PIPPO NASCA
UNA POESIA PER TUTTE
(Raccolte di Poesie in Italiano)
Peut-être un Soir mm’attend
Où je boirai tranquille
En quelque vieille ville,
et mourrai plus content:
Puisque je suis patient!
(Rimbaud)
Nota introduttiva dell’Autore
Avendo un bel numero di poesie inedite ho pensato di pubblicarle e nel compilare l’Indice mi sono accorto che esso costituiva in vero una nuova poesia formata mettendo insieme i titoli in un certo ordine ed aggiungendo quelli di alcune già pubblicate .
Alla fine del lavoro è venuta fuori la poesia-indice , che metto in testa a tutta la nuova raccolta.
Ad ogni verso corrisponde un titolo delle varie poesie inserite nel libro e che, ovviamente, hanno temi e contenuti diversi ...
Come dire: UNA POESIA PER TUTTE e pertanto, il titolo di tutto il libro non può essere che il titolo di questa prima poesia che lega tutte le altre
Pippo Nasca
E’ questa una raccolta di poesie
L’INDICE E' LA SEGUENTE POESIA:
Una poesia per tutte
Parlando di poesia
Se la tua vita mi regali
Io vagabondo
Cavalcando Pegaso verrò
Dimmi chi
Sono per te.
Anche la vecchia quercia sogna
Un sogno ch’era bello
Rinserra il tempo
La cronaca d’un sogno
Nella notte d’incanto che di vino brilla
A lei che dorme
Sotto il Gelso nero.
Sopra le nubi
Le foglie dei vestiti
La dorata spiga
L’oro dei capelli
Il verde dell’ulivo.
Alla fine delle contese
Non sempre la vittoria arrise
Alla città di Roma.
Come guerriero
Nuova sirena
Amor per Roma non cancella il tempo
L’omaggio alla Calabria
A Maratea
All’isola che c’è.
Son qui le barche stelle
Ma dall’orrore obeso
Tombe di mare
Il nuovo giorno mostra.
Affondano nel mare
Rami contorti
Mosaici del mare
Ma vo’ cunpra’ tu senti all’improvviso
E gira il mondo
Senza ali
In solitudine
Sulla tua bellezza
Funambolando sull’Italia d’oggi
Ma se ...
Mi sovvien la morte di Franca
Ricordando Franco
Nell’anniversario della morte di mia madre
La vita negata
Il pane negato
Suor Teresa di Calcutta
Alla fine del sogno
Solo la Fede resta
Pippo Nasca
******
UN SOGNO CH'ERA BELLO!
Prefazione di AnnaManna
Il soffio aleggia dell’amor divino
su questa terra che dal mare è cinta
e mostra al cielo il volto repentino
di roccia nera nell’azzurro pinta
d’un monte, che giocando a rimpiattino
con nuvola di fumo in alto spinta,
stupisce chi la guarda da vicino.
Il cielo terso che la volle avvinta
nel mitico splendore dell’azzurro
la circondò di borbottanti venti,
che le nubi filanti come burro
sfiorarono di musica e d’accenti,
e l’aria accarezzando di sussurro
le fole ne cantarono suadenti.
Mi piace iniziare questo viaggio poetico proponendo la poesia più significativa , secondo me, della nuova silloge di poesie di Giuseppe Nasca.
Libro di poesie d’amore, questo libro di Giuseppe Nasca non può prescindere dall’amore per la sua terra. E così tra i versi è sempre presente la Sicilia nelle immagini meravigliose di paesaggi che Pippo Nasca dipinge con maestria. Paesaggi del territorio geografico ma anche spirituale che riflettono come in uno specchio immaginario le sfaccettature dell’anima. E subito il mio pensiero è accarezzato da un ricordo nobilissimo.
…………………………………
E la strada mi dava le canzoni
Che sanno di grano che gonfia nelle spighe,
del fiore che imbianca gli uliveti
tra l'azzurro del lino e le giunchiglie;
risonanze nei vortici di polvere,
cantilene d'uomini e cigolio di traini
non le lanterne che oscillano sparute
ed hanno appena il chiaro d'una lucciola.
Scusatemi se continuo questo discorso sulla poesia di Giuseppe Nasca rubando a Quasimodo alcuni dei suoi versi più belli.
Ma dopo la lettura della silloge di Nasca così densa e ricca non posso tralasciare di parlare della Sicilia e non trovo il coraggio di parlare soltanto con la mia bocca. Così ho chiesto aiuto ad uno dei figli più illustri della meravigliosa Isola.
Isola, questo nome riecheggia miti storici, psichici, letterari, miti dell'umanità. Già la posizione geografica si condensa di significati immediati ed ammiccanti. Un altrove, una distanza, un pezzetto di un tutto che è staccato, vivo di vita propria. Dunque un confronto che è anche ritrovarsi.
Ho avuto la fortuna di visitare la Sicilia in età molto giovane, subito dopo la laurea, insieme ad un gruppo di amici, timorosi e avventurosi come me.Il nostro viaggio si concluse presto a Fontane Bianche perché ci accorgemmo che, in venti, non riuscivamo a raggiungere la quota per una notte in uno degli alberghi di Taormina!
Così tornammo a Roma con gli occhi pieni di sole e la voglia dell'isola. Perché questo è il segreto di sempre di questo posto incantato: ti resta sempre la voglia di lei. Come aver sentito un profumo, aver gustato un po' di paradiso e poi addio! Hai conosciuto la felicità e devi andar via.
L'isola è capace di seduzioni intellettuali che ti restano dentro e con le quali continui a dialogare. Non è soltanto la sirena dell'estate, attenzione, dietro lo scintillio del mare e del sole t'agguanta con lo scintillio dell'intelligenza, della mente.
Sapori e ricordi, profumi e racconti. Perché la cultura come ha detto Giuseppe De Rita creatore del Censis, deve essere raccontata per essere accessibile. Con i versi la cultura, in questo libro, è diventata racconto..
Il libro di Giuseppe Nasca è veramente come un'isola: un'isola nell'immenso panorama delle pubblicazioni contemporanee. É un altrove che si condensa e si evidenzia nell'immagine di uno dei posti più belli del mondo. Perché i versi sono lo sgabello dorato dei commensali di questa metaforica tavola culturale dove si entra in contatto con una delle culture più affascinanti del Mediterraneo.
La Sicilia è bella e intelligente, si direbbe se fosse una donna, invece è una terra ma come le figlie bellissime di questa terra è capace di seduzioni incredibili. Perché in lei la carne e lo spirito si fondono in un unico irripetibile richiamo. Quest'unità di sacro e profano, di carne e di spirito, di tragedia e di divertissement, è l'incantesimo di questa terra "altra". Una terra che ha dato figli illustri, che ha dato il latte a Pirandello, è una tera che conclude e riavvia il discorso sull'umanità.
Terra generosa che condensa e miscela vari messaggi cultuali in una prospettiva culturale viva ed avvolgente.
Così i ritorni all'isola, per parlare di nuovo con Quasimodo, significano accendere un riflettore su un posto distante, eppure capace di riaccendere l vita. Ritornare pr ritrovarsi. Una fuga, un rifugio nel cuore vero e primitivo che ha dato la vita.
E cito per una delle poesie più belle di Salvatore Quasimodo:
ISOLA
(io non ho che te,
cuore della mia razza)
Di te amore m'attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d'aranci,
e d'oleandri, sereno,
cammina con rose il torrente
che quasi n'è tocca la foce.
Ma se torno a le tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa,
non so se infanzia o amore,
ansia d'altri cieli mi volge,
e mi nascondo nelle perdute cose.
Nascosto nei suoi aranceti, nelle sabbie bianche delle sue spiagge incantevoli, si nasconde il cuore dei suoi grandi uomini.
Nelle tavole imbandite di Sicilia forse vagano i fantasmi dei grandi figli a cercare cercare ancora un profumo, un ricordo, un legame con l'avventura meravigliosa della vita.
Un’avventura meravigliosa che si dipana nel libro di Giuseppe Nasca con ricordi, dichiarazioni d’amore, tentativi di penetrare una realtà che è in evoluzione.E così il poeta si sente come un metaforico “Vu’ cumprà” che guarda il mondo da ospite provvisorio, che non riesce più a sentirsi nel mondo come figlio, cittadino della sua dimensione. Il poeta è un “funambolo” tra le emozioni d’amore alla ricerca della nuova essenza e del nuovo significato della vita.Ma tutto sfugge, tutto s’appanna .Restano le emozioni di sempre come sotto un “Gelso nero “che premono nel cuore del poeta e che regalano dolcissime immagini.
I ricordi sembrano quadri che avvolgono il lettore di profumi, di struggenti ricordi. Il ricordo dei primi amori, il ricordo degli amici cari scomparsi, il ricordo della madre. Che diventa protagonista immensa dell’immenso amore del poeta per il mondo. Ma ecco avanza la delusione e il rimpianto di stagioni passate per sempre, di persone care scomparse per sempre, diventa un veleno che avanza sempre nei ricordi d’amore.
Solo la fede resta!
Questa l’ultima poesia che scivola sul veleno e lo rende nutrimento per la Speranza. Il viaggio nella poesia d’amore di Giuseppe Nasca ha una sua compostezza classica, ci racconta e ci svela verità immutabili, ma è un viaggio che profuma del paesaggio della Sicilia.
E’ impregnato di questa presenza indimenticabile. L’isola c’è e sostiene
la vena poetica classica di Giuseppe Nasca con tutto il bagaglio culturale, le immaginifiche parole che avvolgono il lettore nel profumo stregato e stregante delle zagare.
Tra le altre poesie degne di grande attenzione le poesie dedicate ad altri paesaggi, ad altre città : Roma , la Calabria .
Così ci rendiamo conto di quanta attenzione, anche per gli altri luoghi dell’anima e della ricerca poetica , sappia rendersi ricca la vena poetica di Giuseppe Nasca che conserva, ad ogni incontro, il bagaglio profondo della sua cultura. Così come un’eterna enciclopedia del cuore si apre a ventaglio sul mondo conservando, al di là del freddo contatto culturale della pagina e del libro studiato, l’immediatezza di un abbraccio, il calore di uno sguardo d’amore. Ecco di nuovo il calore della sua terra che l’accompagna in tutti i suoi viaggi nel mondo! Per questo ho sentito che l’isola c’è sempre, appena ho preso il libro in mano. Perché di quell’isola Giuseppe conserva il calore e l’immediatezza del sentire, l’emozione e l’empatia, Giuseppe conserva sulla pelle e nella penna il sole della Sicilia.
Anna Manna
Parlando di poesia.
A cesellar m’accingo
il tuo bel viso
con fili d’oro
ed argentate stelle
calcando l’orme incise
del tuo dire
sul foglio bianco
che mi sta davanti
e rivestirle voglio
d’armonia
al passo con forbiti versi stesi
la metrica applicando
alle parole
e dirti tante cose
che son belle
del tuo spigolare
schietto e dolce
Se la tua vita mi regali
Se la tua vita
ancora mi regali
sarò per te
la fiamma dell’amore,
come quella
che scalda le Vestali
col sacro fuoco
ricco di calore
Sulla tua pelle
scriverò vocali
con le mie labbra
prive di pudore
e segni chiari
che saranno tali
da giubilarti tutta
con furore
Io son
la vecchia quercia
in terra fissa
e tu la luna in cielo
che la sfugge
tra rami
che col vento
fanno rissa.
La linfa che sta
dentro al tronco rugge
ma dolce scorre
quando fuori glissa
e gioia immensa dona
a chi la sugge.
Io, vagabondo
Io, vagabondo
tra stelle brillanti
nell’infinito perso
e nel silenzio
delle notti informi,
io, ci sarò per sempre
e parlerò con te
di te sognando
sull’onde del pensiero
e nel brusio
di folla circostante
tu sentirai
le mie parole mute
sussurarti
suadenti le parole
che d’ascoltare speri
e son d’ammirazione
e di stupore
per l’essere tu donna
d’armonica figura
in terra avvolta
dello splendor
dell’oro e delle Dee.
A Te nulla dirò
che tu non sai
del fascino ch’emani
e che ti dissi
un giorno balbettando
ma di pensieri
colmerò l’orecchio
finché d’oblio
non avrai desio
e con piacer
l’ascolto al mio parlare
la gioia ti darà
di stare bene.
Il mio silenzio ascolta
che non tace
finché di vita
resterà la speme
e di morir non teme.
Cavalcando Pegaso verrò
Il mio piombar rapace
con Pegaso volando
a guisa di guerriero
ti sia speranza altera
l’artistico assemblare
i cocci a terra sparsi
d’un tuo perduto stato
in un capace vaso,
che nel sen rinserra
le voglie mai sopite
quali giammai Pandora
immaginare osò
e lieve allor ti fia
accogliere le stille
della superba linfa
che gorgogliando scorre
dal cuore mio ch’è colmo
dell’incipiente amore.
Il tuo restar supina,
dal nettare sommersa,
di te farà giuliva
la scintillante stella
sul dorso del cavallo
che vola insieme a me
superbo e spensierato
Dimmi chi …?
Chi vive nei tuoi sogni?
Chi intiepidisce la tua mente adesso
di quanto non t’illuse il dì passato?
Chi ti strappa dal cuore la tristezza
e chi ti dà coraggio
di vivere felice e spensierata?
Chi le tue labbra solletica dischiuse
senza sfiorarle un bacio appassionato
e chi ti gonfia il cuore di passione
al sol pensiero d’annegar confusa
nello sguardo che t’accarezza il corpo?
Dimmi chi folleggiar ti fa d’amore
senza sfiorarti quel voglioso seno
e solo per te scrive, sognatrice,
versi d’amore che leggendo vai?
Se questi son quel tale
che di tanto valore son capace,
con l’anima ricolma di passione
ascolta l’amor mio
e non restare muta ad aspettare
perché mi fai felice e non lo sai
che sono più di quanto a te compare.
Sono per te
Io son per te fratello, amato sposo
di talamo infinito che si perde
tra gli anfratti del vivere corroso
dal tempo ingordo che nel cuore lede
il ricordare intenso la passione
ancora viva nella nebbia avvolta
e se t’adorna un’alba di corone
di roridi colori in seno accolta
allor rivive tuo splendor forbito
che mai si spense sul tuo labbro muto
ed io ti porgo amore all’infinito
che tu pensasti mai d’aver perduto.
Sui clivi del sognare che più conta
l’immagine d’un tempo sempre viva
dei giorni che passaro non tramonta
e resti tu per me l’eterna diva
sacerdotessa d’amorosi riti
perché son questi i miei pensieri intensi
che spigolando corrono smarriti
al crepitar costante dei miei sensi.
L’orme sbiadite di passati eventi
non sempre il tempo cancellar potrà.
Felici ed infelici vanno spenti
quando il silenzio sopra noi cadrà
e mai potremo raccontar suadenti
di quanto adesso provo e non sarà
perché dal mondo resteremo assenti
e mai sapremo quello che accadrà.
Ma l’eco rimbalzando per le strade
oppur di valle in valle repentina
rivivere farà nelle contrade
amori uguali come fosse brina
e rivivranno i nostri sentimenti
nel divenire umano che non tace
e dir potremo d’essere presenti
nel mondo dell’amore e della pace.
Anche la vecchia quercia sogna
Quercia superba dai forbiti accenti
che d’ombra ammanti nel silenzio arcano
fioriti praticelli prorompenti
e ti sommerge il cinguettar d’uccelli
felici scorazzanti sulla chioma,
caduchi rami mostri nel tuo dire
protesi a rinverdir la linfa ascosa,
nel turbinar del vento chiacchierino.
A sera, quando tace la natura
le stelle che tu vedi all’orizzonte
raccontano le storie d’altri mondi,
ma l’ombra ti ricopre della notte
ed il silenzio incombe sul tuo corpo
baluginato dalla luna astiosa
che sfugge, si nasconde e poi sorride
e ne rincorri il capriccioso andare
con l’alitar focoso del tuo cuore.
Così tu vivi rincorrendo il sogno
di catturar la luna che ti sfugge.
Un sogno ch’era bello
Donna sfiorita dall’aspetto dolce
che vedo incerta nell’andare piano
forse non sai quanto piacer mi fece
sfiorarti il corpo con lo sguardo muto
quando, ragazzo ancora, ma procace,
ondeggiare sui tacchi ti vedevo.
Tu rosa ricoperta di rugiada,
tu zàgara fiorita e profumata
mi sembravi da cogliere d’un fiato
Eri per me la cima immacolata,
di vette mai raggiunte e da scalare,
il vento vorticoso di passioni,
di voglie nuove ardenti e fantasiose,
il pozzo dei miei sensi scalpitanti.
Sentivo solo quello che sognavo
o come nella mente ti volevo
perché sospinto mi sentivo allora
dal fuoco di carboni ardenti e vivi.
Adesso, che cadente simulacro
sembri di sensi in mare sprofondati
dal tempo assurdo che li vinse astrusi,
sento d’amarti più d’allora ancora
perché mi turba la tua faccia smunta,
e l’invecchiare assurdo che cancella
un sogno ch’era bello e gli anni miei.
Rinserra il tempo
Rinserra il tempo gli anni miei caduchi
avvolti nell’ampolla evanescente
di fatti e di pensieri
che tinsero la vita nell’andare.
Ruvide ascese, strepitosi tonfi
imprese folli d’amorosi amplessi,
sperduti canti d’ispide chimere
tra ridondanti nubi
ed archi di colore
dal sole disegnati
toccarono le stelle ed or supini
piombarono nel fondo dell’oblio,
amaramente chiusi nello scrigno,
che ne segnò la fine.
Al mio sentir loquace ed errabondo
la rabbia non dà pace del passato,
perché calda la brace mi rimane
d’antica storia pinta di rimpianti,
che vide allor lucenti
le stelle vagabonde
rigare il cielo nero ma sereno
con amorosi sciami di passioni
Non ti stupisca dunque l’emozione
che l’anima sommerge e tocca il cuore
per cose che già furo e mai saranno
La cronaca d’un sogno
Sognavo d’aspettarti
nella notte.
Guardando in fondo
alla deserta via
seduto sopra un nuvolo
attendevo
che tu giungessi infine
all’orizzonte.
Quando arrivasti
con le labbra mute
confusa nella nebbia
del mio sogno
ti vidi evanescente
trepidante
al centro della strada
che saliva.
Un bacio solamente
sulla fronte
colmò la sete
della lunga attesa
Ti cinsi dopo
col mio braccio il corpo
e riprendemmo
insieme la salita.
La luce che di fronte
ci guidava
guizzava nella notte
ed era ricca
di stelle luccicanti
all’infinito.
Sparì la nebbia
che d’intorno stava
e fummo luce
nella luce avvolti.
Son calici di stelle
i nostri visi
che baluginando
vedo rimbalzare
tra meste fole
e fulgidi sorrisi
nell’ombra vaga
del chiaror lunare
e sembrano
nel marmo bianco incisi
di nuvole
sfuggite al blaterare
dei venti
vorticosi ed indecisi …
Ma fu la fine truce
del sognare.
Nella notte d’incanto
che di vino brilla
La notte scende variopinta e gravida
di dolci ed ampollose apparizioni
sulla campagna ricca di colori,
che dardeggiando il sole li sospinse
sul bianco delle nuvole sbiadito.
Il ciel si tinge di rossastro esangue,
misto di giallo e d’ocra col turchino
a sprazzi e chiazze sguinzagliato in alto,
che mare sembra turbolento e truce,
ove diletto prende fissa e rilucente
la mezza luna dal sognante aspetto.
Su quei fantasmi d’ombra disegnati
aleggiano fruscianti di colori
parole mute di pensieri immensi
e di stupende immagini sopite
nel silenzioso incanto delle stelle,
che martellante rompe solamente
della cicala il languido frinire.
Su questa scena di colori obesa
e di silenzio murmure si leva
lo spirto mio giullare e vagabondo,
all’altezza di cime mai raggiunte
e sogna incontrastato fiabe eluse
del già passato giorno con rimpianto.
Vedo vascelli dalle vele d’oro
nel cielo navigare, reso mare,
di pesci zampillanti e di delfini
che mostran pure di volare attorno
a squali immoti nel cacciar le prede
e streghe nere sulle scope appese
fuggir lontano verso l’infinito
che dell’oblio le copre e le sotterra.
Tace supino ogni pensier cattivo
e l’anima s’accende del disio
di pace e stasi del dolor represso.
Con questi versi che disperde il vento
nel colorato amplesso del tramonto
Io brinderò col vino dei miei sogni
In alto sollevando queste coppe
che nudo il seno contener non ponno
di tua bellezza turgida e suadente
e stilleranno a gocce i tuoi pensieri
nel calice ricolmo che ti porgo
se le tue labbra accosti rubiconde
ed ebbre di liquore soporoso
su quelle mie frementi di passione.
Cavalli scalpitanti e senza freno
Insorgeran nitrendo nel tuo seno
restando pur supina nell’attesa
che languido ti porga il mio liquore
e, quando il paradiso toccherai
scivolando su nubi di passioni,
immota resta e godi finché puoi,
del vino zampillante sulle labbra
ed i colori spigolanti in cielo
avvinceranno l’anima pacata,
l’immagine esaltando del tuo viso.
Allor divina sentirai l’impulso
del nettare gustato dagli Dei
e tra le stelle nuoterai felice
nel gorgo colorato dell’oblio.
che fu d’Arianna la raggiunta pace,
ebbra del vino da Dionisio offerto.
Ancelle eteree danzeranno mute
a te d’intorno e son l’Ore fatali,
che d’ignorarne vien concesso i mali
a te del tempo scivoloso e turpe,
d’eterno colorando i tuoi pensieri.
Col capo cinto da corona verde
di pampini e di tralci ancora vivi,
ebbro d’amore a te m’accosterò,
come Sileno traballante e sperso,
e con le dita suonerò la cetra,
che fu d’Orfeo l’accorato incanto,
senza timore di scomparse amare
nel lubrico soffrire dell’Inferno.
Le corde toccherò del tuo sentire,
Intrise già del vino che t’offrii
e colmerò d’altro liquore ancora
il corpo sitibondo che mi mostri
e due saran le stelle nuove accanto
a quella luna a forma di canoa
che navigando culla i nostril sogni,
finché nel mondo stilleran le botti
del vin la linfa sull’umano senno.
Possa durare quanto il mondo dura
questa silente notte vagabonda
e mai stupir la gente d’altre scene
che son di mostri e di dolore accese
e distillar le pene, in versi sciolte,
da tremolanti immagini sperdute
in gocce scintillanti di piacere.
Così violento non irrompa il sole
a scardinare il placido sostare
di colorate scene nel silenzio
di questo poco tratto della vita.
Solo dopo gli sia concesso adire
col carro rutilante sopra il mare
portando in cielo rinnovate luci,
ma adesso giaccia dietro i monti ascoso
e lasci al sogno il trionfante segno
del vino gorgogliante nella gola
ed al suo fumo che t’innalza in cielo.
A Lei che dorme.
La notte è ghiaccio fuso nella mente.
Sento il vento sbattere sui vetri
ed il tuo cuore battere nel seno,
ma tu dormi tenendomi la mano
ed io ti guardo immobile e silente.
Son gli occhi chiusi ed affilato il naso,
serrato il labbro ed i capelli sparsi,
il petto ansante per profondo sonno.
Tu dormi ed io ti veglio
e con la mente, che si scioglie
dipingo la tua faccia
sopra una tela azzurra, che non c’è,
ed il tuo corpo intaglio
sopra una pietra rosa, forte e dura
con lo scalpello della fantasia.
Tu dormi ed io ti veglio!
Ti voglio, ma non parlo.
Ti guardo solamente.
Ho dentro il fuoco, la passione è forte,
ma resto fermo con la mano stretta.
Nella nebbia del sonno avvolta voli
e, stella tra le stelle,
nel firmamento corri dell’incanto
e favola rivivi favolosa
nel tuo dorato mondo
e non v’è forse posto
per me che guardo e bramo.
Mendico allora cerco la tua voce,
che d’ascoltar non m’è concesso in sonno
dove è negato entrarvi
e disperato perdo forza e pace,
ma, a te d’accanto, che dormendo sogni,
la mente più non tace
e meraviglia nasce
di star lontan da te
anche quel poco che l’impone il sonno.
Sotto il Gelso nero
Il sol ricama il cielo
di trapuntata luce
di qua dal gelso nero
e tinge di colore
le nuvole cangianti
ch' abbaglia l'orizzonte,
laddove le montagne frastagliando
punteggiano di cime
il quadro variopinto che ci appare
e gli alberi impazziscono di verde
tra i rami adunchi di colore bruno,
stampando in terra mostri o forse fate
d'indefinito aspetto
che mai la mente immaginar osò.
L'oro s'innesca caldo
al freddo del turchino
e schiumano di rosa i cirri bianchi
che luce li bordeggia ridondando.
Negli occhi tuoi il cielo,
nei tuoi capelli l'oro,
sulla tua bocca appena
il rifiorir di favole smarrite,
sulle tue gote il rosa
di sogni ormai passati
su tutto il viso incanto
di giorni ormai trascorsi,
mentre cosparge di liquore rosso
l'ignudo corpo il gelso rubicondo.
Un tempo, mai cogliemmo i gelsi neri
ignudi entrambi sotto il sol cocente,
eppur felici tosto il sol ci vide
poiché speranza e vita
la fede c'infondeva
e forza c'incuteva giovinezza
all'ombra appena d'un muretto antico
bevendo a garganella l'acqua pura
che d'una fonte anonima sgorgava.
Anche se l'onda paventò l'oblio
talvolta scoraggiata nell'andare
con moto trepidante sopra i flutti
del divenir fugace di quel tempo
ed or lo spettro aleggia più vicino
del nulla che cancella i sogni azzurri,
c'inebria come allora questa luce
che ci cosparge il viso di colore
e ridondanza dona ai gelsi neri,
perle tra perle rilucenti al sole
nell'intimo del verde delle foglie.
Possa per sempre ristagnare il tempo
ed immolar la mente a un Dio pagano
l'ore future per fermarle tosto
ed arrestare il divenire incerto
o forse certo del domani ambiguo
e qui sostare sotto il gelso nero
a disegnar col dito
intriso di liquore
sulle ridenti labbra
l'amore che ti porto
ed adornarti il seno di collane
che san di gelsi e perle nell'amplesso
d'un mondo che ci sfugge
e scriveremo allora
un nuovo carme che non ha parole
e nel silenzio adorneremo i cuori
di quella pace che d'eterno sa
anche se dopo periranno a frotte
le foglie intorno e rinsecchiti i rami
al mondo mostreranno il lor patire
Sopra le nubi
Sopra le nubi, in alto, son volato
per ammirar le stelle da vicino
e sopra i cirri neri ho disegnato
mirabolante un quadro d’oro fino,
ma sulla terra tosto son tornato
dal vento spodestato birichino
e sulle pietre aguzze del selciato
rincorro solamente il mio declino
Il mondo è bello solo se sognato
ma, quando giungi all’ultimo gradino,
tu, svegliandoti, amaro e sconsolato
la tunica rivesti del tapino.
Le foglie dei vestiti
La fonte sono
d’eleganza e stile
le foglie dei vestiti
nello stipite dell’albero
che cresce nei giardini
o tra le mura
delle fredde stanze
adorne di tappeti ed arabeschi
ma lo splendore
celano caparbie
dei rami
accavallati ed anelanti
d’accarezzar
la brezza del mattino
e godere
la luce che compare.
Il lor sfuggire
da quel manto verde
li rende
scalpitanti ed esaltanti.
Ti diranno
che son loro la vita
dell’albero
che svetta verso l’alto
perché la linfa scorre nelle vene
del desiderio
che sprigiona amore
e se cadranno
tutte intorno sparse
le foglie verdeggianti
a far da letto
allor la vista avrà
grande diletto
nel rimirar
le curve e l’anse cave
al tronco scapestrato e giubilante
di sogno
rivestito d’armonia
e d’amorose spire
gorgheggianti
d’uccello saltellante
che di piume
adorna variopinte
il corpo ignudo.
Ombra di paradiso
allora cinge
I rami spogli di verdeggiante chioma,
ma ricco di pensieri
antiche fole
sguardi suadenti
e sogni svolazzanti
che sfiorano le stelle risplendenti
ed io che son
di sogni assemblatore
di tutto quanto
ne raccolgo il brio
e sciolgo al cielo
un cantico suadente
di versi antichi e di parole arcane
finché sorriso
le tue labbra adorni.
La dorata spiga
Spiga dorata tra dorate spighe
di grano rigogliosa palpitante
nella contrada svetti al sole esposta
di Cerere imitando la sembianza
che col falcetto al fianco brilla d’oro
e più non piange la perduta prole
implosa tra le braccia di Plutone.
Di chicchi mostri le superbe forme
di pula ricoperte ed aghi incisi
nell’aria che circonda l’ondeggiare
al vento sparso e sembrano capelli
di donna appariscente sciorinati
sui fianchi ardenti e sulle nude spalle.
Ed io li spoglio questi chicchi ameni
ed alle labbra accosto il lor sentore
mentre d’intorno vola il lor vestito
al tocco sciolto delle mani ansanti
e trepidanti di passione viva.
O spiga mia adorata e sogno ambito,
di questa età matura che m’afflige
godranno i sensi nell’averti vista
recisa dalla zolla, ov’ io t’ho scorta,
che nascere ti fece e resa bella
nel mondo che più vale d’altri frutti,
perché la vita adorni e dai l’impulso
di suscitare amore in chi ti guarda
e del chiarore che tu spandi intorno
illuminar lo sguardo ancor la notte
che luna inonda torbida di vita.
In cielo svetteranno rose pallide,
azzurri ciclamini, piante verdi
e bianchi gelsomin a frotte nati
e cinguettanti uccelli variopinti
tra cespugliose cime al rosso fuse,
ma quel colore d’oro fino in campo
che dentro cresci ad altre miste sempre
faran di te l’imperatrice arcana
che il mondo concupisce e pure sfama
e tu di gloria cingerai la testa
ché pane diverrà la carne tua,
cibo supremo dell’umana stripe,
ne disdegnar potrà l’amato bove
gustar la paglia che produci pure.
L’oro dei capelli
Di mito e di colori
tra rutilanti cumuli dorati
nel campo sparsi
di recise spighe
vedo balzare
di colori vaghi
l’immagine
di donna sorridente
che l’aria frange
di novello ardire.
Allora vaga attento
il mio pensiero
e d’annegar non teme
tra le zolle
d’estinto verde
ricoperte in pieno
di giallo luccicante
e di tiepore.
Persefone mi pare
di vedere dagli Inferi
sfuggita nell’estate
che già s’alletta
d’oro circonfusa
d’Anémone a cercar
l’amato fiore,
conteso a Giuno
che lo volle amante.
Soverchiato
mi resta solo
d’ammirare in sogno
la scena che mi fa
fantasticare.
Il verde dell’ulivo
La verde cima degli ulivi cinta
di foglie aguzze e rigide d’aspetto
non ebbe mai la guerra ridipinta
sull’ondeggiante casco mai perfetto.
Di pace invece conquistò la grinta
fin da quando sull’ara venne eretto
a simbolo d’amore e lotta estinta
nel vivere civile e pur corretto.
Al rosso e bianco aggiunto, il suo colore
di verde acceso, sempre preferito
l’aspetto nuovo dette tricolore
allo stendardo sventolante ardito
d’italico valore e di splendore,
che della pace dia sempre l’invito
Alla fine delle contese
Adesso mi sovviene il tempo quando,
nella corazza rilucente avvolto,
guerriero sollevavo in alto il brando
per tacitare il senno tuo stravolto
e mi fermavo solamente ansando
se ti sentivo il fisico sconvolto,
e diventar soleva di Nettuno
il ferro che di denti n’ha più d’uno.
Allor, d’intenti sempre più decisi,
con precisi colpi all’obbiettivo resi,
frugavo con la bocca a denti incisi
i sensi tuoi, che, sempre più distesi
nell’affogar sommesso a pianti e risi,
mostravan segni sempre più palesi
di resa senza condizione alcuna,
come col sole fa di giorno luna.
Ormai, dismessa la corazza altera
per l’armi appese al muro incontinente,
la guerra è diventata una chimera,
perché scaduta appare e prepotente
la voglia antica tutta quanta intera
di stare in santa pace solamente.
Così il tridente e pur la spada piace
serbare immoti nella spenta brace
Non sempre la vittoria arrise
Nefasto il giorno dei perduti allori
giunse nel mondo del pallone appena
e già si pensa di lenir dolori
che poi non son motivi di gran pena.
Di certo è meglio ricco di colori
che sempre arrida la vittoria piena
nel nostro calcio e sian sempre i migliori
i nostri giocatori nell’arena.
Nel mondo dello Sport è risaputo
che spetta solo l’accettar composto
l’altrui valore e non pensar perduto
l’impegno già profuso e riproposto.
Non è di certo onore decaduto
non essere arrivato al primo posto.
Alla città di Roma
Dal solco emergere grifagna e torva,
il ciel ti vide con superbe mura
e rispecchiarti ansante di grandezza
nell’acque bionde d’un divino fiume.
La zolla di quel solco il sangue tinse
di chi romano ancor non era e volle
violarne il segno con spavaldo passo.
D’allor la storia più non tacque l’eco
delle superbe imprese e delle guerre
che d’opulenta forza il cor ti cinse
e fea di te del mondo la regina.
Dei Cesari l’emblema al mondo desti
che fu romano sotto la tua guida
e, solamente dopo, incandescente
luce di fede fosti incontrastata
per Cristo redentor d’umanità.
Ora tu sorgi, solamente paga
di reggere l’Italia derelitta,
che la sommerge l’allettante fama
di generosa figlia dell’Europa,
ma chi ti guarda e scorge tra le nubi
di metifiche parvenze la tua fama,
prono si prostra a te dinanzi e plaude
alla tua gloria che nel cielo monta
e simbolo ti fece di grandezza
ed è cosi che chi con te gareggia
si vanta d’esser la seconda Roma
e chi la terza nell’uman consesso,
nonché la quarta o la futura quinta.
Qualunque sia domani il tuo destino,
mai cancellar potrà nessuno il vanto,
che prima fosti capitale vera
d’Europa, d’Asia e d’Africa, assemblate
intorno al mare, che fu detto tuo
e fosti madre genitrice ancora
di civiltà suprema e di splendore
Per questo t’amo e t’amerò per sempre
mitica città, che preclara fosti
a Dei pagani ed al poter di Cristo
ed or nel fango ti dibatti oggetto
d’oscene accuse di chi ti gabella
madre funesta di ladroni bradi.
Quando prono e silente a te verrò
a calpestar le tue sacrate calli,
implorerò l’Eterno che d’eterno
ognora cinga la superba effige
di te che sorgi nella Patria mia
e che mai cataclisma o nebbia oscuri
il tuo superbo primeggiar nel mondo
e che la gloria il sen sempre ti cinga.
Come guerriero
Come guerriero di romana stirpe,
cingendo al fianco la mia sola daga
a te verrò furente di passione
e prono chiederò d’amarmi o Dea,
che nel tuo corpo assommi la bellezza
che fu di Marte la cagion d’amore
per Rea vestale concupita e vinta.
Il frutto sano dell’amor che t’offro
non servirà di certo a rifondare
un’altra Roma per mano d’orfanelli,
abbandonati al latte d’una lupa.
Io non son Marte ma Plutone certo,
che col mio fuoco il sacro fuoco tuo
a Vesta renderai brillante e vivo.
Ti colmerò di baci e di passione
sul Pincio, l’Esquilino, l’Aventino
il Celio, lungo i Prati, oppur del Tevere
sul bordo, che lubrico scorre biondo.
Lascia che ti ferisca dolcemente
dell’innocua ferita dell’amore
e quando il miele attinto favoloso
del mio profondo amore avrai gustato
di farne a meno tu giammai potrai
e se per caso questo tu farai
non molto facilmente scorderai.
Nuova sirena
Son da Saturnia a scendere festose
nel mare che le accoglie con dolcezza
le italiche sirene prosperose
e spandono d’intorno la bellezza
che quelle greche, in vero velenose,
Omero ci descrisse con destrezza,
quando d’Ulisse l’orrido propose
viaggiar incerto al soffio della brezza.
Io quando il corpo vedo di colei
che nella foto posa con candore,
del vento le sembianze assumerei
e senza avere poi alcun pudore
con l’onde tempestose coprirei
le sue fattezze reclamanti amore
Amor per Roma non cancella il tempo
Caracollando sul cavallo bianco
dei miei sogni a Roma giunsi altero,
di penna biro solamente armato,
e svolsi un tema d’itala cultura
nell’affollata sala d’una scuola
e l’indomani ancora vi tornai
a dare soluzione ad un problema
complesso di figure e d’equazioni.
Dopo, un colloquio sostener dovetti
di storia patria, geografia e lingua.
Tornato vincitore di concorso,
Catania mi promosse a trafficare
con treni, capitreno e macchinisti
con la paletta ed il cappello rosso.
Ma se cotanta gloria mi concesse
Roma, che fu di Cesare magione e sede,
nonché di Pietro simbolo divino,
e del modesto mio comparire
tra le ferrate strade siciliane,
un velo mi squarciò d’antichi fasti,
sull’itala ricchezza di valori,
ch’ emergere sentivo dalle vie,
i marmi, le colonne e le fontane
d’antico stampo ma di vita ansanti.
Piazza Navona, il Vaticano ,l’Eur,
il Colosseo, le Terme, il Circo Massimo,
Piazza di Spagna e di Traian la stele,
nonché Castel Gandolfo e Porta Pia,
il Laterano e l’Ara della Patria,
m’apparvero giganti d’altri tempi,
che resero fiorente il nostro suolo.
Ma quando per le strade m’aggirai
dei mitici quartieri popolani,
rimasi avvinto dalle targhe antiche
accanto a quelle di negozi nuove.
Sull’uscio aperto d’ una trattoria
vi lessi: “Pisciapiano Gioia mia”
accanto al muro antico riesumato
e camminando lessi pure scritto:
“Er Frascataro”, che vendeva vino,
di quello vero e buono di Frascati.
Allor compresi che l’antico al nuovo
nell’Urbe accede e si completa al passo
di tempi che son nuovi e già moderni.
Compresi ancor di più questa faccenda,
quando raggiunsi via Condotti e pure
la piazza dove sorge il Pantheon antico.
Lo scintillio di luci dei negozi
si mesce all’eleganza della gente
e senti tutt’intorno la parlata
romanamente aperta mescolata
a quella della gente ch’è del mondo.
Spagnolo,inglese, tedesco, africano,
nonché francese, russo ed indostano
tu senti cicalare per le strade
ed è di Roma tutto il mondo intero.
Per questo in me risorge vivo amore
e vanto, che non teme la smentita,
d’appartenere a Roma, ch’ è signora
dell’Itala nazione e dispensiera
della cultura che nel mondo alberga.
T’amo Dea Roma, che superba estolli
sul mondo intero dall’infinita altezza
su cui ti pose il destin supremo,
come a Te disse un giorno quel Giosué
che le tue pietre ricoprì d’orgoglio
e nudo ci mostrò tra loro amore
e riscoprì gli emblemi romulei
di crocidanti uccelli vagheggiati
sui labari romani vincitori
e possa allor volare la mia voce,
di valle in valle, fino a che quel grido
ne sia di pace, amore e gloria eterna,
ambasciatore tra l’umane genti
finché la vita dura e non si spegne.
L’Omaggio alla Calabria
Rupestre fiondi nell’azzurro mare,
Calabria onusta di montagne verdi
rude appendice dell’Italia estrema,
dove regnaron mitici gli Dei
che furono d’Ulisse ed altri eroi.
Tu, col sole giocando a rimpiattino,
alla Sicilia rubi il panorama
e tanta parte di quel ciel che fu
di Cerere la sede incontrastata,
onde d’Omero il canto ancor echeggia.
L’incedere sul mare, non fu forse
gradito al Dio Nettuno, che vi regna,
e scatenò di Scilla e di Cariddi
l’abbraccio rude, che tra loro corre
per volontà divina d’altri tempi,
contro naviglio che lo stretto varchi.
Qui l’onde fanno mulinelli eguali,
mostrando le mascelle dei due mostri,
che sembrano di rupi due gemelle
Ma non bastò di Scilla e di Cariddi
l’intoppo azzurro e nero tra due sponde,
che vollero comuni i lor destini.
I Siculi, fuggendo d’altri siti,
raggiunto infine il calabro avanposto,
lo stretto in parte presero d’assalto
e Sicilia chiamarono quell’isola.
D’allor congiunte le due terre sono
d’umana schiatta e di parlata uguale;
ma ancor di più le resero sorelle
color che, dopo, con le navi giunti,
ne rinverdir la fama e la potenza
e fu così che Tu, Calabria cara
di Magna Grecia fosti la regina,
faro splendente di superbo ardore,
che mostri ancora nei reperti antichi.
Io, che son nato siculo e lo sono,
di Te, Calabria, comparando vado
il tuo linguaggio al mio che lo coltivo,
i tuoi monti confronto d’Appennino,
ai verdeggianti clivi di Sicilia
e le sfuggenti nubi d’Aspromonte
agli urticanti effluvi le rapporto
dell’Etna ciarliero e scalpitante.
Ne cesso d’ammirar quei bronzi Greci
che fur trovati nel mare di Riace
ed al Fauno Danzante li confronto
e Venere, trovata a Morgantina,
o di scrutar esterefatto e muto
gli anfratti marinari delle rogge
del tutto similari e conturbanti
alle superbe sicule contrade.
Per questo t’amo, pia gemella terra
della mia Sicilia, che stesso mare
d’azzurro cinge le tue coste amene
e clima arride identico e gioioso.
Io t’amo ancor perché gli stessi guai
della mia terra tu rivivi e piangi,
sorella amara di sorella amara.
Ma disperar non lece in questo mondo,
poiché verranno certo i giorni lieti
a rinverdir le sorti che son magre.
“Vitulia” ti fu dato nome primo
per lo sciamare di vitelli al desco,
esteso al resto del terreno a monte,
da gente che così chiamò l’Ausonia.
Allora il vanto maggiormente avesti
d’aver dato superbo allo Stivale
d’Italia il nome, che nel mondo vale.
A Maratea
O Dea del mare, che superba emergi,
divina Maratea,
il corpo frastagliando in cento rupi
nel litorale dove
Nettuno, spumeggiando,
con l’onde gioca e con l’azzurro cielo
e smorza la sua forza
nel placido contesto di colori,
d’intorno sparsi sull’arboree rocce,
nella mia mente luce
s’accende d’improvvisa fantasia
nel rimirare le profonde gole,
le grotte ascose in terra
ed i tuoi monti arditi
sfidar le nubi oblunghe,
che timorose Zefiro le spinge
verso procelle altrove,
e vedo intorno sparsi
mille fantasmi di passate storie,
di mito intrise e di superbi fatti,
se d’improvviso appare
lo svolazzar d’un falco in pieno tuffo
sugli alberi fronzuti.
In questi luoghi certamente Giove
con Cerere, Giunone, Apollo e Venere,
nonché Nettuno, Diana ed altri Dei,
si dettero convegno, escluso l’Ade,
per celebrare i fasti della vita.
Ma adesso svetta sul più alto monte
l’immagine di Cristo redentore
benedicente il cielo e la natura
e tu, superba terra,
eterna resterai nel tuo contesto
e nulla mai potrà di tua bellezza
finire nell’oblio.
Tu la perla per sempre resterai
del mar Tirreno ed anche d’altri mari
All’isola che c’è
Il soffio aleggia dell’amor divino
su questa terra che dal mare è cinta
e mostra al cielo il volto repentino
di roccia nera nell’azzurro pinta
d’un monte, che giocando a rimpiattino
con nuvola di fumo in alto spinta,
stupisce chi la guarda da vicino.
Il cielo terso che la volle avvinta
nel mitico splendore dell’azzurro
la circondò di borbottanti venti,
che le nubi filanti come burro
sfiorarono di musica e d’accenti,
e l’aria accarezzando di sussurro
le fole ne cantarono suadenti.
Son qui le barche stelle.
Son qui le barche stelle
nel cosmo fisse dell’azzurro mare
e se la vista ascondi per sentire
il canto delle ninfe
che giunsero danzando sopra l’onde
dall’isole feconde,
dove approdando Venere sorrise,
la mente si confonde
all’apparir dell’orizzonte il fine,
che con il ciel si fonde,
e lo scrutare i flutti orlati a trine
per il guizzare allegro e spensierato
di variegati pesci in quell’afflato,
stupendamente varchi l’infinito,
dove il clamore tace
e sei pervaso di quell’amore vero,
quello divino, che non sa di mito
ma di suprema pace.
Ma dall’orrore obeso
Ribolle il mare
di speranze
e morte
che sopra l’onde
gracchia
sitibonda di sangue
immerso
in corpi inanimati.
Di fiori rossi
si colora il prato
d’acqua salmastra
fonte dell’oblio
e sono l’anime
smarrite e mute
di bimbi morti
in culle d’acqua azzurra
ma d’orrido coperte
e di tormenti-
Riluce il sole
e canta il vento un’inno
di lamentoso pianto
al cielo volto
e crolla ogni castello
d’agognati sogni
ed arcane speranze
d’una vita
non più cosparsa
d’armi crepitanti
e fame immonda
di retaggio antico.
All’orizzonte appare
d’improvviso
la sagoma sperata
d’una nave,
che solamente
cogliere non può
i fiori già recisi
dalla morte
immoti galleggianti
sopra l’onde.
Tombe di mare
Tombe di mare, monumenti immoti
sull’onde semoventi del dolore,
barcollano le bare della morte
e dalle grotte di Nettuno sale
il pianto di sirene zampillanti.
Laddove solcano le navi il mare,
che fu la gloria di passati eventi,
da Roma tinti di gloriose imprese,
adesso gridano i morenti arresi
a forza imposta di sommersi scopi.
Speranza spinge, ma pietà non trova
e morte falcia sul salmastro campo,
covoni ammonticchiando di vergogna
all’ombra d’interessi e di razzismo
Il nuovo giorno mostra
All’apparir del sole
brillarono nel cielo
speranze all’infinito
a nuvole confuse
di rondini festose
ma fu la notte fonda
d’ovatta circonfusa
e di silenzio immane.
Non erano le stelle
foriere della luce
coperte dalle nubi
di non previsti danni
sorelle della morte
che tristemente incombe
sull’onde rese flutti
d’inganni e di dolore.
L’umano compatire
le ristagnanti pene
appare sulle prore
di barche fatiscenti
che vengono perdute
nel mare che dipinge
fantasmi di salvezza
non più sperati all’alba
che ricompare nuova
all’orizzonte osceno
di nuovo giorno incerto
e piangono bambini
al seno appesi inermi
di mamme che non sanno
il lor destino all’erta.
Mai più ritorneranno
a riveder la terra
che le sospinse in cerca
di pace e d’un amore
d’umani sentimenti
dispersi nell’oblio
da crudeltà sospinto.
Un giorno suoneranno
d’Apocalisse torbide
le trombe di vendetta
che grideranno in coro
le squallide pretese
di perfido abbandono
e capiremo allora
l’umana sofferenza
di chi sperando muore.
Affondano nel mare
Affondano nel mare
le solite speranze
d’un mondo che scompare
e s’ornano di danze
al fin di superare
le perfide distanze
col solo navigare
su povere paranze.
Ma questa gran trovata
del sogno che soggiace
a semplice remata,
dà solo eterna pace
a gente disperata
sull’onda atra e rapace.
Rami contorti
Rami contorti d’assetate piante
si levano da terra e vanno in alto
per ripiombare in basso mendicando
gli spruzzi che sospinge l’onda espulsa
dal mare che la sabbia invade e sbalza.
Sanno di sale le bagnate foglie
che brillano di verde al sole esposte.
Il vento ha reso proni i loro tronchi
che pregano tremanti un torvo Dio
quando non li costrinse la violenza
a rinsecchire al sole le radici.
La morte allora albeggia su quei tronchi
che li cosparge nudi di biancore
lanugine d’insetti a frotte intense
e bruchi incolonnati nel salire
verso la chioma scompigliata e rude.
Tra foglie, rami e tronchi inanimati
ombre disfatte apparvero grondanti
che rigettava il mare sulla riva
ed erano distese nella terra
ansanti di fatica e di speranza.
Alto un lamento si levò nel cielo
che parve di preghiera ed era tale
in lingua sconosciuta ed accorata
di donne e di bambini ancor piangenti.
Terra promessa fu raggiunta infine
che prospettava il mare tempestoso
laddove la morte già regnava
ed era solo inizio d’altre pene.
Venivano dall’Africa sperduta
fuggendo dalla morte e dalla fame
per ritrovare solamente il pianto
che già li spinse su barconi infidi
e l’onde furo, in alto sollevate,
chimere innanzi spinte vorticose
dal vento che sorrise oppure pianse
avvolto nel mantello del domani
e tingere di rosa il mondo volle
del nero appariscente delle nubi
La morte incombe sulla spiaggia arcigna
ma la speranza arride negli sguardi
e forse un giorno grideran felici
d’aver varcato il mare di dolore.
Il sole che compare all’orizzonte,
foriero della luce e della pace
li rende forti di speranza ancora
ma quando a sera giungono affamati
il grido li sommerge del dolore.
Non solo il mare ma l’infame specchio
del disumano impatto con la gente
non li comprende e li respinge indietro,
La diffidenza alberga in quest luoghi
che furono lo specchio del traguardo
e della meta di raggiunto bene.
Solo il miraggio resta che scompare.
Mosaici nel mare
Pietre con pietre
di diverse forme
nell’acqua sparse
dell’ondoso mare
dove l’acqua
baluginando
dorme
e mitico compare
d’antiche icone
lo splendente lume
mostrano
rude e carezzoso ancora
dell’intimo sognare
il caldo acume
che l’anima rincuora
e scivolando
con pensieri aprichi
rifulgono
di pace e di candore.
Sanno di nuovo
e sono pure antichi
nel tremulo grigiore
di sassi
levigati con passione
dal tempo
circonfuso dall’oblio
che vola e plana
come fosse un drone
in fase di pendio.
Se mai
del mare
il capriccioso moto
li smuove
dall’innocuo dondolare
e li sospinge
verso il fondo vuoto
li vedi ritornare
a cingere
di gioia e di dolore
il sito
che li tiene in armonia
come i pensieri
avvolti nel clamore
di risaputa via
Ma “vo’ cumprà”tu senti all’improvviso ...
Di merce onusto e col cappello in testa,
passa e ripassa lentamente al sole,
grama figura che non è molesta,
un uomo nero che tacere suole
e, quanto basta, il lento passo arresta
per chiedere a qualcuno, se lo vuole,
di comprare la merce che gli resta.
D’aver venduto poco non si duole,
riprende il passo sulla sabbia calda
e tra le file d’ombrelloni aperti
scompare come l’ombra balda
d’un musicante in vena di concerti,
per ricercar con aria più spavalda
la banda larga d’altri affari certi
E gira il mondo
Il pianto solamente arride e scorre
di lacrime disperse per la via
d’un mondo ricco solo di parole
che nulla aggiunge al disio d’amore
ed è così che l’urlo delle belve
echeggia nelle tane del dolore.
S’infiorano a Natale e Capodanno
le teche della pace e dell’amore
fantasmi suscitando d’emozioni,
mentre supino giace nel bisogno
chi, pregando invano, si dispera.
E c’è pur anco a chi nemmeno tange
l’orrore della fame e del bisogno
ed accarezza solamente il sogno
di vivere scialando e non pensare
che lo sprecar significa la fine
dell’umana esistenza e della vita.
Ma gira il mondo ancor così barando
su quello che si vuole e non si dà
e nulla, proprio nulla lo commuove,
anche se solo c’è chi chiede appena
un tozzo di pane per campare,
un briciolo d’amore e nulla più.
Senza ali
Non ho potuto perdonare mai
alla natura avara
di non avermi dato
le ali per volare
ma solo per sognare
e scriver solo cose
che la vita mi fanno meno amara.
Ben pochi accenti o versi al vento sparsi
accendono la fiamma dell’ardore,
quando silente il pianto
appare sul mio ciglio
o risplende la luce con cipiglio
dietro le nubi a frotte in cielo apparse.
Se l’ali avessi avuto degli uccelli
che liberi nell’aria in ogni dove
rivolgono dei sensi la potenza,
avrei di certo corso
la via che porta verso l’infinito
non solo con la mente
ma scavalcando procellose nubi
fino all’ambito soglio
della Divina Essenza.
Ma forse tanto non m’avrebbe dato
in ciel la Provvidenza
ed io, volando come gli altri uccelli,
trovato non avrei
altro rifugio che la terra avara,
ma ricca di sacelli.
Forse son l’ali della fantasia
le leve dell’amore e del dolore
che volteggiando informi
inondano la vita e la natura
In solitudine
Lanugini di nebbia
e lacrime di ghiaccio
sopra deserti amorfi
d'affetto e di pensiero
nel torvo zufolar
del vento che le scrolla
e scampoli di vita
nel fumo rinserrati
di non sopite voglie
cancellano l'azzurro
del cielo ch'era terso,
mentre felpati passi
di spiriti smarriti
nel vago immaginario
si sentono danzare
lungo la riva colma
di pietrame informe
del fiume che straripa
e, desolando, ammanta
di morte la natura.
Sulla tua bellezza
Dal mar sorgendo scintillante, altero
il sol ti cinge di sublime luce
ed io rimango solo prigioniero,
laddove il cielo l’orizzonte cuce,
sul ponte d’un fantastico veliero
da dove l’occhio vigile m’induce
ad inseguir la traccia d’un sentiero
che scema nell’azzurro della luce.
Ti penso allora immersa nel chiarore
che lunga fiata il corpo t’accarezza
nel brulicar di simile splendore
e nascere mi sento la certezza
di diventare celebre pittore
fantasticando sulla tua bellezza.
Funambolando sull’Italia d’oggi
Funambolando sui passati eventi,
mesta Signora di variegata corte,
furente il tono colorare senti
di nuove storie sempre più contorte
che riscoprendo illeciti proventi
vanno danzando sempre più distorte.
Se pur non sembri inclusa tra i morenti,
scemò l’ardire della donna forte,
che resistendo alle procelle insorse
mostrando il cuore aperto all’imprevisto.
Di tanta forza a te non resta forse
che ricordare al mondo ottuso e tristo
la storia d’una gloria che trascorse
e poi finire in croce come Cristo.
Ma se ...
Se d’affetto
la stasi più condita
del mio restare
immoto e neghittoso
nelle accese
contese della vita
mi priva
d’un contatto strepitoso
allora in lotta
sento la ferita,
che sempre dà
lo scontro burrascoso.
L’onda silente
che nel mare plana
la vista allieta
e l’anima risana.
Mi sovvien la morte di Franca
Restò la spoglia immemore
di fatti già vissuti
sul cataletto immobile
di pace conquistata.
Al limitare tremulo
di vita, ormai sparita,
sul labbro non più murmure
un motto, anzi un sorriso,
apparve muto e languido
foriero di bontà.
Cinta di lino candido
or nella bara giace
ma l’alma sua magnifica
nell’aria intorno spande
profumo di virtù.
Se mai di fatti perfidi.
In questa vita torbida,
il segno la colpì
lasciandole nell’anima
una materna ambascia
Lei dalla tomba emergere
farà l’amore suo
che nella vita fulgido
d’avere già mostrava.
Ricordando Franco
Ed or, che pure tu,
le pendici ascese
del cielo tra le nubi,
già nell’alcova dormi
di chi nel mondo fu,
dimmi se le chimere
son vere oppure no,
che tu quaggiù sognasti
e bello ti sembrò
scarabocchiare scene
di conquistate vette
all’ombra dei tuoi guai.
Dimmi se cara ancora
al petto stringi Franca,
che ci precede in alto
e se concede pure
il Padre Eterno in cielo
rinnovellar le fole,
che qui talvolta il velo
del buio le ricopre.
Dimmi se mai potranno
Le stelle ridondare
la luce che qui splende
al tramontar del sole
e se giocare a carte
Iddio concede ancora
per ingannare il tempo,
che forse non esiste,
oppur suonare senti
le trombe dell’oblio
e tace l’infinito
senza speranza alcuna
di quanto s’è vissuto.
A me, che di venire
a salutarti estremo
non mi concesse il fato
ed ancora qui sono
a scrivere e sognare,
alta mi pesa l’ombra
di vita che scompare
nel tramontar d’affetti,
che furono e non sono
che gorghi di ricordi
nella memoria impressi.
Un giorno anch’io verrò
a calpestare i cieli
evanescendo immoto
nell’albeggiar dolente
di tramontati giorni
per viver l’infinito
novello stato informe
e spero allor così
di rivederti allegro
e senza alcun rimpianto
almanaccar vicende
che già passasti in terra.
Nell’anniversario della morte
ii mia madre.
Alto levossi il sole
quel mese di settembre
nel suo ottavo giorno
e, come ancora suole,
correa la gente a mare
ad allungar l’estate,
ma tu giacevi immobile
sul letto della morte
ormai serena in viso,
o madre mia perduta,
ed io piangente accanto
muto restavo inerte
a contemplar lo scempio
del male che ti vinse
e non s’arrese indomito
al tuo lottar sagace.
Nel ricordar quel giorno,
adesso muto resto,
ancor stupito in cuore,
del desio che mi colse
nell’ascoltar quell’ultimo
tuo rantolante spiro.
Avrei voluto darti
la vita che mi desti
il giorno mio natio
e risentir la voce
che sempre m’allertò.
Adesso solo attendo
di giungere da Te
per cingerti d’abbracci
che eterni resteranno
LA VITA NEGATA.
A quale stella appenderò la vita
che non conobbi mai,
a quale nube asciugherò le guance
di pianto mai versato,
se nulla scorgo in cielo
che di ricordo sia
di dolorosi eventi
e la mia mente annega
nel vasto gorgo dell'infame buio?
Io son colui che visse senza vita,
che senza aver natali
la morte l'adottò
e che del dì la luce mai non vide.
A me non resta che sognare invano
rimpianti mai provati
e che, nel nulla aspersi,
al vento van danzando
tra vividi frammenti
di mai raggiunte stelle
Il pane negato
Vacilla la mia mente
ed il mio cuore trema
nel silenzioso gorgo
del tempo che trascorre
se mi si para innanzi
la luce che scompare
d’un giorno senza senso
avvolto nel mistero
di quel che seguirà
e che di sangue tinse
l’umana intelligenza
immersa nel delirio
d’inusitate scelte
e vita rinnegò
a chi null’altro chiese
se non di pane il dono
d’umana comprensione.
Suor Teresa di Calcutta
Anche sull’ali d’un semplice verso,
donna leggiadra dall’umile aspetto,
dimmi se vivi nel cielo infinito,
dove l’eterno riflesso divino
d’amore inonda l’intero creato.
Dimmi se solo contempli felice
l’Eterno Lume che tutto sublima
oppure ancora t’opprime il desio
d’amar la gente che soffre nel mondo.
Come la rosa, splendente di vita
piange al mattino le gocce di brina
Tu certo ancora le lacrime versi
sopra la terra che vedi soffrire.
Porgi pertanto con mani imploranti
al Padre Nostro, che siede nei cieli,
l’umile prece dell’uomo che piange.
Allora un serto di gloria maggiore
s’aggiunga al vanto di madre pietosa,
se dall’altare, che prona ti vide,
ci additi ancora lo specchio divino,
che far regnare nel mondo volevi,
di Carità profonda senza fine,
di Fede immensa e di Speranza arcana.
Alla fine del sogno
Come l'uccello dal sereno canto,
ora balzando tra cespugli verdi
nel rifiorir della natura aulente,
lasciò la mente il risaputo mondo
e sulla rotta di novelli lidi
volò felice nell'azzurro cielo.
A grandi cose espose la memoria
di già passati eventi e più non tacque
l'obliterato mondo del dolore,
sciogliendo al sole un inno di speranza.
Trilli d'argento e d'oro, note soavi,
scene indistinte di future gioie
rifulsero nel cielo con ardore,
il famelico grido cancellando
di belve sempre pronte ad azzannare
nell'intrigata selva della vita.
Non più nel fango il gracidar penoso
delle rane, né più tra spine il turpe
frusciare di serpenti velenosi,
né di gerridi il pullulare osceno,
non più mani ferite nell'ascesa
di vette sempre più scoscese e dure,
non più del pianto il disgustoso senso.
Ma nello stato di raggiunta pace
un improvviso lampeggiar nel cielo
la luce spense e tacitò per sempre
quel melodioso canto della mente.
Solo la Fede resta
Ali di spazio tra le chiazze aguzze
di rombi colorati d’altri tempi
ammantano la mente che soggiace
all’ansia del domani senza meta
nell’ibrido danzare di figure
che son diverse di colore e forma.
Il brulicare sparso ed improvviso
di lucciole sciamanti all’infinito
son le chimere di cristallo opaco
che vagano scomposte, rimbalzando
di picco in picco fino alla rottura
In questo stato l’anima s’immerge
e teme di cadere ad ogni istante
senza speranza nella notte fonda
alla ricerca d’una stella amica
che nel delirio la conforti e guidi.
Solo la Fede allora la conforta
Se giunge silenziosa ma sincera
a ricoprir gli spazi ch’eran vuoti
fino a saldarli con le punte estreme
di storie antiche colorate un tempo.
Allora non più fragili chimere
né lucciole vaganti senza scopo
ma sogni arcani, nell’attesa certa
di mete sempre nuove e mai raggiunte,
d’incanto appariranno all’orizzonte
d’azzurro dipingendo i cirri neri
e luce nuova splenderà nel cielo..
NOTE SULL’AUTORE.
Giuseppe Nasca, chiamato familiarmente Pippo, nasce a Catania il 2 Febbraio 1937 nel periodo “nero” dell’Italia, Frequenta le scuole dell’obbligo ed il Liceo Scientifico a Catania. Si iscrive nella facoltà d’ingegneria di Catania, ma superato il biennio propedeutico, abbandona gli studi per entrare nelle FFSS come capostazione. Attualmente in pensione, vive nell’isola amministrativa di Tremestieri Etneo.
Nonostante l’indirizzo scientifico degli studi e l’attività prettamente operativa, spinto da una passione innata per lo studio delle lettere, continua a coltivare ed ampliare le nozioni acquisite al Liceo, cimentandosi in scritti (racconti, saggi, poesie), che inizia a pubblicare dopo l’entrata in quiescenza (1 Luglio 1996) e partecipando con successo a numerosi concorsi di premi letterari, tra i quali LE ROSSE PERGAMENE di Anna Manna, L’Accademia del Parnaso di Gero La Vecchia ed AKADEMON di Aci Sam Filippo.
Ha pubblicato con LIBROITALIANO WORLD di Ragusa:
“Quando l’alba del tramonto incombe”, una raccolta di poesie in italiano e con ANNINOVANTA- Antasicilia–Onlus:
“Sicilianaeneide”una rivisitazione completa in versi dialettali siciliani dell’omonima opera virgiliana.
Con la casa editrice Akkuaria, oltre al presente volume, ha pubblicato:
“Tutto passa e cambia”, una raccolta di racconti autobiografici;
“Ju fazzu ‘n-soccu mi piaci fari”, un saggio su lingua ed usi siciliani;
“La Fede del Gatto e del Topo”, raccolta di racconti fantastici;
“Lu stranu viaggiu”, un poemetto in versi siciliani;
“Ilaria e Catania” racconti ambientati a Catania;
“Di Tia leggiu lu chiantu”, una rivisitazione in dialetto siciliano delle poesie più celebri del Leopardi;
“C’era na vota nta l’antica Grecia”, rielaborazione dei più celebri miti greci in versi siciliani, preceduti da presentazione in italiano.;
“ L’importanza di chiamarsi Asdrubale”, trenta vicende di non comune cronaca;
“Gli sproloqui di Pippo”, Libertà di pensiero sul freddo ragionamento della convenienza.
“Dare tempo al tempo” (Spigolando su pensieri e sentimenti) – raccolta di poesie in italiano.
“Mamma li Turchi – Un romanzo ambientato nel catanese
Suoi scritti, inoltre, quali racconti, saggi, commenti e poesie, compaiono nelle antologie pubblicate da AKKUARIA in varie occasioni ed altre antologie
Con LAMPIDISTAMPA ha pubblicato:
“I me’ pinseri”, una raccolta di liriche in dialetto siciliano;
“I salateddi”, raccolta di poesie satiriche in dialetto siciliano;
“Scarabocchiando briciole di sogni”, una raccolta di liriche in italiano.
Tutti i volumi sono acquistabili on line, facendone richiesta nei siti interessati ed a AKKUARIA BOOKSTORE