pista dell’aeroporto e l’altro precipitò in fiamme colpito da una raffica di mitraglia. Fu subito emesso il bollettino che due aerei nemici avevano tentato un attacco all’aeroporto di Tobruck e che di essi uno era stato abbattuto e l’altro catturato con tutto il suo equipaggio.
Con grande disappunto e imbarazzo fu ammesso
dopo
che i due aerei, oggetto del bersaglio della marina italiana,
non erano nemici ma italiani, di ritorno da una missione
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contro una flottiglia
inglese. Si accertò che l’aereo
abbattuto era quello di Italo Balbo e che tutto l’equipaggio
era andato perduto. L’aereo in
questione era guidato dallo
stesso Italo, il quale non disdegnava di partecipare con il
suo velivolo ad azioni di guerra. La sua irrequietezza gli
era stata fatale. L’altro aereo, che era riuscito ad atterrare,
era quello guidato da Tullio Petronelli, che uscì indenne
dall’attacco di fuoco amico.
L’evento suscitò molto clamore, facendo serpeggiare in
giro
il sospetto di un complotto nei confronti dell’eroe
morto, subito smentito e giustificato da un fatale errore,
dovuto in
parte anche al comportamento dell’eroe dece-
duto, il quale era solito agire senza preventivi avvisi alle
forze armate, scorrazzando a destra e a manca per i cieli,
come se fossero delle comunissime strade.
Dall’inchiesta promossa non
fu possibile nemmeno
stabilire da quale delle due imbarcazioni fossero partite le
raffiche micidiali. Forse da entrambi. Non restò che
celebrare e immortalare la grandezza dell’eroe scomparso.
Le illazioni sul ventilato complotto furono tacitate e come conseguenza Paolo Nascara fu silenziosamente rimosso dall’incarico e avviato ad altre attività militari, lontano da Catania e da sua moglie.
L’amante di Berta, Tullio
Petronelli, sopravvisse ma
ben presto fu messo al riparo da ogni considerazione in
proposito. Egli confermò di non sapere quali accordi
esistessero tra Italo Balbo e il comando militare marittimo
di stanza a Tobruck, pur lasciando capire che il suo capo,
nel suo modo di operare, non badasse tanto alle modalità e
che andava soggetto a impulsi improvvisi e
autonomi.
60
La sua testimonianza avallò
la tesi che l’errore della
morte di Italo era da attribuire
alla sua intemperanza e
mancanza d’intesa con il comando militare marittimo.
Anche Petronelli fu rimosso dal suo incarico e
avviato
all’altro abbastanza prestigioso di Podestà di Catania,
lontano da incombenze militari e che
intensificarono i
rapporti con Berta.
Ancor oggi sussistono
dubbi, incertezze, pareri
discordanti sulla drammaticità di quei fatti, che
ebbero
come esito la scomparsa di uno dei capi fascisti, forse il
più zelante oppositore del Duce che, come si disse, fosse
contrario
all’intervento dell’Italia nel conflitto a fianco
della Germania. Si disse pure che
propose al Gran
consiglio del Fascio, di cui faceva parte, di entrare in
guerra, sì, ma contro la Germania. Qualcuno osò
anche di
annullarne i meriti definendo la sua fine come quella di
SCIUPONE L’AFRICANO, satireggiando sulla figura di
Scipione
l’Africano, a causa delle sue continue e sontuose
feste in Libia a spese dell’erario italiano.
Per quanto concerne la mancanza di coerenza tra i
vari
reparti italiani operanti in guerra, bisogna riconoscere che
vi erano in atto delle discrepanze e dei malintesi, forse non
del tutto
casuali. In proposito, voglio citare un altro
episodio abbastanza eclatante, come quello della morte di
Italo Balbo, passato
sotto silenzio ma che costò all’Italia la
perdita del dominio marittimo del
Mediterraneo: la
battaglia di Punta Stilo, presso cui la flotta italiana venne
in contatto con quella
inglese.
61
Nell’incalzare della battaglia,
da parte italiana, fu
richiesto l’intervento dell’aviazione e quest’ultimo non fu
tempestivo.
Avvenne che lo stormo degli aerei italiani,
anziché bombardare solo la flotta
inglese, per un fatale
errore, bombardò quella italiana. Solo
successivamente
individuò quella inglese, quando ormai
il carico delle
bombe si era esaurito. Del fatto non se ne parlò proprio.
Solo dopo, ma molto tempo dopo, venne a galla la verità,
di cui non si ebbe alcun
chiarimento e l’evento rimase
avvolto nel mistero di dubbi e di motivi reconditi.
Altro grave episodio di mancanza d’intesa tra i
reparti
al fronte, avvenne anche nella precedente guerra del
1915/18. Mi riferisco alla disfatta di Caporetto. Gli austro-
ungarici
non sarebbero riusciti a sfondare la difesa
italiana, se l’artiglieria italiana,
comandata da Badoglio,
avesse attuato il fuoco di sbarramento.
Ma ciò non
avvenne per la mancanza d’intesa con
il Generale
Cadorna, capo dello stato maggiore dell’esercito.
62
15
NELLE MANI DEI TEDESCHI: LA DISFATTA
Dopo quel fatale 1940, le fasi della guerra precipitarono a sfavore della Germania e dell’Italia, grazie anche all’intervento fattivo delle truppe americane con l’esito che tutti conosciamo.
Paolo Nascara, in seguito all’evento
di Tobruck, fu
dirottato verso altri incarichi. In parole povere fu messo in
ombra.
Bisognava che scomparisse dalla vicenda che lo
aveva
visto come anello di congiunzione nell’operazione che si
era risolta con la morte del numero due del Fascio, dovuta
al fuoco amico.
Bisognava allontanare del tutto il sospetto del complotto e convincere l’opinione pubblica del malinteso originato anche dall’operare sconnesso dello stesso Italo, che non aveva segnalato la sua posizione né l'intenzione di atterrare con i suoi due aerei a Tobruck.
Gli onori e le manifestazioni di cordoglio, nei confronti
dell’eroe perduto
inondarono l’Italia e furono immensi.
Si discusse pure sulla questione che l’aereo non guidato da Italo riuscì ad atterrare, mentre l’altro fu abbattuto senza colpo
ferire e della nomina a Podestà di Catania del Maggiore Petronelli.
Lo stesso Nascara partecipò
al picchetto d’onore
celebrativo dei funerali di Stato. Anche gli Inglesi
si
presentarono con i loro aerei sul cielo di Tobruck, non per
63
bombardare il porto ma per lanciare ghirlande di
fiori e
volantini inneggianti all’eroismo del grande Italo, che la
volontà divina e gli eventi avevano
posto nel campo
avverso.
Paolo Nascara, muto come un pesce, accettò di
essere
trasferito da quel suo incarico ad altro nell’ambito
dell’OVRA e accettò anche di buon grado la promozione a
colonnello.
Era del tutto calato il silenzio sull’episodio di
Tobruck
anche per l’incalzare dei nuovi fatti. Ormai la bilancia
degli eventi pendeva dalla parte
avversa alle speranze
italo-tedesche. L’Italia era continuamente
soggetta ai
bombardamenti americani, e quando ormai la situazione
era
diventata critica, il Gran consiglio del fascismo, sotto
l’azione del conte Ciano, genero di Mussolini, mise
in
minoranza il Duce, che fu costretto a presentare le sue
dimissioni a Vittorio Emanuele III.
Il Duce si recò al Quirinale, rendendo edotto il Re di non poter più esercitare la sua autorità nel Gran Consiglio, e chiese di designare il successore al suo governo.
All’uscita dalla sala delle udienze ebbe la sorpresa di essere accolto da una pattuglia di carabinieri che lo arrestò in nome di sua maestà Re e Imperatore.
Mussolini, pur con tutti i riguardi dovuti, fu privato non solo del potere, ma anche della libertà e spedito sotto scorta nella fortezza-prigione del Gran Sasso.
Il Re affidò la reggenza del nuovo Governo a Badoglio, con il preciso compito di trattare l’armistizio con le forze alleate, le quali avevano già invaso la Sicilia.
64
Venne firmato l’armistizio di Cassibile e fu
diramato
l’ambiguo proclama che la guerra continuava. Cosa,
quest’ultima, che mise in imbarazzo le truppe italiane, le
quali, prese alla sprovvista si videro aggredite dagli ex
alleati.
Il Duce fu liberato
con un raid aereo dalle forze
tedesche, che lo rimisero a capo del Gran Consiglio e fu la
fine dei
vari Ciano, de Bono e altri gerarchi dissidenti,
fucilati alla schiena come traditori
della Patria, dopo il
processo-burla di Verona. Fu lo scoppio della guerra civile
in Italia
e dell’invasione tedesca dell’Italia in appoggio
alle forze fasciste.
A Mussolini, ormai nelle mani dei tedeschi, che
lo
usarono come un burattino, non restò che fondare la
Repubblica Sociale di Salò. Nel mentre, sotto la spinta
partigiana, le città italiane si ribellavano al Fascismo e ai
tedeschi, il Re Vittorio Emanuele III,
per non cadere
prigioniero degli alleati fuggi verso
Brindisi, per poi
andare in esilio in Egitto, abdicando troppo tardi in favore
del figlio Umberto II, che passò alla storia come il Re di
maggio.
Per completare lo scenario di sfacelo delle forze
italo-
tedesche, bisogna anche dire che l’Etiopia venne persa insieme alla precedente colonia somala.
Nonostante l’intervento di Rommel, gli Inglesi del Generale Montgomery riuscirono a sconfiggere, grazie alle loro truppe corazzate, gli italo-tedeschi, che lasciarono l’Africa per non tornarvi mai più.
In tutto questo disastroso scenario il Nascara,
fedele al
suo Duce e ai dettami del suo Governo, ormai soggiogato
65
alla volontà della pazzia
galoppante e megalomane di
Hitler, aderì alla Repubblica di Salò
e in veste di
colonnello dell’esercito repubblichino fu catturato, per sua
fortuna, non dai partigiani, che all’istante lo
avrebbero
fucilato, come avvenne poi per Benito, ma dalle truppe
americane.
La sua cattura avvenne a Vercelli, dopo un conflitto
a
fuoco con i marines. Ormai lacero, privo di munizioni e
impossibilitato a difendersi, fu braccato nelle risaie
del
vercellese. Preso dalla pattuglia che lo cercava insieme al
suo luogotenente che perì nell’atto di
fuggire, fu
imbarcato e inviato, per sua fortuna, in America, sotto
stretta sorveglianza.
Al momento della cattura, non rinnegò
il suo credo fascista, ritenendosi un eroe. Se lo avesse fatto,
conse-
gnandosi spontaneamente alle forze alleate, non sarebbe stato sicuramente deportato.
Paolo Nascara dichiarò il
suo grado, la sua fede nel
Duce e si dichiarò prigioniero di
guerra. Per questo fu
impacchettato e insieme con gli altri irriducibili camerati
fu
inviato in America in attesa di processo per crimini di
guerra.
Finiva così l’avventura militare del giovane fascista, iniziata con la dissennata marcia su Roma e conclusasi con l’arresto e la deportazione con l’accusa di sospetta attività criminale di guerra.
66
16
LA VITA CONTINUA
Berta, nel fulgore della sua vita, aveva raggiunto
una
posizione che non tutte le donne italiane di allora erano in
grado di ottenere. Moglie onorata e fedele (in apparenza)
di
un eroe nazionale, stimato dal Duce, intima (e pure
invidiata) amante di un uomo molto vicino a quell’Italo,
considerato
il numero due del fascismo, madre di tre figli,
rispettata signora dell'alta società del
tempo e stella
nascente del Fascismo in chiave femminile, grazie alla sua
avvenenza e al suo modo di fare, aveva cercato di inserirsi
sempre ancor di più nei gangli
della vita cittadina, allac-
ciando rapporti d’amicizia con le più eminenti personalità.
Partecipava a tutte le manifestazioni cittadine.
Curava
le attività di carità sociale e anche quelle artistiche e
sportive. Era del tutto soddisfatta. Ormai la sua
principale
preoccupazione era di curare l’educazione dei figli.
Con molta arguzia, quasi prevenendo il burrascoso futuro che si addensava all’orizzonte, spostò le sue attenzioni dal partito verso la Chiesa Cattolica.
Era diventata madrina di opere di carità promosse
da
Pio XII e non omise di frequentare le messe domenicali.
Affidò l’istruzione delle sue due figlie femmine alle suore,
distogliendole dalle attività
fasciste alle quali era stata
educata, ritenendo l’educazione cattolica più appagante.
Era il caso di una conversione? Non proprio. Lei
era
stata e
continuava a essere cattolica, anche se era cresciuta
nello spirito patriottico fascista, a cui era stata aggregata,
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grazie ai concorsi e alle attività promosse dal PNF nell’ambito delle scuole. Poi l’attività ginnica l’aveva affascinata non poco, dandole quel clima di libertà e liberazione dei tabù che l’avevano condizionata.
Sostanzialmente a Berta non piaceva tanto il clima che si era venuto a creare in ambito internazionale. Da donna intelligente qual era, capì ben presto che lo stato attuale delle cose non poteva durare a lungo e che ben presto sarebbe avvenuto il crollo.
Difatti aveva cominciato a dubitare e
non poco delle
iniziative del Duce nell’ambito internazionale. Non era più
tanto sicura della stabilità di quella
roboante situazione
che si era venuta a creare; a lume di naso si rese conto che
non bisognava trascurare l’amicizia di chi non approvava
l’operato del Duce.
Qualcosa presto sarebbe cambiata, e ne ebbe la
piena
certezza il giorno in cui Italo Balbo fu abbattuto dalla
contraerea italiana, di cui intuì le motivazioni dai discorsi
del marito. Più ascoltava le farneticanti parole di Paolo,
più si convinceva di vivere in un clima pronto a scoppiare
da un momento
all’altro.
I fatti le dettero ragione e le nuove relazioni allacciate con ambienti lontani del partito e più vicine al mondo cattolico le tornarono utili con la fine della guerra.
Sta di fatto che
cessata la bufera con la sconfitta
definitiva del fascismo, nel nuovo contesto sociale, grazie
a
queste sue conoscenze e amicizie nell’ambito clericale,
pesò poco il suo passato di fascista convinta ed ebbe modo
di mettere la sua professionalità a disposizione del
nuovo
68
corso, grazie anche alle sue capacità organizzative.
Di non poco conto fu il suo sostegno alla causa ebrea.
Di lei si
ricordò dell'opera, prestata nel salvataggio di un gruppo di bambini ebrei, sottratti alla deportazione con l’intervento delle monache del convento
delle carmelitane.
Durante un rastrellamento, avvenuto nel ghetto romano degli ebrei,
da parte dei tedeschi e anche dei fascisti italiani, avviati poi ai vari campi di
concentramento in Germania e in Polonia, Berta ebbe l’intuito di salvare gli alunni ebrei di una scolaresca, facendoli passare per figli d’italiani. Di
loro se ne occupò personalmente nascondendoli poi nel convento delle carmelitane.
Grazie a questi suoi
trascorsi e alle sue capacità di esperta contabile, fu incaricata come consulente del Banco di Sicilia, con il successivo
incarico di direttrice di un’Agenzia.
Quindi non conversione la sua, ma versatilità al
nuovo
corso. Non fanatismo né tradimento ma adeguamento alla
nuova realtà e intuito di salvare
la propria famiglia dal
disastro. Forse era stata anche pietà per chi
si trovava
nella sofferenza, desiderio di umanità e quant’altro. Tutto
sommato, anche se di fede fascista, non era cattiva e non
tutto approvava del fascismo. Molto
della fede in lei,
inculcata dalla madre, era rimasta latente ed era emersa al
momento opportuno per salvare lei e la sua famiglia dal
disastro. In lei si era verificato quanto era avvenuto nella
coscienza
della maggior parte degli Italiani. Tutte cose
certamente non percepite dal marito, immerso del tutto
nel tessuto del
passato regime, cui aveva dato tutto se
stesso, le sue palle, il suo onore, la sua libertà con la cecità
69
del fanatismo assoluto.
Infatti, Paolo Nascara, non fece nessun passò indietro rispetto al suo passato. Anzi continuò a fare passi verso quel baratro che gli si parava davanti, bevendo fino alla fine il suo amaro calice.
Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta, come molti altri italiani, ebbe modo di riciclarsi alla luce delle nuove vicissitudini. Con l’incalzare degli eventi capì che l’era gloriosa fascista stava per finire e che era necessario rinnovarsi nelle nuove pieghe sociali.
In effetti molte cose già da tempo non erano
accettate e
condivise da lei di quel regime. Quella faccenda, poi, delle
leggi razziali, proprio non l’aveva gradita. Pensava pure
che quella
maledetta guerra avrebbe potuto anche essere
evitata e che sarebbe stato un bene
lasciare in pace
quell’Etiopia, che le aveva procurato tanto danno. Capì in
anticipo che
la posizione da lei raggiunta poteva crollare
improvvisamente con la caduta del
fascismo. Per questi
motivi pensò bene di allontanarsi alla chetichella dagli
ambienti del PNF. Intensificò le sue opere di carità sociale
e si avvicinò più di
quanto avesse fatto in passato alle
iniziative cattoliche. Ancor prima che
scoppiasse il
dramma finale si era allontanata dal mondo in cui il marito
continuava imperterrito a sguazzare. Si era arroccata nella
sua nuova attività d’impiegata di Banca, prendendo le
distanze dal marito, di cui più
nulla sapeva se non
solamente che era stato deportato in America, insieme ad
altri fascisti ritenuti
pericolosi.
70
17
IL RITORNO DI PAOLO
Che fine aveva fatto il marito, Paolo Nascara, cui
era
ancora legata
dal vincolo del matrimonio?
Berta non aveva più saputo nulla né le importava sapere. Molta acqua
era passata sotto i ponti dal giorno in cui si erano conosciuti. C’era stata poi la parentesi piacevole con quel Tullio, camerata di Italo Balbo e padre di Titti e Vittorio Emanuele. Scomparso anche lui
nel vortice degli eventi. Aveva solamente saputo che era fuggito in
Argentina, grazie ai maneggi internazionali con il regime di Peron. Nella sua vita sentimentale
qualche altra piccola avventura si era aggiunta a quella naufragata nel nulla, assieme al castello di regime.
Nulla d’importante e degno di essere ricordato e messo in conto. Aveva ormai raggiunto uno stato di autonomia che non a tutte le donne era concessa e l’abbandonarsi a qualche piccola e piacevole distrazione la rendeva più forte, battagliera e umana.
Finita la guerra, la
vita in Italia si avviava verso la
normalizzazione e il fervido operare per ricostruire quanto
era stato
distrutto, la rendeva più forte e sicura. Non
appena fu pronta prelevò dal collegio
di suore le due
figlie, ormai grandicelle, e cercò di
dare loro una
sistemazione per la vita. Il piccolo, lo aveva tenuto sempre
presso di se, curandone personalmente l’educazione.
71
Ma ecco arrivare il fulmine a ciel sereno!
Fu durante un pomeriggio del 1950, che a casa si
vide
presentare il marito dimenticato. Non pensava proprio di
doverlo rivedere. Restò sorpresa ma lo
accolse con
familiarità. Del resto che poteva fare? Era sempre suo
marito, anche se ormai estraneo alla sua vita. Tra Etiopia,
Repubblica Sociale e deportazione in America, era ormai
un estraneo nella sua vita e in
un certo senso ne era
contenta. Avrebbe fatto bene a non presentarsi a casa! Ma,
tutto sommato,
lo aveva amato e in ogni caso la sua
presenza avrebbe dato la parvenza di vita normale alla sua
famiglia. Ricordava benissimo la situazione dell’uomo e
della sua castrazione, ma ormai si trattava di un problema
già
superato da tempo e tanto valeva fare buon viso a
cattivo gioco.
Il povero Paolo era
finito in uno sperduto campo di
concentramento americano. Trattenuto insieme con altri
fascisti italiani in stato di prigionia militare, fu sottoposto
a giudizio penale da una giuria per presunti crimini di
guerra.
Nelle more del giudizio, fu costretto a lavorare per
vivere, come previsto dalla normativa americana.
Il carcere non fu certamente una esperienza
piacevole.
Per sua fortuna non emersero a suo carico casi particolari
di crimini da lui compiuti o altri
delitti a cui avesse
partecipato durante la guerra. L’unico suo neo era quello
di aver
militato in guerra in qualità di fascista irriducibile.
Pertanto, dopo un congruo periodo di detenzione, grazie
anche
ai rapporti instaurati tra l’Italia e gli USA e agli
accordi di restituzione dei prigionieri, fu reimbarcato su
un aereo
e restituito libero all’autorità italiana, che lo
72
considerò un reduce di guerra. Era stata appunto
varata in
Italia una legge che non distingueva tra buoni e cattivi, tra
fascisti e partigiani e che considerava tutti i partecipanti
alla guerra trascorsa a qualunque fazione militata, reduci
di guerra. Era quello un segno di pace tra gli italiani per
chiudere quel burrascoso periodo, dopo l’eliminazione
fisica dei gerarchi che erano stati fucilati dai partigiani e
appesi in testa in giù a
piazzale Loreto a Milano.
Alla commozione e alla gioia di riabbracciare moglie e figli, ben presto subentrarono un’apatia e un senso di disagio mai provato prima.
Il periodo di prigionia lo aveva del tutto distrutto. Si sentiva come precipitato in un mondo perduto. Non si raccapezzava più della realtà in cui era costretto a vivere. Tutto era cambiato da quando indossava l’orbace e la gente lo salutava romanamente con rispetto. La milizia, oltre al Duce, non esisteva più.
Messo in congedo illimitato come semplice reduce
di
guerra, nulla gli era rimasto di quanto prima ottenuto con
il suo servizio alla patria, anzi era
costretto a non
mostrarlo per il quieto vivere. L’unica sua incombenza era
di trovarsi un lavoro per sbarcare il lunario.
Ma quale
lavoro? Egli nella sua vita non
aveva fatto altro che
obbedire ai suoi superiori e comandare ai suoi subalterni.
Non si era mai curato di
intraprendere un mestiere e ormai
era troppo tardi per cominciare un’attività redditizia di
qualunque tipo. Inoltre lo stato di depressione era tale
che
non aveva
intenzione di fare alcunché.
Si limitò a fare il principe consorte, anche se per
farlo
non aveva più gli attributi. Più che principe consorte,
73
senza un lavoro, senza arte ne parte, diventò piuttosto il lacchè della moglie che lo comandava a bacchetta e lo impiegava a badare alle faccende domestiche. In più era ritornato con una grave affezione ai polmoni che gli rendeva difficile anche respirare.
Deluso, malato, insoddisfatto e privo di ogni
velleità,
sopravvisse appena un anno dal suo ritorno in Italia.
Un mattino del 1951 fu trovato morto stecchito nel letto in cui dormiva
ormai separato in casa dalla moglie.
Berta non sopportava più di averlo accanto la notte.
Ufficialmente era il marito, il padre dei suoi figli, ma in casa era diverso. Ognuno viveva per i fatti suoi senza dover dar conto del
proprio operato.
I funerali avvennero in modo del tutto privato,
senza
particolare rilevanza. Sulla bara, oltre al cesto di fiori di
rito, nulla vi era a ricordare i
suoi lontani fasti, se non
qualche lacrima delle due figlie. Il
maschio, ancora
ragazzino, quasi per istinto, non lo accettò mai come padre
e la sua morte lo lasciò completamente indifferente.
Figura emblematica, quella
di Paolo Nascara, che
rappresenta l’ideale dell’amor di patria soverchiato dalla
sconfitta e
dal crollo del suo “credo” politico, ma che però
accetta senza alcuna remora uno stato
di fatti e
avvenimenti da condannare perché basati non sul bene
comune della nazione, ma sul fanatico
egoismo di un
singolo uomo, illuso di essere al di sopra di tutto e di tutti.
Se è da ammirare la sua
fedeltà al giuramento prestato alla
patria, non è certo da lodare per
la cecità, che rasenta
l’auto-annullamento della personalità umana.
74
18
LA VEDOVANZA DI BERTA
Un nuovo capitolo si apriva nella vita della nostra eroina, divenuta vedova sconsolata in apparenza, ma libera del tutto di fare i suoi comodi e di soddisfare senza alcun freno la propria libertà in tutti i campi.
Nel suo ambiente era conosciuta e stimata per la
sua
disponibilità a dialogare con il personale e anche con la
clientela.
Nonostante gli anni avanzati, sentiva ancora gli
stimoli
della carne e pur con molta discrezione aveva un amico
fisso con il quale di tanto in tanto passava qualche serata
in compagnia.
Nulla di travolgente come ai tempi di Paolo e di Tullio. Una relazione amichevole, di reciproca compagnia in alcune ore libere da impegni di tutta la settimana.
Subito dopo la fine della guerra, grazie all’impulso dato
dal governo di allora per la ricostruzione, era facile potere
accedere a prestiti bancari per dare inizio a
imprese e
iniziative atte a far ripartire l’economia. La concessione di
tali prestiti era, per lo più affidata all’acume del Direttore
dell’Agenzia bancaria.
Berta, in materia di conoscenza e acume aveva il pregio o la fortuna di concedere prestiti a persone che riuscivano sempre a tener fede agli impegni assunti. Per questo motivo era molto stimata nell’ambito del Banco di Sicilia per il suo contributo produttivo.
Rischiando molto, concedeva prestiti a imprese edili,
75
che a garanzia esibivano pacchi di cambiali di clienti, per la riscossione delle quali se ne faceva carico, tramite l’organizzazione bancaria.
Non le andò mai buca!
Le imprese costruivano, vendevano case di nuova costruzione, accettando in pagamento la sottoscrizione di un certo numero di cambiali a cadenze stabilite e la Banca riusciva a realizzare dei profitti cospicui.
Al tempo, nonostante gli aiuti dell’America, circolava poco denaro liquido, ma la cambiale si assunse l’onere di sostituirlo egregiamente.
Nonostante le stima acquisita e la bravura
dimostrata
nel suo ruolo, tuttavia le malelingue dicevano di lei che la
sua carriera fosse anche frutto
dell’amicizia non certo
fraterna con un personaggio della
politica nazionale il
quale, in un modo o nell’altro, anche se non in maniera
molto latente, un certo rapporto
aveva avuto con il passato
regime.
Subito dopo la proclamazione
della Repubblica
Italiana, seguita al Referendum in proposito, vinto con uno
scarto minimo del nuovo
assetto statale italiano,
nonostante il partito fascista fosse stato proclamato fuori
legge, tuttavia alcuni nostalgici del passato regime
riuscirono a riciclarsi politicamente
militando nei nuovi
partiti.
Si chiacchierava molto su Berta di Savoiano in Nascara
e sulla sua
rapida carriera in Banca rispetto ad altri più
anziani di lei. Si mormorava che il ragioniere Mancuso,
molto
più anziano di lei, fu costretto a dimettersi ancor
76
prima di aver raggiunto i limiti per andare in pensione e che il giovane ragioniere Viscuso fu trasferito in un piccolo centro dell’Ennese, per un incarico per cui erano necessari i suoi meriti e le sue prerogative.
A parte di ogni particolare considerazione, la
questione
che
fosse lei donna tra dipendenti quasi tutti maschi, per di
più vedova, e che mostrava una certa avvenenza non del
tutto spenta, era certamente
d’impulso alle dicerie.
A ogni buon conto mai nulla emerse di scandaloso o
di
riprovevole in lei, che mostrava sempre un cipiglio altero
e padrone di sé, ereditato dalla sua militanza nell’ex PNF.
Ma una considerazione va fatta. Pur essendo scomparso il
vecchio regime, sostituito dal nuovo corso, continuava a
persistere il
vecchio sistema delle raccomandazioni, più o
meno evidenti di sempre.
Già! Quel sistema che aveva contribuito a far perdere gli attributi in Etiopia a Paolo e che adesso a lei permetteva di fare carriera.
L’altra considerazione anch’essa
amara è che non
poche donne riuscivano a imporsi sia
nel lavoro sia in
società grazie alla meritocrazia, ma anche alla concessione
della loro intimità.
77
19
MAFALDA
Mafalda era la prima delle figlie di Berta, il cui
padre
naturale era Paolo. La ragazza fin dall’età scolare fu
affidata alla cura delle suore insieme alla sorella Titti.
Gli
impegni della madre non consentivano che frequentassero
le scuole statali. Tale frequenza la esonerava da tutte
le
altre incombenze di madre, e non solo questo. Lei credeva
che le suore fossero le persone più adatte a dare alle sue
figliole una perfetta
educazione.
Aveva un bel dire il
Duce a sostenere che la scuola
pubblica statale fosse migliore di quella privata cattolica.
In
quest’ultima non s’insegnava solo a essere delle ottime
cittadine, ma s’inculcavano principi di
umanità e amore
ignorati dal regime.
Mafalda, che non a caso aveva questo nome perché una
delle
principesse figlie di Vittorio Emanuele III si
chiamava così, era venuta su molto
bene. Una vera
principessa! Anche il nome, opportunamente scelto, le si
addiceva.
Peccato quel brutto cognome popolare Nascara.
Sarebbe stato più bello Mafalda di Savoiano. Quel pizzico
di
nobiltà lontana era una delle fisse di Berta, che non
perdeva mai occasione di ricordare alla
figlia di essere
lontana cugina di quell’altra Mafalda di Savoia, quella
morta martire in un campo di concentramento, prigioniera
dei tedeschi e che nelle
sue vene scorreva sangue reale.
In verità non correva
un buon rapporto tra madre e
figlia. A parte la poca frequenza,
avevano un carattere
78
differente, accentuato dal
modo diverso di concepire la
vita. Molto attiva Berta, irruente e
padrona di sé, più
pacata e sognatrice Mafalda, che si
scopriva spesso a
immaginare un mondo diverso da ciò che lo circondava,
popolato da
principi azzurri, favolose storie e fiumi di
serenità dove le notizie di guerra e i discorsi di eroiche
vicende non trovavano posto.
Lei era una sognatrice e vedeva tutto colorato di
rosa
come nelle fiabe. Aveva una venerazione per il padre che
conosceva pochissimo e lo immaginava, armato di corazza
e lancia, scorrazzare per i
campi di battaglia con lo
stendardo del tricolore, cavalcando un cavallo bianco.
La sua costante lontananza
a causa del suo ideale
politico, glielo faceva identificare con
quel San Giorgio
dipinto nel muro dell’oratorio del convento nell’atto di
uccidere il drago. Quando lo
conobbe, reduce dalla
prigionia in America, stanco e ammalato ne ebbe pietà, ma
anche una grande delusione. Tuttavia non le fece mancare
il suo affetto e gli restò accanto
fino alla morte.
Del resto, lei apprese
dalle suore tutto quanto era
necessario per la sua futura vita di donna morigerata nel
mondo,
oltre alla sensibilità affettiva nei confronti del
prossimo e dei propri genitori. Poco conosceva della vita
piuttosto
avventurosa e libertina della madre. Si sentiva di
essere una donna virtuosa, ricca di
sentimenti, pronta a
dare ai suoi futuri figli quegli affetti, materni, che sentiva
essere a lei mancati nella sua lunga permanenza in
collegio. La sua aspirazione era di
sposarsi, amare un
uomo e avere una famiglia sua, dove regnasse l’armonia e
la serenità,
soprattutto non si parlasse di guerra, di bombe,
79
di sirene d’allarmi e di paurose
invasioni nemiche. La
mancanza del padre, sempre lontano da lei, a combattere
per i suoi
ideali, se da un punto di vista umano rendeva
l’uomo eroico e degno di stima,
dall’altra lo privava di
umanità filiale. La sua vita, durante la guerra, non era stata
facile in collegio e ciò
aveva maggiormente forgiato il suo
carattere e il suo desiderio di serenità in tutti i modi.
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20
IL FIDANZAMENTO
Berta ritiratasi a casa, dopo una giornata di duro
lavoro
in banca, tra analisi di conti, revisioni di capitolati e le
discussioni che non
mancavano mai, fu raggiunta dalla
voce di Mafalda, la prima figlia, che dopo aver lasciato il
collegio viveva con lei. Questa volta il tono le sembrò
diverso dal solito. Non mancava mai di dialogare con le
sue figlie, anche se di sfuggita, ma questa volta si rese
conto che c'era qualcosa di nuovo nel suo
atteggiamento.
«Mamma ti debbo parlare» disse Mafalda con fare po’ impacciato.
«Che cosa c’è».
«Ho conosciuto un ragazzo, che mi fa la corte e... mi sono accorta di volergli bene» aggiunse.
Mafalda non era stata del tutto sincera, poiché con quel ragazzo amoreggiava già da tempo, ma non sapeva come dirglielo. Erano ancora gli anni in cui le ragazze non tanto facilmente accettavano di uscire con un coetaneo, e l’averlo fatto, li faceva sentire in colpa.
«Ho capito» rispose Berta, che ormai aveva una
certa
esperienza in materia. «Dimmi almeno chi è. Poi ti dirò se
potrai frequentarlo o no» aggiunse con tono accomodante.
«Si chiamava Giovanni. Questo ragazzo
mi è molto
caro e quando lo conoscerai te ne
renderai conto tu
stessa».
«Vedremo» rispose Berta, abituata a toccare con mani la realtà e a dare dopo un giudizio sul da farsi.
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Quel “vedremo” fece capire alla figlia che si sarebbe informata sul conto del suo fidanzato.
Mafalda lo aveva conosciuto durante una festicciola di ballo che si era svolta a casa di un'amica.
In quegli anni i giovani organizzavano le festa il
sabato
sera a turno a casa di loro e si ballava con la musica
passata su un giradischi. In questo
modo si aveva la
possibilità di fare conoscenze e
intavolare anche dei
rapporti amorosi, che talvolta sfociavano in fidanzamenti e
conseguenti matrimoni.
Mafalda aveva appena sedici anni, un’età critica per
le
ragazze, alquanto disposte a essere corteggiate e a essere
abbindolate da chi mostra loro delle attenzioni particolari.
Giovanni, un ragazzo sui venticinque anni, simpatico, dai modi gentili, dagli occhi espressivi e dal cravattino a farfalla sulla camicia bianca, l’aveva invitata a ballare una prima volta, poi una seconda e una terza…
Il sabato successivo la
accolse con un sorriso che
diceva tutto, la invitò a ballare
e tutta la serata, non la
lasciò libera. Parlava, parlava e lei ascoltava come in un
sogno. Al terzo sabato la invitò a
una passeggiata alla villa
Bellini. Lei accettò.
Fu il primo bacio, almeno per lei. Fu così che si erano conosciuti e amati e fu proprio lui a dirgli di volerla sposare. Per questo ne aveva parlato alla madre.
Passati alcuni giorni, la brutta sorpresa per
Mafalda fu
la sua voce imperiosa a dirle espressamente di piantarlo
poiché non era adatto a lei. «Devi sapere che costui non ha
né arte né parte. È uno
spiantato. Non solo. Spacciandosi
per nipote di Giovanni Verga, ha
architettato anche una
82
truffa nei confronti di una gioielleria, beccandosi due anni di reclusione con la condizionale. Ha frequentato l’Istituto Tecnico Gemmellaro senza riuscire a conseguire il diploma di ragioniere. Non se ne deve parlare per niente! Ti proibisco di frequentarlo. Costui è capace di rovinarti l’esistenza e di complicarci la vita, che è già abbastanza difficile. Niente. Dico niente, figlia mia».
Le parole di Berta non convinsero la figliola che si sciolse in lacrime. Era innamorata e non aveva nessuna voglia di abbandonare l'uomo dei suoi sogni.
Durano per qualche gli scontri che si erano
instaurati
tra madre e figlia. Era una vera guerra, fatta di pianto,
sorrisi, promesse, minacce e quanto possa accadere tra una
figlia innamorata e una madre sinceramente preoccupata
per il suo avvenire.
Alla fine, a cedere le armi non fu la figlia ma la
madre.
Berta permise alla sua figliola di fidanzarsi ufficialmente
con quel suo pretendente, nella speranza
che la vicenda
avrebbe avuto l’epilogo da lei sperato, a condizione che
continuasse gli studi e conseguisse
il diploma magistrale.
«Va bene» disse infine «di’ a quel bell’imbusto di venire a casa che gli voglio parlare».
Giovanni si presentò, asciutto e sorridente, con un
bel
mazzo di rose rosse per la fidanzata e un presente per la
futura suocera, che non omise di chiamare mamma, con
tono
accattivante. Disse che purtroppo non era in grado di
far conoscere i suoi genitori perché ormai nel mondo dei
più e chiarì
subito che le intenzioni per sua figlia erano
“serie”.
83
Giovanni non sapeva che proprio quella “serietà”
non
piaceva alla
madre la quale, senza mezzi termini e con una
certa alterigia, gli fece capire che lei sarebbe stata sempre
vigile sulla vita della
figliuola, alla quale nulla negava. Per
questo motivo da Lui, come suocera, pretendeva non solo
l’amore per
la sua figliola, sua futura sposa, ma anche la
promessa che l’avrebbe resa felice, soprattutto con il suo
comportamento. Gli disse
chiaramente che avrebbe accon-
sentito al matrimonio a condizioni che lui riprendesse gli
studi interrotti e si diplomasse da ragioniere e gli fece
intendere che a sistemarlo in Banca avrebbe provveduto
lei.
Giovanni promise e cercò anche di mantenere. Fu un fidanzato perfetto. Alternando la sua attività lavorativa saltuaria di commesso presso un negozio di stoffe, e i libri, cercò di riprendere gli studi interrotti.
La suocera intervenne anche economicamente, pagando profumatamente le
lezioni per la preparazione agli esami.
Giovanni fece la richiesta di
presentarsi da esterno per conseguire il diploma di ragioniere.
Alla sua preparazione aveva
provveduto un istituto
privato, che millantava di far recuperare gli anni perduti,
ma
si capì subito che l’impresa sarebbe stata proibitiva,
nonostante l’impegno economico affrontato dalla futura
suocera. Lo capì benissimo Berta, molto vigile in
proposito, che scoprì di avere tra i suoi clienti il presidente
della commissione di esami del futuro genero.
Lo andò a trovare, e correndo con il professore un certo rapporto di amicizia, gli parlò del suo problema di madre e di futura suocera.
84
«Carissimo professore, vengo da lei
con il cuore in
mano. Lei mi conosce e sa
benissimo che mai le avrei
chiesto un favore. Ma questo caso non riguarda me. Vengo
a raccomandarmi per una
persona, che per quanto mi
riguarda avrei preferito non aver mai tra i piedi. Purtroppo
mia figlia, che è la
luce dei miei occhi, ha deciso di legarsi
a lui e non posso che fare buon viso a cattivo gioco. Lui si
sta presentando da esterno per conseguire il diploma di
ragioniere. So che non lo merita perché ha preso sempre
sottobanco la scuola. Spero che in questo modo, possa
mettere la testa a partito e che non faccia soffrire la mia
diletta figlia».
Il caro professore fu
buono, anche perché una mano lava l’altra e
nella vita non si può mai sapere.
Giovanni diventò ragioniere, aspirante a un posto di
prestigio in banca o in qualche altro ramo dell’attività commerciale e non solo.
Berta riuscì a farlo assumere al Banco di Sicilia, ma non nella sua Agenzia, per carità!
Fu così che il fantomatico nipote del famoso
Giovanni
Verga, mise da parte questa sua millantata parentela e
decise di mettere la testa a
posto. Aveva una fidanzata
giovane che lo adorava, una suocera che lo proteggeva più
che sua madre morta da tempo,
un posto di tutto rispetto e
la possibilità di far carriera.
85
21
GIOVANNI
Quel vezzo del tutto vecchio delle raccomandazioni, che non erano certo motivi di meritocrazia, ma che sempre utili sono, lo aveva favorito; sarebbe stato da stupidi non trarre vantaggio da quella situazione.
Il padre, un modesto contadino, aveva cercato in
tutti i
modi di far studiare il figlio. Fu così che Giovanni era
passato dal mondo rurale alla scoperta di un mondo
molto
al di sopra del suo stato, che lo aveva spinto solamente ad
“apparire”, senza curarsi di avere una formazione culturale
solida capace di affrontare le avversità della
vita.
In questa sua corsa verso un
mondo fatuo lo aveva
spinto anche la morte della madre. Per questo cumulo di
motivi
connessi alla sua situazione, già grandicello, si era
trovato a dover vivere di espedienti pur di tirare avanti. La
truffa, il guadagno illecito,
il gioco e quanto la società in
espansione offriva, gli consentivano di andare avanti e
tenere
un tenore di vita improntato al benessere. Era
chiaro che il suo non era benessere, ma il modo di poter
restare a galla.
Adesso tutto questo era
stato superato e poteva dire
d’avere raggiunto una posizione di tutto rispetto.
In verità, per quanto la ragazza gli piacesse, non era stato il sentimento a spingerlo al
matrimonio, ma la certezza d'aver trovato la classica gallina dalle uova d’oro, per di più figlia di una donna influente che per amore della figlia avrebbe pensato anche a una sua
sistemazione.
86
Giovanni si era integrato
perfettamente nella nuova
famiglia, e con il tempo riuscì a conquistarsi la stima di
Berta, che
alla fine riconobbe che la figlia aveva fatto
un’ottima scelta, di certo migliore della sua per Paolo, suo
padre, che
era sempre stato con la testa tra le nuvole
rincorrendo fantasmi di gloria e l’aveva lasciata sola per
correre in Etiopia a conquistare
l’Impero per l’Italia.
Berta aveva concluso in cuor suo che non sempre
il
diavolo è così brutto come lo si dipinge e non sempre ciò
che è brutto resta brutto e quello
che sembra bello è
sempre bello.
Le vicissitudini della vita possono contribuire a rendere il mondo migliore, e talvolta anche peggiore.
Giovanni, dopo aver conseguito il diploma, sposò Mafalda e misero su casa, e facendo tesoro dei consigli della suocera, abbandonò le cattive abitudini di giovane scapestrato e si mise sulla buona strada.
La loro unione fu allietata dalla nascita di un figlio che diventò la gioia di nonna Berta che iniziò ad apprezzare quella felicità che lei non si aspettava di ricevere.
Anche come padre, quella lenza di Giovanni aveva dato degli ottimi risultati e doveva ammettere che questo suo genero era sempre pronto a correre in suo aiuto tutte le volte che glielo richiedeva.
87
22
LA DIVERSITÀ DI TITTI
Titti, la seconda figliola di Berta, pur assomigliando più alla madre che alla sorella, sia nell’aspetto sia nella mentalità, incominciò a darle serie preoccupazioni, seppur del tutto giustificate.
Titti era molto diversa da Mafalda. Quanto assennata e sognatrice la prima, tanto istintiva, volitiva e permeata d’idee che la madre riteneva balzane, la seconda.
Titti era amante dell’avventura e del vivere improntato sull’attimo fuggente. Rifiutava l’idea del matrimonio e affermava espressamente di non volersi legare a qualcuno che potesse imporle la sua volontà.
D'indole indipendente era di un forte individualismo e autostima che lasciavano perplessa la povera Berta, che pur riconosceva lei stessa di non essere stata morigerata nelle sue scelte passate, però riteneva di aver saputo porre un limite alle sue intemperanze e infine di aver imbroccato la strada giusta per riuscire nella vita.
Berta sperava che anche Titti scegliesse di sposarsi
e
mettere su famiglia, come del resto lei aveva fatto. Avere
una famiglia propria è sempre un porto sicuro in tutte le
evenienze, e poi da che mondo e
mondo il marito è sempre
stato un ottimo parafulmine per la donna. Per lei Paolo lo
era stato,
almeno questo ruolo l’aveva assolta con dignità
nei confronti di lei.
88
Dopo aver conseguito la
licenza media presso il
collegio di suore, come la sorella, Titti si era rifiutata di
proseguire gli
studi presso di loro. Scelse di frequentare il
Liceo Classico statale con la ferma intenzione di iniziare
dopo un corso
universitario di legge per conseguire la
laurea in scienze giuridiche. Una vera novità per
quei
tempi. Inoltre era sua ferma intenzione di conseguire il
brevetto di pilota civile. Il suo sogno era di volare.
Berta, in quel
comportamento individuò la diversa
paternità delle ragazze. Anche fisicamente
avevano un
aspetto differente. Mafalda era bruna con gli occhi neri
come Paolo e
in più aveva paura di salire su un aereo e
Titti era castano chiaro con gli occhi azzurri di Tullio e
non
sognava altro di volare e addirittura di pilotare un
aereo.
Al tempo non si parlava di donne laureate in legge né tanto meno di partecipazione delle donne nell’aviazione o nell’esercito, ma la caparbia volontà di Titti impose alla madre Berta e al padre ufficiale Paolo, che poco contava di seguire i suoi disegni.
Berta si rese conto che la figlia, oltre ad aver
ereditato
parte del suo carattere, aveva ereditato in pieno lo spirito
avventuriero del padre, quel Tullio felice di scorrazzare in
cielo con l’aereo come
se passeggiasse per le vie cittadine.
Titti, oltre al suo modo di pensare, aveva acquisito l’indole del padre naturale.
Tullio, belloccio e amante della natura e dell’avventura,
aveva
accettato la relazione con Berta, che lo rendeva
libero delle sue azioni. Era un uomo fatto così! Estroverso,
avventuroso, facinoroso, ma anche amabile e
piacevole a
89
frequentarsi. Per Berta, quell’uomo era andato
benissimo.
Non aveva preteso nulla da lui, se non di fare l’amore. Le
piaceva godere della sua presenza,
viverne la vita
estroversa, coglierne i momenti più belli, annullarsi in
quegli attimi
d’amore che la rendevano felice. Però non
ammetteva che una simile personalità e
una simile
condotta di vita, fosse una buona cosa per la figlia e che
sarebbe stata
certo di nocumento a lei stessa e di certo
avrebbe arrecato dei dispiaceri anche a
lei, nella sua
qualità di madre. Tullio era un uomo e Titti una donna!
Mica lei poteva comportarsi come un
uomo.
I tempi non lo permettevano più. Dopo la caduta
del
fascismo, con l’avvento della DC le donne erano rientrate
nel loro guscio di candore e di
decantata purezza di
sentimenti.
Era meglio seguire l’evoluzione dei tempi.
Quantunque non le restò
che assecondarla, non
omettendo di ricordarle in continuazione
che per una
donna il matrimonio era la posizione ideale. Un marito si
poteva
sempre lasciare oppure, come aveva fatto lei,
ridurlo in posizione di sudditanza. Cercò di spiegarle che
la sua vita, da sola, sarebbe stata difficile in un mondo
dove ancora l’essere
maschio costituiva un privilegio
sociale, oltre che naturale. Per l’esperienza che ne aveva
avuto, c'era
da dire che il marito andava addomesticato,
come aveva fatto lei con Paolo,
sebbene fascista e
maschilista.
Titti non le dette ascolto e intanto si iscrisse a
un corso
di paracadutismo, continuando per altro a seguire alcune
attività sportive non del tutto
femminili, quali la lotta
90
libera, il lancio del disco e il nuoto. Di tanto in tanto si accompagnava a qualche spasimante ma nulla di serio e d'impegnativo.
Berta, ormai avanti negli anni, finì per arrendersi
e
lasciò sua figlia Titti libera di scegliersi la via da seguire,
purché tenesse conto di crearsi i
presupposti per un
avvenire senza dover elemosinare l’aiuto di qualcuno.
Questo consiglio fu
accettato dalla figlia, che la
rassicurò, accettando di frequentare la Scuola Normale di
Pisa per
conseguire una laurea in Astronomia, anziché in
Legge, tra l’altro, più confacente alle sue aspirazioni.
91
23
LA MATURITÀ DELLA VITA DI BERTA
Berta, durante gli anni tremendi della guerra, con
il suo
carattere intraprendente, era riuscita a tracciare la sua
strada, pur contorta, riuscendo a imporsi nella vita e nella
società.
Con l’avanzare degli anni
si era resa conto che la
seconda parte della sua vita si
preannunciava non tanto
tranquilla a causa dell’impatto con la personalità dei figli.
Il marito non era
stato d'ostacolo alla sua ascesa
sociale. Nonostante la menomazione fisica e l'aderenza
maniacale alle idee patriottiche, era riuscita a
imporre le
sue
capacità.
Anche se la scelta di Mafalda, all’apparenza del tutto screanzata, in fin dei conti era andata bene, invece quella di Titti la lasciava molto dubbiosa e incerta.
Temeva molto per lei, per il suo avvenire e per quel suo
sentirsi diversa dalla sorella. Per questa ragione cominciò
a torturarla il tarlo d'aver commesso degli errori durante la
sua vita
rispetto ai figli e che avrebbe potuto evitare,
porgendo loro maggiore attenzione nell’educazione.
Non rimpiangeva nulla di tutto ciò che aveva fatto nella
vita. Era stata coerente con se stessa e al momento
opportuno aveva saputo prendere la giusta direzione. Non
si
lamentava di nulla. Aveva fatto bene a non mollare il
marito “eunuco per amor di patria”, a essersi comunque
prese tutte
le soddisfazioni, anche sessuali, che la vita le
92
aveva offerto. Però temeva fortemente di aver errato nel mettere al mondo altri figli. Sentiva che i due venuti dopo la prima, erano sicuramente diversi.
Eppure la sua scelta era stata voluta e coerente con
il
suo modo di pensare. Non voleva lasciar sola Mafalda,
che le appariva bisognosa di compagnia.
Riteneva che
darle una sorella e un fratello fosse un dono di cui non
bisognava privarla.
Adesso recepiva che, non essendo figli
dello stesso
padre, avevano delle diversità ereditarie di carattere, che
non aveva calcolato. Questo pensiero la turbava e non se
ne dava ragione.
Anche se i figli non
erano a conoscenza della sua
aggrovigliata vicenda matrimoniale e sentimentale, non
avendo mai saputo dell’impotenza sessuale acquisita dal
loro padre ufficiale né delle sue relazioni extra-coniugali,
purtroppo il problema era emerso all'improvviso e in tutta
la sua drammaticità.
Tutto questo cominciò a pensare la
superba signora
Berta, tanto sicura di sé ma incerta dell’avvenire dei figli e
non sapeva ancora cosa frullasse nella
testa di Vittorio
Emanuele!
93
24
VITTORIO EMANUELE
Quando Berta si accorse di essere incinta per la
terza
volta, sperò tanto che fosse un maschio per poterlo
chiamare Vittorio Emanuele oppure Umberto, in ricordo
delle sue lontane origini reali e questi nomi erano quelli
giusti. Il suo idolatrato segreto di sentirsi di sangue reale e
di
nobile schiatta era sempre presente in lei e il desiderio
di perpetuarlo nel tempo era il suo problema principale di
vita.
Appena nato, fu subito stabilito doversi chiamare Vittorio Emanuele, perché lei trovo nel profilo dei tratti somiglianti. Tutti furono d’accordo con lei, sia il padre giuridico sia quello naturale, anche se il primo avrebbe preferito Benito e il secondo Italo.
La scelta del nome era
caduta sul nome del re in
persona e Berta si era ripromessa che quando
il figlio
sarebbe stato più grande, gli avrebbe detto che era un
lontano
cugino del Re e ne portava il nome. Di sicuro non
poteva esibire il blasone di cotanta origine ma il saperlo
era
motivo di soddisfazione. Va bene che la Rosina, in
fondo non era che una contadina ma ciò che contava era la
fecondazione
reale. Ciò che vale nella riproduzione è il
seme e non la terra raccolta nel vaso.
Berta teneva molto a questa discendenza anche se
non
poteva vantarsene apertamente ma ci teneva a trasmetterlo
ai figli e far sapere che nelle loro vene scorreva del sangue
94
reale; quello stesso che era del principe Biancamano, capo
stipite dei Savoia, e del primo Re d’Italia. Non a caso nel
suo salotto aveva appeso un bellissimo
ritratto del Re
Vittorio Emanuele II, con tanto di baffi svolazzanti e in
divisa militare.
Vittorio Emanuele cresceva bello, robusto, gioviale e allegro. Dimostrava una prestanza e un’eleganza fuori dal comune... Definiamolo pure reale!
In verità a Berta sembrava e s’illudeva che
somigliasse
a lei
in alcune parti del viso, per individuare le tracce della
sua nobile discendenza, ma la fronte spaziosa, lo sguardo
penetrante, il
gesticolare volitivo, i capelli leggermente
biondicci, le labbra sottili, le orecchie un poco aguzze, gli
occhi azzurri, richiamavano i lineamenti del padre
naturale.
Crescendo, la somiglianza
sembrava sempre più
veritiera, anche se il padre ufficiale, si sforzava di dire
che
somigliasse, tale e quale, a quel suo nonno morto durante
la grande guerra, sul Monte Ortigara. Ci teneva a dire che
questo suo
nonno aveva sposato una donna che aveva i
capelli biondi e aveva pure gli occhi azzurri. Sì, quella era
una prova
certa che si trattasse di suo figlio, nel caso
qualcuno insinuasse il contrario.
Berta fu felice di avere questo figlio maschio, che
curò
in modo particolare e per il quale nutriva delle aspirazioni
mirabolanti.
Pensò di avviarlo alla
carriera bancaria o comunque
legata al mondo finanziario. Per questo
dopo la licenza
media lo iscrisse all’Istituto Tecnico
Gemmellaro di
95
Catania, con l’intento di farlo diplomare in
ragioneria e in
seguito frequentare l’Università nella facoltà di Economia
e Commercio.
Il giovane sembrava seguire i suggerimenti della madre
e ascoltarne
i consigli ma allo stesso tempo dimostrava di
avere una certa tendenza ad amare la vita. Frequentava,
contemporaneamente agli impegni di studio, una palestra
ma senza l’attaccamento maniacale della
sorella Titti.
Rispetto a Mafalda, aveva soltanto in comune una certa
predisposizione al
sentimentalismo amoroso.
In questo Berta rilevò un certo tratto comune tra
il suo
carattere e quella di questi due figli. Anche lei come loro
andava incontro alle attrazioni sentimentali alle quali dava
molta importanza.
In verità Mafalda, per quanto ne sapeva, era
rimasta al
palo con il suo Giovanni, senza altre avventure. Del resto
anche lei, Berta l'avrebbe fatto se
non ci fosse stata di
mezzo l’Etiopia...
Vittorio Emanuele, che per brevità chiamava solamente
Vittorio, sembrava più farfallino
in materia di donne.
Certamente l'unione di Berta con Paolo era stato un matrimonio d’amore, anche se dopo gli eventi della vita avevano
imposto altre scelte. Anche Mafalda aveva fatto una scelta d’amore, sposando quel ragazzo che a lei non era piaciuto, ma che la figlia aveva caparbiamente voluto.
Sì, era proprio il caso di pensare che i tre figli avessero in comune questa tendenza al sentimento, come scelta di vita.
Vittorio Emanuele, rispetto a Titti, aveva in comune
la
cura della
persona, l’amore per lo sport, ma senza lo stesso
96
calore della sorella. Non gli saltava in testa nemmeno il pensiero di fare il pilota di aerei. Pilota sì! Magari di una auto sportiva, con una bella ragazza accanto.
Certamente un poco esibizionista Vittorio lo era ma aveva motivo di esserlo, essendo proprio ben fatto, intelligente e prestante.
Ecco che Berta, pensando
all’avvenire del figlio, era
attenta a ogni suo desiderio, a ogni sua aspirazione a ogni
suo pensiero. Aveva financo pensato a un eventuale
matrimonio con una ragazza della Catania
bene. Per
esempio la figlia di quel professore che l’aveva favorita
per il diploma di Giovanni.
Un’ottima famiglia, di costumi
morigerati e benestante. La figliuola cresceva bene ed era
anche
carina. L’aveva conosciuta quella volta che era
venuta in Banca con il padre.
Berta si coglieva a volte a fantasticare sul futuro
di
Vittorio Emanuele. Non pensava che diventasse Re, ma
l’aspetto di principe lo aveva. Buon sangue non mente!
97
25
L’ETÀ SENILE DI BERTA
Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta, ormai si era fatta una vecchia signora dai capelli bianchi. In gran parte aveva dimenticato le vicissitudini di una vita alquanto burrascosa ma appagante.
In fin dei conti era riuscita ad
affermarsi nella vita,
nonostante una micidiale guerra che aveva condizionato la
sua esistenza.
Sorrideva tutte le volte che pensava al Duce e alle sue impennate politiche, e ancor di più a suo marito che rincorrendo gli ideali patriottici, era riuscito a complicarle la vita più di quanto lei stessa avesse immaginato. Però si congratulava con se stessa per essere riuscita a trarne anche piacere e soddisfazione.
Adesso viveva in un appartamentino vicino a
Mafalda
e godeva
pure dell’affetto dei suoi due nipotini.
Peccato che Titti avesse deciso di
star lontano da Catania e rincorrere a Pisa le sue stelle. “Di
quella lì qualche giorno sentirò dire che si è imbarcata per la luna” diceva scherzosamente quando parlava di lei e nel farlo non le mancava di pensare
a quel Tullio che era scomparso del tutto. Non aveva saputo più nulla. Non era stato certamente un uomo tranquillo, ma aveva saputo darle dei bei momenti che ricordava con
piacere.
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Paolo se ne era ormai andato all'altro mondo a tenere compagnia al suo amato Duce. Se solo avesse pensato di più a lei e meno al Duce, certo sarebbe andata meglio. Chissà! Magari non ci sarebbe stato Tullio.
Berta, pur crogiolandosi nei ricordi, sembrava aver raggiunto quella serenità che non aveva mai avuto durante la sua esistenza piuttosto burrascosa.
Fu durante una di quelle mattine uggiose, che ai
primi
albori dell’inverno riescono a incutere malinconia, che
venne a trovarla il figlio. Appena
lo vide le passò ogni
malinconia.
Vittorio era ormai un uomo affermato e funzionario dell’ENI di recente istituzione.
Aveva dovuto accompagnare il suo capo, l’ingegner Mattei, in visita a Gagliano Castelferrato, in occasione della sua venuta in Sicilia per una programmazione del suo progetto politico.
Per quanto venisse spesso a trovarla, Vittorio era
quasi
sempre fuori Catania a causa dei suoi molteplici impegni
lavorativi. Le sue mansioni lo costringevano a girovagare
per l’Italia
e anche per il Nord-Africa. Era interessato al
mercato del petrolio in ascesa per l’intensiva produzione
di
automobili con il motore a scoppio. La Libia, l’Egitto e
il Medio-Oriente erano le sedi che frequentava.
Anche questo impiego lo doveva alla madre, grazie ai rapporti che aveva allacciato in seno alla DC, di cui era diventata un'importante esponente.
L’ingegner Mattei era un
“pezzo grosso” del Partito.
Berta lo aveva conosciuto per questioni
bancarie dal
99
momento che aveva ricevuto l’incarico dal Governo di mettere in liquidazione la Società petrolifera AGIP perché non redditizia.
Invece, grazie al suo spiccato acume, la trasformò nell’Ente Nazionale Idrocarburi Italiano, riscuotendo un enorme successo politico.
A questo punto fu facile per Betta far assumere
nel
nuovo ente questo
suo figliolo, appena diplomato.
Adesso, tutto preso da questo lavoro, Vittorio Emanuele non pensava a sposarsi. La questione dispiaceva a Berta, come
del resto le dispiacevano le scelte fatte da Titti. Questi due figli erano diversi da Mafalda, tutta casa e famiglia.
100
26
IL PASSATO RIAFFIORA
Vittorio, con un largo sorriso, annunciò alla madre che si vedeva con una ragazza, descrivendola con un entusiasmo sorprendente. In confidenza le disse di trovarsi bene con lei. Si frequentavano da poco ma fin dal primo istante gli aveva ispirato tanta simpatia.
«Finalmente!» disse Berta. «Posso sapere di dov’è?»
«Ho capito. Hai paura che non sia un'italiana. Invece lo è» rispose Vittorio.
«Vedrai che piacerà pure a te. Ciò che mi ha sorpreso di lei è stata la sensazione di conoscerla da sempre. Ancora non le ho detto nulla e non so perché ancora sono titubante a dirle ciò che provo per lei».
«Mi piacerebbe conoscerla» rispose Berta. «Te la faccio vedere subito. Guarda».
Tirò fuori dal portafoglio una foto della ragazza e gliela
mostrò.
«Sembra pure a me un viso
conosciuto, di dov’è?» chiese Berta, dopo averla osservata attentamente.
«Milano» fu la risposta.
Continuarono a parlare del
più e del meno, del suo
lavoro, di quella ragazza, che tra l’altro sembrava di essere
di valido aiuto nel lavoro
del figlio. Era di cinque anni più
giovane di lui. Conosceva l’inglese e il francese, ma anche
l’arabo. Da quanto aveva capito, era
la sua segretaria
d’ufficio.
101
Qualunque discorso iniziasse, tra loro, si finiva sempre per evidenziare le doti di quella ragazza che per un verso o un altro sembrava essere diventata l’oggetto principale delle loro attenzioni.
«Come si chiama» chiese Berta, punta dalla curiosità. «Adele» rispose Vittorio.
«Certo che mi sarebbe piaciuto che si fosse chiamata Margherita, come la moglie di Umberto I, il Re buono» Berta sorrise e aggiunse: «Adele… Come?»
«Adele Petronelli» rispose Vittorio.
A quel cognome ebbe un sussulto che la scosse fino alla cima dei capelli.
«Hai conosciuto il padre?»
«No, è morto. Si chiamava Tullio Petronelli ed era un pilota dell’aviazione italiana».
Berta si era sbiancata in viso. Non era possibile!
No!
Che scherzo era questo? Le sembrava di sognare. Sperava
di sbagliarsi.
«Per caso era quel pilota che a Tobruck fu
mitragliato
dalla
contraerea italiana» domandò con un fil di voce.
«Sì mamma, Adele me ne ha parlato ma tu come fai a conoscerlo?»
«Ne parlò tuo padre, era fascista
anche lui» rispose
mentendo. Ovviamente quel “tuo padre” era riferito al
marito Paolo.
«Tu non puoi sposare Adele» disse Berta con le lacrime agli occhi.
Sorpreso Vittorio restò
senza parole e non si chiese
neppure il perché di quell’avversione improvvisa. Aveva
gradito la notizia ma che cosa le aveva fatto cambiare
102
idea? Era d’accordo con lei che il padre, fascista
convinto,
l’avesse fatta soffrire ma ormai era acqua passata. Così
com’era acqua passata la faccenda che il padre di Adele
fosse fascista.
«Ormai il tempo ha cancellato il passato...» riprese il figlio sconvolto.
«Non sempre» rispose Berta con le lacrime agli occhi. «Che cosa mi impedisce di sposare questa ragazza?» «Il fatto che tu, Titti e Adele siete fratelli».
Il ricordo di Tullio la catapultò nel mondo dei ricordi, e a questo punto fu costretta a rivelare al figlio chi fosse davvero suo padre, e a raccontargli la triste vicenda di Paolo, marito e fratello.
Vittorio osservò la madre ed ebbe pietà di lei, ma nello stesso tempo apprezzò la caparbia volontà e la forza d’animo che l’aveva spinta a superare quel tremendo dramma della sua vita.
La strinse teneramente al petto e cercò di consolarla mentre le lacrime le inondavano il viso. Le apparve infine per quello che era diventata: una fragile donna in balia a una tempesta che aveva sconvolto la sua vita, rendendo lei una vera eroina rispetto a quei due uomini, che giudicò due meschini egoisti che l’avevano usata.
Vittorio, sbalordito e sconvolto, non si raccapezzava più della sua effettiva identità. Aveva subito un profondo trauma per le rivelazioni fatte da sua madre.
Quel Paolo, che fino ad allora aveva ritenuto suo
padre
e un eroe del passato regime, gli apparve nella sua giusta
luce di stupido assertore di una filosofia di vita errata, che
gli era costata la sua menomazione di uomo e che aveva
103
avvelenato la vita di sua madre.
Gli sembrò di capire e giustificare quell’inconsueta avversione che aveva provato per lui fin da bambino e il poco dispiacere provato in occasione della sua morte. Ne ebbe pure pietà per il suo insulso fanatismo.
Quell’altro, il vero padre,
che gli aveva dato la vita,
così... quasi per gioco, senza curarsene, pur essendo stato
un
uomo coinvolto da ideali più grandi di lui, lo giudicò
molto leggero e privo di sentimenti veri. Lui nulla doveva
a
quei due uomini e doveva ringraziare solamente sua
madre per averlo cresciuto, educato e amato.
Berta adesso che si era liberata di quel segreto che
le
opprimeva l’anima, si sentì più serena, ma ne ricavò un
senso di disagio vedendo il turbamento del figlio. Tuttavia
non poteva fare altrimenti, dopo la notizia del suo
innamo-
ramento e fargli rendere conto della sua vera identità. Lo
pregò solo di non rivelare la storia alle sorelle, forse non
l’avrebbero capita e ne sarebbero rimaste traumatizzate,
specialmente la Titti, che era così strana e
per questo
bisognosa di attenzioni.
Vittorio rassicurò la madre e continuò ad asciugare le sue lacrime.
Berta lo abbracciò
chiedendogli perdono per non
averglielo mai detto prima. Riteneva la
questione ormai
chiusa ma non pensava mai che Vittorio, per ironia della
sorte,
avrebbe mai incontrato questa sua sorella e che se
ne fosse innamorato né che egli avesse mai sentito parlare
di Tullio Petronelli.
104
27
LE TURBE DI BERTA
Vittorio era rimasto di stucco alle rivelazioni della madre ma non fece trapelare nulla di ciò che era accaduto dentro di sé. Non disse nulla. Gli era sembrato di vivere in un incubo, dove l’assurdo si mischiava al reale.
Forse aveva capito male? No! La madre gli aveva confermato ogni cosa. Era tutto vero!
Soverchiato ancora dall’emozione, aveva avuto pure
la
forza di asciugare le lacrime della madre ma dentro di sé
qualcosa gli si era spezzata facendolo sprofondare in un
lungo precipizio.
Si sentì improvvisamente una nullità, un oggetto in preda alla furia degli eventi. Si chiese ancora chi fosse, se aveva capito bene.
Lui non era lui, cioè suo padre non era colui che aveva sempre pensato che fosse in realtà.
Ricapitolò nel suo intimo il racconto della madre e pure
nell’angoscia della
notizia così dissacrante, capì il dramma
di chi lo aveva allevato come un figlio, pur sapendo di non
esserlo. Ebbe pietà di lui e
del suo stato per aver accettato
quel ruolo amaro e degradante e per la forza che aveva
imposto
a se stesso accettandolo come figlio. Senza
dubbio quell’uomo amava non solo lui
ma anche sua
madre, restandole accanto e certamente
soffrendo. Gli
apparse come un gigante e si
rimproverò di non averlo
quasi mai apprezzato nella vita, come avrebbe meritato.
105
Il rimorso gli fece venire alla gola un nodo e
pianse di
dolore. Pensò pure alla sorella Titt che nulla sapeva di
quel dramma. Pensò ad Adele. Che cosa le avrebbe
detto?
Nulla! Forse era meglio non parlargliene per non farle
provare lo stesso disgusto che
lui provava per quel suo
padre naturale, che lo aveva messo al mondo senza curarsi
del suo
avvenire e nemmeno di quello della comune
sorella Titti, esattamente come fa in
natura il cuculo,
l’immondo ed egoista uccello che non si piglia la briga
nemmeno di covare le uova da lui deposte nei nidi degli
altri ignari uccelli.
Una decisione doveva pur prenderla.
Ora più che mai non poteva abbandonare Adele al
suo
destino. Non poteva. Le aveva voluto bene istintivamente.
Adesso aveva un motivo in più per non starle lontano.
Avrebbe corretto il suo comportamento con Adele,
cui
fortunatamente non aveva ancora dato il suo naturale
sfogo amoroso. Solo pensava che sarebbe stato facile farle
capire che le voleva
bene, come se fosse sua sorella. Già!
In effetti lo era, ma non glielo avrebbe mai rivelato. Le
avrebbe
detto che poteva contare sul suo affetto fraterno e
anche quello delle sue sorelle Mafalda e Titti. Le avrebbe
detto che in
lui e nelle sue sorelle, avrebbe trovato il
conforto della famiglia che non aveva più. Le
avrebbe
anche detto di essersi innamorato di un’altra donna.
Insomma, le avrebbe mentito ma non poteva fare in altro
modo. Non poteva suscitare anche in lei la tempesta di
sentimenti contrastanti che era scoppiata dentro la sua
anima. Intanto bisognava che stesse ancora più vicino alla
madre, vittima di una vicenda molto più grande di lei, che
106
aveva saputo reagire e soffrire in silenzio contro una situazione assurda.
Ebbe per lei ammirazione e stima più di quanto ne avesse avuto prima. Aveva saputo combattere e accettare con rassegnazione quel ruolo che la natura non le aveva assegnato, ma la sorte sì.
Anche con lei la vita era stata ingiusta, facendo rivelare
al
figlio quel suo segreto, che credeva ormai sepolto e
lontano. Al dolore subito, si aggiungeva la beffa
della
cattiva sorte e l’ignominia della vergogna per non essere
stata fedele al marito. Tutto questo sarebbe stato doloroso
per lei, donna altera e superba, per l’immagine che
avrebbe mostrato al mondo.
107
28
LA TRAGEDIA DI TITTI
Dal giorno della rivelazione al figlio, Berta non fu più la donna di prima, sicura di sé, capace di affrontare il mondo. Anche lei si sentì come una canna in balia del vento, fragile, infelice, basita e inutile.
Come madre aveva fallito la sua missione nel
mondo,
nascondendo la vera origine dei suoi due ultimi figli. Si
sentì meschina per aver ceduto al richiamo della passione
amorosa al di
fuori del matrimonio. Non aveva tradito
soltanto il marito, ma tutti i suoi ideali di donna.
Tutto l’orgoglio che fino ad allora l’aveva sostentata, crollò d’improvviso. Era una donnetta di poco conto, per di più vecchia e malata.
Si ritrovava nelle ore
di solitudine, muta, con lo
sguardo fisso nel vuoto, come se rincorresse le nuvole che
immaginariamente vedeva scorrere sotto il suo sguardo.
Farneticava tra sé e sé, della sorte delle stelle. Le guardava
fisse in cielo, ma temeva che
un bel giorno si muovessero
e andassero a cozzare l’una contro l’altra. Lei non poteva
saperlo ma sua figlia Titti sì. Lei le studiava le stelle. Era
astronoma. Le aveva detto che aveva accettato l’incarico
di ricercatrice presso la Scuola
Normale di Pisa, che aveva
scelto come sua residenza.
Il passato era emerso mostruosamente facendo
nascere
in Berta il desiderio di espiare la sua colpa e di vendicarsi
per il torto subito. Ma vendicarsi contro chi? Non certo
108
contro quel poveraccio di Paolo che aveva accettato la sua cattiva sorte e neppure contro lo stesso Tullio che non aveva fatto altro che soddisfare le sue esigenze, senza chiederle nulla in cambio.
Sì! Avrebbe dovuto vendicarsi di se stessa per
quanto
freddamente aveva fatto, causando un dolore immenso ai
suoi figli.
Provò vergogna di sé per aver pensato soltanto a godere
i piaceri
della vita. Pensò al suicidio ma non poteva,
avrebbe dato un dispiacere a Mafalda,
povera figlia
innocente e ai suoi nipotini, e poi Vittorio poteva avere
ancora bisogno di lei e Titti, anche lei coinvolta in quel
dramma, cosa avrebbe fatto?
Questa sua seconda figlia le dava tante preoccupazioni.
Sola, lì a Pisa, a rincorrere stelle e astri lontani, alla ricerca di chissà quali sogni.
Come avrebbe reagito a quella notizia?
Pensò di raggiungerla, di starle vicino. Decise di parlarne con Vittorio. Lui avrebbe capito. Sarebbe venuto in suo aiuto. Era ormai un uomo equilibrato e sapeva fare le sue scelte. Non per niente era diventato l’uomo di fiducia dell’ingegner Mattei.
Era passato quasi un anno dal giorno in cui Berta aveva
rivelato al
figlio il suo terribile segreto. Vittorio aveva
risolto per il meglio la sua
relazione con Adele, che
trattava ormai da sorella, rivelandole,
non ultime, le
preoccupazioni per sua madre che da qualche tempo non
stava tanto bene. Le telefonava
spesso e faceva di tutto per
non farla sentire sola.
109
Quella mattina, infagottata
nella sua vestaglia da
camera, Berta, dopo aver chiuso la telefonata con Vittorio,
accese la TV, era l'ora del
telegiornale. Mentre si alterna
vano li sport pubblicitari sentì suonare
il campanello di
casa.
Dallo spioncino del vide che si trattava di due carabinieri. Sobbalzò all'istante e il pensiero corse subito a Vittorio, sempre in viaggio con gli aerei.
«È lei la signora Manuela Filiberta di Savoiano» le chiese il maresciallo, salutando.
Berta annuì con la testa senza parlare.
Il graduato con tatto e usando dei termini di circostanza le comunicò che sua figlia Caterina Nascara, detta Titti, ricercatrice astronoma della Scuola Normale di Pisa, aveva avuto un incidente. Nulla di grave. Però era necessario che lei andasse a trovarla. Avrebbe provveduto lui stesso per accompagnarla.
A quella notizia Betta le sue gambe cedettero e si accasciò per terra. I due militi la soccorsero e subito le chiesero se vivesse da sola.
La donna rispose di
sì, ma l'altra sua figlia Mafalda
viveva a qualche isolato più in là. Parlò anche di Vittorio,
che era lontano, forse
in Libia o a Milano. Non sapeva.
Uno dei due militi provvide a
rintracciare Mafalda,
mentre al telegiornale veniva data la notizia che a Pisa era
avvenuto l’omicidio di una giovane donna ricercatrice che
frequentava la Scuola Normale di Pisa e che
erano in
corso delle indagini.
Era la conferma di quanto erano venuti a comunicare
i
due
carabinieri. Titti era stata trovata cadavere a casa sua e
110
ancora non si conosceva l'assassino, erano in corso le indagini di rito. Si riteneva che con molta probabilità la causa del delitto fosse una rapina, essendo stati trovati dei cassetti manomessi.
Berta non resse alla notizia. Tuttavia, si dovette recare a Pisa per il riconoscimento della figlia, il cui corpo fu sottoposto ad autopsia.
All’amarezza della morte di Titti si aggiunse la notizia che dopo i primi accertamenti la rapina era stata una semplice messa in scena.
Tra il personale
dell’Università, l'interrogatorio fu
esteso anche a Berta, Mafalda e Vittorio. Le indagini erano
indirizzate a conoscere le persone che Titti
frequentava.
La ragazza, con addosso una camicia da notte, era stata trovata sanguinante a terra lungo il corridoio della sua abitazione. A prima vista mostrava un grosso coltello conficcato alla schiena.
In casa tutti i cassetti e gli sportelli dell’armadio erano aperti e il contenuto sparso per terra.
A destare i sospetti della finta rapina era stata
la
mancata effrazione alla porta dell’appartamento. Gli
inquirenti sospettarono che la vittima
conoscesse il suo
aggressore.
Era ormai fuor di
dubbio che vittima e assassino si
conoscessero. Bisognava adesso attendere i risultati degli
accertamenti.
L’esame del DNA sul sangue rinvenuto sul manico del coltello doveva appartenere all’assassino, che magari nell’infiggerlo si era ferito alle mani.
111
Fu anche rilevato che nell’appartamento erano entrate persone diverse dalla vittima e dall’assassino. Bisognava però stabilire se vi fossero entrate prima o durante il delitto, ma ciò che aveva soprattutto attirato l’attenzione degli inquirenti furono i lividi ai polsi della vittima, come se fossero state strette da legacci o nastri.
Dalla lunga e complessa inchiesta emerse che la
Titti
era solita ricevere nel suo appartamento degli “amici” coi
quali era solita intrattenersi in rapporti sessuali sado-maso,
tutti estranei al delitto
tranne uno, che ne fu in verità solo
la causa.
A uccidere Titti era stata la moglie di uno dei tanti amici che la frequentavano. Quest'ultima, una volta scoperta la tresca, spinta dalla gelosia, andò a trovarla a casa sua per darle una lezione.
Titti doveva avere con la sua assassina un rapporto confidenziale, tant'è che era stata ricevuta in camicia da notte, poiché stava per andare a letto, e perdippiù in cucina, dove ebbe luogo la loro violenta discussione, e ben presto la donna alzò le mani.
Nella foga della rissa, Titti alzò i
tacchi e fece per
andarsene. Ancora più irretita la moglie tradita afferrò un
grosso coltello e glielo piantò alle spalle mentre stava per
uscire dalla stanza. Resasi conto di averla uccisa, mise in
scena un tentativo di rapina. Aprì i cassetti del comò e
dell’armadio della stanza
da letto e buttando all’aria i
vestiti. Dopo, tirandosi dietro la porta, silenziosamente se
ne andò.
A lei gli inquirenti giunsero non appena fu stabilita
112
l’ora del delitto. Tramite una videocamera accertarono che
in quel lasso di tempo a
sostare nella strada c'era stata solo
la sua auto. L’assassina ammise il
delitto e ne chiarì la
causa.
Da tutta la questione emerse che a Pisa, oltreché a dedicarsi alle stelle, agli studi e alla ricerca, Titti non disdegnava di condurre una vita libertina.
Certamente non amava il
matrimonio, che avrebbe
condizionato la sua libertà, ma non evitava di rinunciare a
quanto il matrimonio
poteva offrire in materia sessuale.
Per quei tempi un simile comportamento non era moralmente accettabile, specie se a esserne oggetto fosse una Dottoressa ricercatrice universitaria.
113
28
TEMPO DI BILANCI
Berta, Mafalda e Vittorio, oltre al dispiacere della perdita, dovettero subire anche il senso della vergogna che sentivano a fior di pelle per l'immorale comportamento della loro congiunta.
Mafalda finì per non uscire più di casa per non sentirsi additare come la sorella della buttana di Pis”, che si faceva magari legare a letto per fare le zozzerie.
Lo stesso Giovanni, il marito, che non era proprio uno stinco di santo, anche lui era rimasto turbato dalla storia che interessava la cognata.
Vittorio fu pervaso da una crisi morale. Si rimproverò di non essere intervenuto in maniera opportuna nei confronti dei suoi cari, dopo aver conosciuto il dramma della sua famiglia e di essere stato poco vicino alla sorella, che più di tutti aveva bisogno di sostegno per quel suo carattere intraprendente e libertino.
Dopo la disgrazia si chiuse in se stesso,
riconoscendo
che anche lui era stato egoista come il padre naturale,
avendo pensato solo a se
stesso e alla sua amarezza,
dimenticando la madre e le due sorelle. Non aveva capito
l’ansia della
madre per la figlia lontana, il cui solo torto
era stato quello di averle nascosta la verità per amore di
tutti
e per il buon nome della famiglia. Adesso si
rimproverava di non essere corso in tempo a
Pisa per
occuparsi della sorella e guidarla a vivere serenamente.
114
Berta era distrutta. Amava questa sua figlia che
le
ricordava l’estrosità di Tullio, ma non pensava mai che lei
avrebbe seguito le orme del padre anche nelle faccende di
letto.
Nel suo immaginario era convinta che
le donne, in
questioni di sesso, erano diverse dagli uomini. Certo lei, la
Berta, era stata un poco libertina, ma fu costretta dagli
eventi e poi
era molto prudente. Mica andava con tutti gli
uomini che aveva conosciuto. Quella sua figliola era stata
troppo
imprudente. Da quando aveva appreso che a Pisa
era andata a letto con i professori di mezza Università. Se
si fosse fidata di lei
non avrebbe fatto quella brutta fine.
Dopo la morte di Titti, rinunciò a vivere. Usciva
solo
per andare al cimitero a portare i fiori a Paolo e a lei nella
tomba di famiglia. Aveva provveduto a
far traslare la
salma della figlia da Pisa a Catania, per darle una degna
sepoltura
nella tomba di famiglia, dove anche lei sarebbe
andata a dormire insieme agli altri
membri della sua
famiglia.
Ironia della sorte Paolo, da morto, ebbe il
privilegio di
ricevere finalmente dei fiori a seguito della morte di quella
sua figlia spuria. Da quand'era stato
sepolto era stato
dimenticato da Berta e anche da Mafalda, presa com'era
dagli impegni familiari.
Nella vita di Berta questo fu certo il periodo più
nero.
Erano lontani i tempi quando da giovanissima inneggiava
all’Italia Fascista. Le mancavano le comodità che
allora
aveva e anche la libertà di fare cò che voleva. E poi fu
quello il periodo in cui conobbe Paolo, le pazzie fatte con
115
lui e per lui. Appena un anno ma intenso, pieno di sorprese
amorose di speranze di gloria e della gioia di una figlia
come Mafalda. Era riuscita a toccare il cielo con un dito.
Fu veramente
felice e lo sarebbe stata ancor di più se non
ci fosse stata la vicenda dell’Etiopia… Poi venne la guerra
con quel discorso roboante di
Mussolini, che l’annunciò
da Piazza Venezia e tutti a
battere le mani, come se si
andasse in gita. Arrivarono le bombe, insieme alle leggi
autarchiche e alle sanzioni. Anni duri ma intensamente
vissuti. Con il ritorno di Paolo, purtroppo evirato, non fu
più tanto felice. Le cose non andarono per niente bene.
L’unica novità apprezzabile era stata
la conoscenza di
Tullio che gli regalò Titti e Vittorio.
Non era il grande amore provato la prima volta per Paolo, ma quel Tulliaccio riusciva a elettrizzarla e a regalarle delle ore di abbandono. Non era pienamente felice, ma riusciva a vivere bene.
Seguì la scomparsa di
Tullio in modo definitivo e il
ritorno del profugo Paolo dalla prigionia dell’America.
Non la gradì tanto, ma
lei era ormai cresciuta aveva saputo
imporsi in quel maledetto crogiuolo del dopoguerra.
Si era presa qualche piccola rivincita nei confronti degli uomini.
Paolo aveva tolto l’incomodo, Mafalda si era accasata con quel suo squinternato Giovanni che però aveva messo la testa a posto.
Lei gongolava e se proprio felice non era, si
barcame-
nava nella serenità. Ma adesso il tempo verteva verso il
brutto. La vicenda di Titti, l’aveva distrutta e le aveva tolto
la velleità di vivere. Per sua fortuna Mafalda le
aveva fatto
116
il dono dei nipotini Giulio ed Enrico e suo figlio
Vittorio
era sulla buona strada per raggiungere l’apice della
carriera con l’incontro fortunato con l’ingegner Mattei.
Era riapparso il fantasma
di Tullio, ma per fortuna
Vittorio aveva capito e superato l’ambascia.
Non le restava
che attendere la fine e nell’attesa cercare, con le sue opere di bene, di rendere felice quanti non lo erano, nella speranza di guadagnarsi il paradiso, che il parroco diceva che esistesse dopo questa
vita.
Certo qualcosa già in passato lei aveva fatto cercando di aiutare dei bambini ebrei, nel periodo del razzismo
rabbioso anche in Italia. Le veniva solo il dubbio se l’aiuto profuso a ebrei sarebbe stato tenuto in conto da Dio!
Ma i guai per la povera Berta non erano finiti. Il ciclo delle sue
peripezie non si era chiuso.
Giorni più neri apparivano all’orizzonte.
117
29
LA SCOMPARSA DI MATTEI
Vittorio, dopo la triste vicenda della sorella
Titti, restò
vicino alla madre assistendola con affetto però, ritenendo
di
essere psicologicamente vittima di eventi più grande di
lui, piombò in una specie di pessimismo che lo spinse a
non aver
fiducia nel prossimo. Tuttavia, rifugiandosi nel
suo lavoro di collaboratore dell'ingegner Mattei, seguendo
passo passo
i progressi dell’ENI, entrò in quel giro di
affari contrastanti e internazionali che l’ente
petrolifero
nuovo aveva creato.
Evidentemente la soppressione
dell’AGIP era stata
ideata semplicemente perché qualcuno aveva intuito il suo
futuro
sviluppo nel campo della ricerca petrolifera.
L’ingegner Mattei aveva capito cosa bollisse in pentola e,
pur avendo l’incarico ufficiale di
liquidarla, tergiversò e la
trasformò in quell’ente che apportò
vantaggi allo Stato,
ma contemporaneamente creò intorno a sé un numero di
nemici che cercarono in ogni modo
di ostacolarne l’opera.
Dopo la scomparsa di Mattei, vittima di un
incidente
aereo avvenuto nel 1962 a Bescapé, Vittorio, pur non
restando a capo dell’ENI, vi continuò
a lavorare,
apportando un alto contributo di competenza e perizia.
Ovviamente era il tenutario di notizie, fatti e circostanze
che interessavano la vita di Mattei, e quando qualcuno
avanzò l’ipotesi che l’incidente di Bescapé altro non era
stato che un attentato per togliere di mezzo l'ideatore
118
scomodo dell’ENI, la magistratura venne a conoscenza
di
determinate
circostanze, la cui fonte fu individuata proprio
tra i suoi collaboratori, tra i
quali spiccava la figura di
Vittorio.
Probabilmente per questo cumulo di circostanze e illazioni, la morte di Vittorio avvenuta in strane circostanze, sollevò molte perplessità, che tali restarono, ma che dettero il colpo finale alla fibra di Berta.
Lei apprese della morte del figlio mentre era
ricoverata
presso un pensionato di persone anziane. Quando ascoltò
la figlia Mafalda, costretta a
rivelargli che Vittorio non
c’era più per le mancate visite del
figlio, Berta non
resistette al dolore e si lasciò morire senza più assumere le
medicine che era costretta a prendere giornalmente.
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30
IL VIALE DEL TRAMONTO
«Come ti chiami?» Berta
chiedeva alla figlia. I suoi
momenti di confusione mentale diventavano
sempre più
frequenti. Gli ultimi drammi avevano messo in croce la
donna.
La povera Mafalda, si preoccupò
moltissimo per lo
stato di salute mentale della madre il giorno in cui le
chiese che cosa stesse aspettando per mettere al mondo dei
figli.
«Mamma» le rispose turbata «che stai dicendo? Proprio una settimana fa a cena hai dato la paghetta a Giulia ed Enrico, i tuoi nipoti. Come fai a non ricordarlo?»
Berta era solita dare ai suoi nipotini la paghetta
ed era
felice di
dargliela personalmente. Si sedeva e apriva la sua
borsa. Tirava il portafoglio con molta lentezza e prendeva
prima due banconote da cinquanta lire chiamando per
nome Giulia, la più maggiore dei
due nipotini e poi
un'altra di pari taglio che consegnava a Enrico di due anni
più piccolo. Dopo offriva la guancia per il bacio di
ringraziamento.
Ormai era un rito
settimanale! Come faceva a non
ricordarsi sua madre che non aveva figli? E dire che erano
stati entrambi tenuti a battesimo da lei. Qualcosa non
andava. Ne parlò con il marito,
ma Giovanni la
tranquillizzò. Le parlò di un vezzo frequente della terza
120
età di confondere vecchi ricordi o
di non ricordarsi le
cose. Era normale. Non aveva nulla da temere.
Mafalda si abituò ai vuoti di memoria della madre, che per il resto continuava ad avere un aspetto normale, e a occuparsi delle sue opere di beneficenza. Aveva
soltanto un’avversione verso tutto ciò che riguardava la sua vita passata. Era
come se avesse voluto dare un colpo di spugna alla sua precedente vita.
Diceva di non ricordare più il nome del marito e a volte
diceva allusivamente di non ricordare nemmeno di essersi
mai sposata.
Mafalda ne parlò con uno neurologo. La risposta che fu
data
alle sue domande era che la madre aveva rimosso
dalla sua memoria i ricordi spiacevoli che riguardavano il
marito, la cui
unione non era stata felice. Per il resto
ragionava perfettamente e non c’era da preoccuparsi.
121
122
EPILOGO
Io non ho mai conosciuto la signora Berta di cui ho raccontato la sua triste vicenda e quella della sua famiglia e i fatti legati alla guerra e al dopoguerra che in qualche modo ho vissuto anche io, ma ho avuto modo di parlarne con la signora Mafalda, mia coetanea.
Il giorno che la incontrai mi parlò di sua madre.
«Lei non sa la pena che mi ha fatto povera
donna» mi
disse con le lacrime agli occhi, il giorno in cui ci
trovammo nel pensionato per anziani Maria Ausiliatrice di
Cibali.
Mafalda era andata a trovare la madre per dirle della morte del fratello Vittorio.
Avrebbe dovuto non
dirglielo, ma lei insisteva per
sapere il perché Vittorio non venisse più a cercarla né a
telefonarle.
Berta la guardò negli occhi come a dirle che non poteva
essere
vero. Mafalda la consolò, la strinse al petto e le
confermò che purtroppo quella era la verità. Vittorio non
c’era più.
La povera Berta piangendo le disse che la
maledizione
aleggiava su di lei perché era stata una cattiva donna e il
Signore l'aveva punirla per non essere
stata fedele al
marito.
In quest’occasione le rivelò che Titti
e Vittorio non
erano figli del marito, che lei aveva tradito per soddisfare i
123
suoi capricci e il
suo egoismo. Fu così che Mafalda
conobbe pure la disavventura del padre
e le chiese
perdono.
Ma di cosa doveva perdonarla, se non di nulla, essendo stata sempre per lei una madre perfetta?
Mafalda l’abbracciò consolandola e invitandola a dimenticare il suo passato e di avere fiducia nel Signore e di pregare la Madonna per le anime dei loro cari.
Anche lei le disse che quanto era avvenuto non era stato per sua causa, ma della maledetta guerra e della cattiveria degli uomini e che il Signore non era un Dio di vendetta ma un Dio misericordioso.
Quando Mafalda ritornò a trovarla, il suo stato era peggiorato. Le chiese ancora perché Vittorio non le telefonasse ancora…
La figlia si rese conto che aveva dimenticato la visita precedente. «Tranquilla mamma, Vittorio sta bene. Per adesso non può venire perché si trova in Egitto».
Forse era meglio che lei non ricordasse più. Il Signore ha avuto pietà di lei facendole dimenticare ogni cosa.
Quando per puro caso mi presentarono
Mafalda, mi
colpì quel suo cognome, quasi simile al mio. Via via che
entrammo in
confidenza, lei mi raccontò la storia dei suoi
genitori. Fu in questa circostanza che
una vicenda in
particolare mi richiamò alla memoria un
episodio della
vita di mio padre, da lui
raccontatomi durante uno dei
ricordi della sua gioventù e riguardanti, quasi sempre le
peripezie
affrontate durante la guerra da lui combattuta e
124
da me pure vissuta.
L’episodio in questione riguardava la sua mancata partenza per l’Etiopia nel 1935 nonostante ne avesse fatto richiesta di volontariato.
Le rimanenti cose che mi raccontò di sua madre e
della
sua famiglia, miste alle mie conoscenze storiche del
periodo da me in parte vissuto,
hanno stimolato la mia
fantasia, al punto tale di mettere in moto la mia mente e
riportare sulla carta un racconto tinteggiato da
ricostruzioni fantasiose ed in parte anche vere. E’
cosi che
è nato questo mio libro, dallo sfondo storico e infarcito da
personaggi un po’ inventati, un po’ veri, ma adeguati ad
un’epoca dalle molteplici
sfaccettature.
125
Ormai molti anni sono passati anche dalla morte
della
povera signora Mafalda. Il vento del tempo ha forse
cancellato la storia di una famiglia che ha attraversato
le
peripezie della seconda guerra mondiale e il resto, ma lì,
nel vecchio cimitero, una tomba, ormai poco curata, quasi
dimenticata, con le foto e i nomi delle persone da me
descritte, resta a ricordarle tutte.
Sulla lastra di marmo,
dove sono riportate le foto di
tutti i personaggi della famiglia, spicca quella maestosa di
Manuela Filiberta di Savoiano con la scritta, voluta dalla
figlia Mafalda:
MADRE E NOBILDONNA IRRIPETIBILE.
126
Nota dell’Autore
Tutte le volte che mi accingo a scrivere dei
racconti,
istintivamente li ambiento nel periodo che ho vissuto, e
che ancora adesso vivo. Magari potrò
essere tacciato di
poca fantasia o di poco talento creativo, in realtà è la vita
vissuta che mi offre tutto un panorama di eventi e
personaggi adatti a stimolare la
mia sensibilità. È come
avere davanti agli occhi un modello inesauribile dal quale
attingere
dati da riportare sopra una tela dipingendoli con
il colore dei miei pensieri.
Penso che non sia un caso del tutto isolato quello di esternare il proprio pensiero, attingendone la materia dal mondo che sta intorno, pronto per essere colto.
Da questo punto di vista, quindi, penso di essere
nella
norma. Tuttavia ritengo che le vicende da me vissute,
giustifichino questa mia tendenza,
essendo partecipe e
testimone di eventi avvenuti recentemente
e nel breve
passato del tutto eccezionali. Ho vissuto una delle guerre
più intensamente coinvolgente e sconvolgente: la seconda
guerra mondiale e il susseguente periodo
di ritorno alla
normalità. Da questi fatti emergono aspetti tremendi e
personaggi del tutto fuori dal comune, che caratterizzano
l’epoca e, pertanto, stimolanti e degni di essere
evidenziati. Come si fa a non restare impressionati
da
figure come Hitler, Mussolini, Italo Balbo e delle
innumerevoli persone che intorno a essi hanno intessuto la
loro vita costruendo una
realtà complessa e ricca di
127
sentimenti e vicende che non possono passare inosservati da parte di chi li ha conosciuti o anche sfiorati inconsapevolmente.
Come si fa a non ricordare le bombe cadere dal
cielo
come la grandine, le macerie e le morti cui hai dovuto
assistere tuo malgrado o
tutti i personaggi, che dopo la
sopraggiunta pace, sono apparsi in una continua agitazione
tendente
alla ricostruzione con una caparbietà
ammirevole, magari sconfessando
le aspirazioni
precedenti o anche nostalgicamente ricordandole.
A solleticare il mio interesse, è il fatto storico
in se
stesso, iniziato con una banalità spaventosa e succeduto a
un precedente sanguinoso evento, che mai avrebbe dovuto
avere un
seguito così repentino e micidiale. Infatti appena
una ventina di anni separano le due
grandi guerre
mondiali.
Da questa realtà testé
descritta, vengono fuori dei
personaggi emblematici e rappresentativi, degni di essere
evidenziati. Uno dei tanti che mi sono inventato è
Manuela Filiberta di Savoiano, una
figura, in cui
convergono molti aspetti che riguardano in generale le
donne di quel periodo, come per esempio il voler essere il
prodotto finale di discendenze regali, la volontà velata di
voler gareggiare con gli uomini in dignità e libertà, pur
subendone il
fascino e la dipendenza, il desiderio mai
sopito di una famiglia unita, anche
se complicata e
l’apparire all’orizzonte di problematiche fino
ad allora
ignorate o sottaciute.
La mia intenzione, nel
parlare di questa fantomatica
donna, è stata quella di voler individuare tutti gli spunti di
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quelle spinte emotive che solamente dopo il 1968
hanno
consentito l’emancipazione delle donne. Diciamo una
figura di mezzo tra l’antico e il
moderno, con tutti i
risvolti e le caratteristiche che vengono evidenziate, una
precorritrice dell’odierna figura
femminile proiettata verso
cime un tempo mai sperate.
Chiaramente, attorno a essa circolano altri
personaggi
caratteristici dell’epoca, pieni di contraddizioni, di eroiche
prese di posizione, di disagio morale
e di eccessivo
protagonismo.
In sostanza, ho voluto semplicemente rappresentare lo scenario di tutto un periodo, il mio, in cui l’umanità è incorsa in errori, profonde contraddizioni, disagi, esaltazioni, fallimenti e miseri esiti di vita.
Intendo precisare che ogni personaggio assomma le caratteristiche di più persone da me conosciute, o di cui ho avuto sentore. A eccezione delle figure storiche, citate per inquadrare nel tempo i personaggi fantasiosi da me creati. Non è possibile fare alcun riferimento a singole e ben individuate persone realmente esistite.
Voglio semplicemente dire
che la signora Berta altro
non è che la sommatoria di altre figure di donne vissute in
quel
periodo; parimenti per le altre figure descritte nel
racconto.
La signora Berta, e anche i suoi figli e le altre
persone, sono personaggi di comodo che mi hanno permesso di
rac-
contare la mia epoca, anche se mi sforzo di
farli apparire veri con addentellati e
riferimenti reali, attribuendo loro vicende da altre persone realmente vissute.
Quello che maggiormente ho voluto evidenziare è il
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personaggio abbastanza complesso di questa donna, che costituisce una figura simbolo.
La signora Manuela Filiberta di Savoiano è una
vera
eroina di un periodo oscuro per l’Italia che, vittima della
guerra e delle sue tristi conseguenze, ha saputo sollevarsi
dallo stato di miseria morale in cui era precipitata,
seguendo il suo istinto, per ergersi al ruolo di protagonista
di
una nuova vita, che è stata anche di guida per tutta la
famiglia. Ha superato le
difficoltà incontrate, ha
commesso forse anche degli errori, ma alla fine è riuscita
a dare un senso alla sua
famiglia e a se stessa.
Pur condizionata dalla grave
menomazione di un
marito, dedito a fantasiosi ideali di
eroismi che ha
anteposto alla famiglia, non lo abbandona
e pur
sopportandone l’ingombrante presenza, non lo trascura del
tutto restando fedele all’impegno di
mutua assistenza
assunto con il matrimonio.
Da questo punto di vista costituisce il prototipo
della
donna moderna, libera dei vecchi tabù, proiettata verso la
conquista dei suoi ideali di libertà e parità con gli uomini.
Riesce infine a raggiungere il successo da lei agognato,
anche se, come sempre accade anche
agli uomini, deve
arrendersi al dolore e alle tristi
evenienze della vita,
calpestando dei principi morali fondamentali.
È da questo punto di vista che la sua figura appare profondamente umana, sia nel bene che nel male, e riesce a dimostrare che anche in questo la donna è pari all’uomo in ogni sua manifestazione di vita.
Spero, comunque, che la
lettura del racconto in ogni
caso sia utile per apprendere delle
notizie e qualche
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particolare episodio del nostro ultimo periodo storico
ed
emerga, infine, la volontà di condannare quella maledetta
mania che noi uomini abbiamo di fare le guerre e mettere
in
atto tutte quelle cattiverie che affliggono l’umanità
spacciandole per eroiche imprese e cose buone.
Pippo Nasca
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