TUTTA CATANIA E DINTORNI IN VERSI
Premessa di Adriana Di Grazia
La Sicilia nel cuore, sempre, nei suoi racconti, nei suoi versi, fonte di ispirazione e dispensatrice di calore, profumi, luoghi densi di ricordi, che danzano eterni dentro la sua anima.
Scrivere per Pippo Nasca, raccontare della sua terra, delle sue tradizioni, verseggiare, soprattutto in siciliano, è per lui un vero e proprio tuffo dentro se stesso, un tornare alle origini, dove affondano radici talmente forti, capaci di far scoppiare tutto ciò che a fatica riesce a contenere.
Carattere battagliero e mai pago, da molti anni mette a disposizione il suo impegno per dare corpo alla prosa e alle tradizioni siciliane, che hanno albori molto lontani e che le varie dominazioni, nei secoli, non hanno indebolito ma rese più forti.
La sua ultima raccolta dal titolo: “Tutta Catania e dintorni in versi”, non è solamente una raccolta di poesie, alcune in italiano, altre in siciliano, per le quali ha sapientemente previsto una traduzione in italiano, per coloro che non fossero addentro al dialetto, ma contiene anche la storia della nascita della Sicilia, con le sue varie teorie e dominazioni, la storia della sua Catania, la descrizione delle località più caratteristiche della regione, concludendo con alcuni cenni geografici.
La sua è, quindi, una esposizione accurata, oltre ad essere un omaggio a questa meravigliosa terra cinta dal mare, che mostra al cielo la roccia nera che stupisce chi la guarda da vicino, baciata dal sole, abbracciata dalla luna nella notte, accarezzata dal vento.
Quando scrive Pippo Nasca segue il suo ritmo interiore, ora frenetico, ora pacato, dove la nostalgia, il sarcasmo e la rabbia, a volte, la dolcezza del presente sono le note più appariscenti.
Come nei versi: “Davanti al caminetto”, monumento del fuoco che gli ardeva nelle vene e di ricordi di un tempo passato.
E non a caso il suo interesse viaggia sulla nascita di questa terra chiamata Trinacria, che la mitologia vuole nasca da un cocuzzolo del monte Olimpo scagliato da Giove contro il gigante traditore Encelado, messo che cadde a spalle in giù nel mar Mediterraneo e le braccia aperte, come un Gesù Cristo.
E’ singolare l’immagine che gli attribuisce di un essere umano crocifisso, le mani allargate, una protesa verso Messina, l’altra verso Siracusa, e i piedi e le gambe verso Palermo.
Sembra quasi di vederlo questo uomo che urla e dalla cui bocca, corrispondente al cratere del vulcano Etna, invia fuoco e fiamme, alla ricerca disperata di una posa più comoda.
Quella che Pippo Nasca percorre, con i suoi versi, è una “passeggiata turistica”, come la definisce egli stesso, nella sua Sicilia. L’eco dei ricordi si sostanzia nel canto dei fiumi, l’Amenano, che “d’argento intriso scorre a lenzuolo”; dell’Etnea, che chiama vulcano malandrino, che “sonnecchiando a volte si risveglia e mostra in cima il pennacchioso emblema del suo potere”; dei luoghi, il Castello Ursino, “come un gigante costruito per fare da sentinella alla città, il Duomo, con il suo “liotru ca s’annaca la cuda”, la Badia di Sant’Agata, “inno di fede e testimonianza dell’arte umana che cercava Dio”; dei personaggi caratteristici, “Cuncittina da Piscaria”, a putiara da piscaria ca s’arricria e ca ridi”, tutta una tattica messa in atto per fare da chiamo a chi la guarda; del carattere che contraddistingue il catanese, “a liscia catanisa”; degli usi “Giucattuli d’autri tempi”, dove il far trovare i giocattoli ai bambini, nel giorno dei Morti, rappresenta un modo per mantenere vivo il ricordo dei cari defunti; della spiaggia calda della Playa dove i “vo cumpra”, extracomunitari approdati sull’isola, con passo lento e silenzioso, percorrono la costa sabbiosa, sotto un sole rovente, e non si dolgono perchè non hanno venduto la loro merce, perché domani ci proveranno ancora.
E poi “L’ombra del mare di Ognina”, dove vede ancora danzare mille promesse e la speranza del giorno che verrà e che placa l’anima, quest’anima tormentata dalle ingiustizie che la sua terra infuocata ha dovuto subire nei secoli, tra dominazioni, terremoti e ricostruzioni, una terra che gli ha dato i natali e che non ha mai pensato di lasciare, per una scelta di vita migliore, come lui stesso asserisce.
La sua città, Catania, forte, che “sbrana a poco a poco la lava che la vinse e la sommerse”, perché ha saputo rialzarsi e ricostruire dalle sue ceneri, straripando oltre i confini, proprio alla stessa maniera della lava e sulla medesima lava. Una città che definisce eterna perché “d’eterna roccia la pelle tua trabocca”.
Ricchi, i suoi versi, di contenuti, di sensazioni, di evocazioni e reviviscenze magiche, in cui i fatti emergono attraverso commozioni forti: “Un pianto che già sfugge……….. e pari na pazzia lu tempu ca mi sfui”. Perché solo questo dialetto vivo, intenso, riesce a dare dimensione e forza alle emozioni profonde.
Se le parole di Pippo Nasca sono riuscite a far palpitare il cuore anche di un solo siciliano e hanno contribuito a fargli apprezzare maggiormente la terra in cui è nato e vissuto, io credo che egli abbia raggiunto il suo scopo.
Adriana Di Grazia
INTRODUZIONE
Per chi non lo sapesse, la città di Catania si trova nella Sicilia orientale. Pertanto mi sembra doveroso omaggiare anche questa meravigliosa isola che si stende al centro del mar Mediterraneo ed ha la forma triangolare, quasi a voler testimoniare la Santissima Trinità.
Era, dunque, doveroso aggiungere in questa raccolta di poesie dedicate a Catania, quelle riguardanti la Sicilia ed in particolare i luoghi cui sono riferite.
Premesso quanto sopra intendo precisare che questo libro altro non è se non un’antologia di poesie da me scritte e pubblicate nel tempo riguardanti la città di Catania ed alcune località viciniori, ubicate nella Sicilia Orientale. Più che antologia preferisco chiamarla una passeggiata turistica, dalla quale emergono descrizioni di posti e località del catanese ed anche pensieri e ricordi da me accumulati nel tempo e ad essi riferiti.
Intendo anche precisare che mi diletto a scrivere sia in italiano , sia in dialetto siciliano. Quindi alcune poesie sono nate in italiano ed alcune pure in dialetto. Rendendomi conto che queste ultime potrebbero trovare qualche difficoltà ad essere lette, mi sono industriato a tradurle pure in italiano. Sicché esse possono essere conosciute anche da chi siciliano non è.
Non nascondo di aver trovato delle difficoltà nel tradurre le poesie, riguardanti la metrica cercando di rendere la traduzione il più fedele possibile al testo. Non parliamo poi delle rime, alle quali ho rinunziato ed è così che un sonetto in italiano diventa una poesia di 14 versi sciolti.
Devo, tra l’altro ammettere che in genere, per quanto riguarda la forma, sono portato a trascurare la rima sia in italiano che in siciliano. La mia attenzione è principalmente volta a curare la tonalità dei versi.
Al fine di far conoscere meglio la Sicilia, Catania e dintorni ho pensato pure di completare con alcuni cenni, il più breve possibili, riguardanti i luoghi e la loro storia. Una semplice trasvolata per comprendere meglio questa terra che mi ha dato i natali e che mai ho cercato o pensato di lasciare per una scelta di vita migliore..
Le poesie che riguardano Catania citta’
Secondo gli antichi Greci la città di Catania fu fondata dai Siculi, un popolo proveniente dal medio oriente, ma molto probabilmente ancor prima da aborigeni, di cui se ne sconosce la storia. Essa come tutte le città dell’antichità sorse sulle rive di un fiume, l’Amenano, e venne cinta da mura protettive. Queste ultime racchiudevano un’area compresa tra l’attuale Piazza Stesicoro e Piazza Duomo e tra via Plebiscito e via Cardinale Dusmet. Si trattava di un territorio molto piccolo, attraversato da un fiume che era l’Amenano. Le suddette mura erano fornite di porte d’accesso, delle quali ci sono rimaste note la Porta di Aci in piazza Stesicoro, ormai scomparsa, la Porta Marina, tutt’ora esistente che ospita la Pescheria, la Porta di Ferro ormai scomparsa e ricordata da una via che sbocca su via Dusmet, la Porta Palermo, che è possibile ancora ammirarla in via Sacchiero nei pressi del Fortino.
Il fiume che l’attraversava entrava in Catania dalle parti di piazza Stesicoro e sversava le sue acque a delta nel mare Jonio, che, dunque, veniva raggiunto da tre distinti rami; uno lo Judicillo (così chiamato perché la relativa zona era abitata da Israeliti), che sboccava nella baia ormai scomparsa e diventata Piazza Federico di Svevia, l’altro, centrale, che attraverso porta Marina sboccava a mare dove adesso vi è Piazza Borsellino, una volta Alcalà, ed il terzo ramo proseguiva verso la “Za Lisa”, dando la possibilità di abbeverare un lussureggiante orto, chiamato appunto Latia Elisia (campi elisi).
Conquistata dai Greci, partecipò alla guerra del Peloponneso che vide contrapposti Sparta ed Atene. Subì la dominazione di Siracusa che ne cambiò pure il nome. Finita la dominazione del tiranno di Siracusa, la città ritornò ad avere il suo nome primitivo, Katane, che ancora oggi conserva e che secondo la glottologia greca significa “grattugia”, ossia terreno rugoso per via dell’aspetto che assume la lava solidificata.
Secondo recenti studi, si ritiene che Catania, nell’antichità, abbia subito in precedenza anche l’impatto con la civiltà egizia e quella minoica. La prima è richiamata per via del traino della “Vara” di Sant’Agata con un lungo cordone tirato dai fedeli, usanza usata dagli Egizi nel varo delle navi. La seconda trae origine dalla morte di Minosse, tramandata come essere avvenuta per tradimento in Sicilia, dove venne per riportare indietro Dedalo approdatovi dopo il mitico volo, durante il quale perse la vita il figlio Icaro.
La città di Catania, oltre ad aver subito tutte le vicissitudini sopra descritte e quelle legate alla storia di tutta la Sicilia, ha dovuto subire anche le angherie del Vulcano Etna, sua delizia e croce, con la conseguenza che il suo aspetto territoriale è stato sottoposto a continue eruzioni e terremoti che hanno continuato a modificarla. E’ soltanto dall’anno 1700 , cioè da dopo l’ultima eruzione del 1669, che l’ha investita e dall’ultimo disastroso terremoto , che Catania ha conservato l’aspetto e l’impostazione che le dette il Vaccarini, che operava quando era in atto il cosiddetto stile “Rococò”.
Di fatto, il centro storico di Catania ricalca nelle sue costruzioni questo stile, che l’annovera per questo tra le città d’arte d’Italia.
La sua mappa attuale corrisponde, grosso modo, ad una via che collega Piazza Duomo con la Montagna (Etnea) intervallata da altre vie perpendicolari alla suddetta via e parallele tra di loro: Via Garibaldi, Via Vittorio Emanuele, Via di Sangiuliano, Via Umberto, il Viale , la Circonvallazione, oltre la quale non è possibile seguirne la continuità, essendo il successivo territorio parte dei diversi Comuni montani con altre logiche costruttive e che sono comunque diventati area metropolitana. Tali comuni sono: Misterbianco, Sant’Agata Li Battiati, Tremestieri Etneo, San Gregorio, San Giovanni La Punta, Pedara
Anche le coste, prospicienti il mare Jonio, hanno subito delle variazioni nel tempo, Esse, un tempo erano sabbiose come lo sono quelle della Playa a Sud. Successivamente ed in varie riprese le eruzioni al Nord le hanno deturpate e rese rocciose poiché la lava in quei punti ha raggiunto il mare. E’ emblematico il caso di Piazza Federico di Svevia, un tempo una baia dove sboccava lo Judicillo e Piazza Mancini Battaglia ad Ognina che un tempo era un lungo ed ampio estuario del fiume Longane, anche esso seppellito dalla lava. Le cronache dicono che quell’estuario era il porto naturale di Catania ed era così grande da poter ospitare l’intera flotta spagnola. Questo fiume nasceva alla Barriera, dove adesso vi sono i Due Obelischi attraversava il Piano di Leucatia il territorio che adesso si chiama Canalicchio e sboccava ad estuario proprio laddove adesso vi è Piazza Mancini battaglia.
Tutta la Catania grecoromana e quelle successive Bizantina, Araba. Normanna, medioevale e rinascimentale sono state sommerse ed inghiottite dalla lava. Solo qua e là emerge qualche reperto, quali, ad esempio, parti del teatro greco e dell’anfiteatro romano. Di tanto in tanto, nel sottosuolo si scoprono meandri e spazi che la lava non è riuscita ad occupare.
La Catania di oggi, che ormai si è inerpicata sulla lava che fino ad ieri l’ha distrutta è avviata a diventare un’area metropolitana insieme ai paesetti a corona citati, che sono destinati a farne parte essendo legati ad essa dalla continuità edilizia sopravvenuta.
Un tocco di modernità è senza dubbio la nascita in atto di una rete metropolitana di trasporto su rotaia con l’ambizione di collegare i punti estremi della città con l’aeroporto civile di Fontanarossa.
La protettrice di Catania è Sant’Agata, cui è intestata la chiesa del Duomo.
Oltre all’aeroporto ed il porto, la città è servita da quattro scali ferroviari: Cannizzaro, Catania Centrale, Catania Acquicella e Bicocca. Quest’ultimo sorge a ridosso della Zona Industriale e serve numerosi raccordi ferroviari.
La città ha anche una squadra di calcio, che in altri tempi ha militato in serie A ed è, pertanto, munita di un adeguato campo di calcio intestato ad uno dei suoi ex dirigenti , Massimino, ricordato con affetto dai catanesi.
Sede di una importante Università degli Studi, completa di tutte le Facoltà previste dalla Repubblica Italiana, citata in passato anche da Torquato Tasso, ha dato i natali a letterati, scienziati ed artisti, che hanno arricchito la cultura italiana, quali Mario Rapisardi, Giovanni Verga, Vincenzo Bellini , Ettore Maiorana ed altri costituendo un sicuro riferimento per il futuro progresso dell’umanità.
ALLA CITTA’ DI CATANIA.
Sempre dentro mi rugge,
o splendida Catania
dalle pulsanti strade
e dai palazzi antichi,
lo specchio del tuo cielo
che la vista m’accarezza
nel vago rimbalzare
di zampillanti luci
sopra la cima cupa
del magico vulcano.
Il tuo dorato bordo,
che cinge la marina
di sabbia verso il Sud
ed il roccioso anello
che frange l’onde al Nord,
ti resero signora
d’un mare sempre azzurro,
in cui ti specchi memore
di mitiche leggende.
Già dalla piazza ,dove
dall’alto del suo trono
barrisce al cielo
il sornione elefante,
la via s’apre dritta
che porta alla montagna,
di cui diletta martire
t’onori d’esser figlia
e son del fuoco spento
della ruggente lava
gli spalti della strada
e l’annerite mura
di splendidi palazzi.
Il territorio a monte,
un tempo ricoperto
dal fuoco devastante
dell’orrido vulcano,
adesso lo sommergi
di case inerpicanti
i clivi ch’eran rudi
e solamente adorne
d’arbusti e di ginestre
Eterna tu sarai
perché d’eterna roccia
la pelle tua trabocca
e nulla al mondo esiste
che eguagli lo splendore
del fuoco ancora vivo
che l’anima t’avvolge
di vivido calore
e l’esser figlio tuo
d’orgoglio mi ricopre
e di stupenda gioia.
Questa parte di Catania chiamata Ognina, prende il nome dal fiume Longane, secondo fiume fantasma di Catania.
Quando la città era poco più di un villaggio cinto di mura che si estendeva dall’attuale piazza Stesicoro al mare, questo fiume scorreva a Nord. Esso nasceva alla Barriera (altro quartiere di Catania) percorreva il piano detto di Leucate, scendeva verso il mare attraverso un “Canalicchio”, oggi diventato un altro quartiere di Catania, ed arrivava dove adesso vi è Piazza Mancini Battaglia. Il suo estuario era molto grande e costituiva il porto naturale di Catania. La sua ampiezza doveva essere effettivamente molto grande se le cronache hanno raccontato che ospitò l’intera flotta spagnola. Una eruzione in grande stile dell’Etna che inghiotti gran parte di questo territorio, coperse il fiume, che continuò a scorrere sotto traccia e sversare in quel punto a mare. Infatti, in quel punto le acque vicino alla costa sono piuttosto dolci rispetto al mare.
L’OMBRA DEL MARE.
Di OGNINA
In questo mare,
che mi sta davanti
nella mente accesa
d’un momento arcano,
vedo danzare appena
mille promesse ancora
e la speranza antica
del giorno ch’è venuto
o d’uno ancora nuovo,
che di venire attende,
dove il germoglio nasce
del rosso più pacato
e del profondo azzurro,
che l’anima mi placa
col suo sorriso ancora.
L’OMBRA DEL LONGANE.
Il Lòngane scorreva in questi siti,
che ricoperse l’Etna vorace;
di rivoli assemblando una fiumara
che raccoglievan l’acque sopra monte
sotto la coltre grigia della lava,
esso nasceva zampillante e rude
laddove la Barriera alta s’ergeva
di rigoglioso bosco ed incidendo
pietrame e zolle, il Canalicchio aperse,
che transitar faceva serpeggiando
sull’ubertoso campo di Leucàte
verso le balze della Picanella,
l’umor della montagna fino al mare,
dove sfociava nel logninio porto.
Di questo breve e favoloso fiume
svelse la fonte e ricoperse il letto
la lava distruttrice del vulcano,
infin domata dall’umano ingegno
che tutta la coperse di cemento.
Barriera, Canalicchio, Leucatia
e Picanello e l’Ognina salmastra,
sono di strade diventate sedi
sopraffatte dall’ombra dei palazzi
e dove piante e pesci tra le rogge
ed animal boschivi un tempo fùro,
ora chiassosa pullulare vedi
la gente tra le macchine svettanti.
Così Catania sbrana a poco a poco
la lava che la vinse e la sommerse
ed osa ancora conquistare i clivi
di quel vulcan che sembra aver deciso
di scatenare altrove la sua forza,
ma che fumando minaccioso incede.
A Sud di Catania, si estende una lunga spiaggia che prosegue fino a quasi la città di Augusta. Tale spiaggia, la cui sabbia è dorata è la famosa Playa di Catania. Al suo ridosso esisteva il cosiddetto “Boschetto” che nonostante le alte protezioni amministrativa , a poco, a poco, è stato fagocitato dalle costruzioni e dalle attività di vario genere.
Oggi lungo la spiaggia, nel periodo estivo, è frequentato da extracomunitari che vendono delle mercanzie adatte alla balneazione. Sono i “vo’ cumpra”.
Il “vo’ cumprà” alla Playa
Di merce onusto e col cappello in testa,
passa e ripassa lentamente al sole,
grama figura che non è molesta,
un uomo nero che tacere suole
e, quanto basta, il lento passo arresta
per chiedere a qualcuno, se lo vuole,
di comprare la merce che gli resta.
D’aver venduto poco non si duole,
riprende il passo sulla sabbia calda
e tra le file d’ombrelloni aperti
scompare come l’ombra balda
d’un musicante in vena di concerti,
per ricercar con aria più spavalda
la banda larga d’altri affari certi.
A Sud di Catania, proseguendo verso Siracusa scorreva e scorre ancora il Simeto. Le due sponde sono collegate da un modernissimo ponte.
Nell’antichità questo era il limite tra Catania e Leontini, un bellicoso popolo, sempre greco, che dette del filo da torcere a Catania ed a Siracusa, che, infine, ebbe la meglio. Tra il Simeto e la città di Catania vi è una grande pianura, la piana di Catania, in parte industrializzata e che durante l’ultima guerra fu teatro della battaglia tra i tedeschi difensori e gli alleati, sbarcati ad Augusta.
AL DI QUA DEL SIMETO.
Al di qua del Simeto, vorticoso
a monte, ma sereno in questo punto
ove si fonde con il mar aperto,
si spande la pianura e sullo sfondo
aderge la gran mole del vulcano
che sonnecchiando a volte si risveglia
e mostra in cima il pennacchioso emblema
del suo potere conturbante e rude.
D’in sopra al ponte che da tempo lega
le sponde limacciose e verdeggianti
si scorge da lontano il brulicare
di caseggiati inerpicanti il monte;
Catania appare e la corolla attorno
di paesetti ad essa rinsaldati.
Laddove forse boschi e campi incolti
regnarono superbi, adesso case
e capannoni vedi nella piana.
Appare certe volte sul vulcano
il rosso vivo, che strapiomba a valle
e si protende minaccioso e cupo
sull’annerito rosso già sopito,
mentre di sabbia nera il ciel s’oscura
e pioggia piove nera che non bagna!
Laddove l’acqua scorre del Simeto
le schiere forse contrapposte in armi
d’antichi Greci di diversa stirpe
si dettero battaglia e queste zolle
di sangue furo colorate invano,
poiché fratelli e Siculi col tempo
divennero gli ellenici coloni.
Qui s’affrontaro pure di recente
le truppe degli Inglesi e dei Tedeschi
ma regna ormai la pace sulle sponde
e solo il rombo di motori s’ode
di macchine veloci come il vento,
che nell’azzurro cielo si disperde.
Accanto al Duomo di Catania, dedicato a Sant’Agata, dall’altra parte di via Vittorio Emanuele vi è una chiesa , sorta sul luogo che la tradizione vuole fosse frequentato dalla Santa in preghiera. La ricostruì il Vaccarini dopo il famoso terremoto. Un vero gioiello del barocco siciliano, detto “rococò”. La chiesa costituiva l’oratorio di un ordine di monache. Rimasto chiuso, è stato ristrutturato e restituito al culto.
LA BADIA DI SANT’AGATA.
Io, quando spinto d’amoroso ardore,
varcai la soglia del portale aperto,
nulla sapevo di codesta chiesa,
né del famoso frate costruttore.
Tenendoti per mano innanzi all’ara
mentre parole sussurravo care
a te, commossa per cotanto amore
(o che fingevi forse solamente),
di lacrime adornando gli occhi neri,
sembrommi eterno quello che non fu
e mi sfuggì l’eterno che davanti
invece mi si ergeva a monumento
d’umano volo d’arte nello spazio,
adorno come favola parlante
nell’ibrido rilievo delle forme.
L’uscio sbarrato per lavori in corso
un giorno di nostalgico ricordo
ad ammirar mi spinse la facciata,
tutta cosparsa d’ombre e di chiarori
che produceva il sole dipintore,
traslato di quel tanto che bastava,
e mi sembrò velluto traforato
l’insieme delle pietre modellate
e delle grate rilevate ad arte.
L’anonimo portale disegnato
tra le bine colonne lavorate
ricco m’apparve nel trionfante assetto
del ritmar fantastico di masse,
progettate convesse e settoriate
dal colonnato a capitelli eterei,
con palme e gigli adorni al posto
dell’acanto sontuoso ma profano
e sormontate dal solenne arcare
del cupolone lucernato in alto
che prodigioso rende quel contesto,
già ricco d’arte e di stupendo aspetto.
Quando accecato di passione entrai
io non notai allor, che genuflesso
non vedevo al di sopra dell’altare,
al limitar del cielo della volta,
in direzione dello sguardo orante
dei santi, a lato in estasi rapiti,
la balaustrata al presbiterio imposta,
quasi un ricamo d’alternati spazi
offerto dalle mani delle suore
e non notai neppure le incensiere
ad arte su pilastri incastonate,
la volta stessa sprofondata in cielo
dal centro della pianta a croce greca,
né la ridesta forza di speranza
e fede che silente ma possente
in alto si levava ed era l’inno
dell’arte umana che cercava Dio.
La via Crociferi, che si chiama così perché è ricca di chiese e monasteri, partendo dalla Piazza del Cardinale Dusmet si inerpica su quello che fu un vulcanello spento dell’Etna fino a raggiungere Via Sangiuliano.
Questa via, prima di essere colonizzata dal mondo cattolico, ospitava dei templi dedicati ai vecchi Dei falsi e bugiardi. La loro trasformazione avvenne lentamente ma nel lasso di tempo intercorrente era diventato il luogo di svago sessuale della Catania cosiddetta “bene”. Quell’arco, si dice, venne costruito abusivamente in una notte per collegare i due palazzi a fianco del signorotto che li possedeva.
Per impedire che il popolaccio venisse a sindacare sui passatempi dei patrizi, nacque la leggenda che di notte un cavallo senza testa percorresse la via terrorizzando la gente. La leggenda acquistò più credito quando un giovinastro, per dimostrare che si trattava di una fandonia, non decise di piantare un grosso chiodo alla sommità dell’arco. Ma nel fare questa operazione, il suo mantello si impigliò nel chiodo e rimase penzolante fino a quando non rovinò a terra morendo. Nella piazza del Cardinale Dusmet vi è un palazzo che oggi ospita il Museo Belliniano e quello di Emilio Greco, dove nacque Vincenzo Bellini.
DAVANTI ALL’ARCO DI VIA CROCIFERI..
Quando quell’arco a tutto sesto vidi
tra due pareti d’edifici steso
al limitare della piazza antica,
ove troneggia il simulacro
del celebrato cardinale Dusmet,
nessun mi colse emozionante senso.
Avevo dodici anni o giù di lì
e quel che più m’attrasse in vero fu
la dominante statua e quella scritta
sul basamento bianco tondeggiante,
che dice di spartir col poverello
anche l’ultimo nostro panettello.
Più tardi nel palazzo alla sua destra,
dove la scuola media frequentavo,
m’interessò la casa di Bellini
che tosto visitai con interesse.
Ma nulla m’attirava di quell’arco
e della sottostante antica strada.
Fu proprio il desiderio di sapere
Come vivesse il Cigno catanese,
che mi spinse ad esplorare attento
i luoghi circostanti alla sua casa.
Allor, passando sotto l’arco, presi
la via che lentamente in vetta sale
al colle sovrastante i “Quattro Canti”.
A destra e manca notai le facciate
di chiese antiche, ma d’aspetto nuovo
per me che le vedevo in prima istanza.
Notavo le colonne, i capitelli,
le bugne, gli acroteri, le cornici
a più cordoni strutte, i frontoni,
i cavi cenobiali e le ghirlande
di pietra sulla pietra rilevate.
A me che a stento leggere sapevo
il desiderio nacque di capire
l’accumulo di templi in quella via,
appunto dei “Crociferi “ chiamata.
… E lessi! Lessi tanto da sapere
i nomi antecedenti di quell’erta,
che furo “Sacra”, “Nuova” e poi del “Corso”,
il travagliato esordio di quell’arte,
i nomi degli artisti costruttori
e di riflesso le vicende alterne
che videro deleta e poi rinata
non solo quella strada, ma Catania.
Sapevo quasi tutto, quasi imperbe,
del barocco catanese e conoscevo
Battaglia, Italia, Amato, Vaccarini,
nonché Di Benedetto e l’opra intensa
del Biscari magnate generoso.
Ancor oggi rincorro i lor fantasmi
Lungo le strade di Catania antica,
dove pure Bellini si aggirò
e le inondò di sogni e di speranze,
raggiunti, solo dopo, in altri siti.
La statua da “Tallara” troneggia in piazza Borgo, una località che nacque a Catania per ospitare i terremotati di Licodia Eubea. In effetti questo luogo era quello dove venivano eseguite le condanne a morte mediante impiccagione. In seguito a tale trasferimento per luogo del supplizio in questione, venne scelta quella che oggi si chiama piazza dei Martiri. Tale tipo di sconto della pena ormai abolita era in auge anche ai tempi dei Borboni e fu li che alcuni patrioti ebbero tirato il collo o furono fucilati. Da lì il nome della Piazza che nacque dopo.
Al centro di questa piazza venne messa questa statua, che altro non rappresentava se non Cerere la Dea delle messi. Ce ne volle di tempo e pazienza per “salvare” questa indegna statua, che il popolino chiamava Pallade, non distinguendo tra le vecchie Dee, che chiamavano tutte Pallade (Pallara in dialetto, da cui l’appellativo di Tallara per indicare una donna di facili costumi , quale si reputava Venere)
“A TALLARA”.
La Tallara, reclusa in piazza Borgo
allora fuori mano ed or centrale
tra il verde aderge di vetuste piante
Ella Demetra rappresenta, madre
pagana allor della natura aulente,
di bionde messi e frutti ritenuta
dispensatrice e somma protettrice..
Il popolo bigotto la confuse
con Pallara , puttana degli Dei,
e sempre con disprezzo l’additò.
Adesso che le donne van discinte
più della statua che ben poco mostra
E del pudor si spense ogni rossore,
la Tallara rimane indifferente
a chi la scorge in quella piazza grande
come una cosa messa lì per caso,
di cui se ne sconosce l’importanza.
Eppure quella stele rappresenta
Non solo il culto degli dei pagani,
ormai sepolto dal novello credo,
ma lo splendore e la bellezza immensa
di questa nostra terra di Sicilia,
che dagli antichi Greci venne eletta
a sede prestigiosa della Dea,
possente manovriera della vita.
Non dico che di serti i cittadini
dovrebbero adornarne il simulacro,
poiché non lece certo l’adorare
divinità che tal non sono e furo,
ma lor compete il conservarlo eterno,
per soffermarsi a meditare muti
su quel passato che riguarda loro
e trarne spunti per futuri eventi.
L’invasione dei Garibaldini fu vista dai Catanesi come il ritorno alla libertà. Per questo motivo il popolaccio decapitò tutte le statue dei vari Re Borboni che adornavano la città distruggendole. Le statue vennero rimosse fino a quando uno dei nostri amministratori post- bellico non considerò di mostrare le statue decapitate come simbolo dell’Unità d’Italia e dell’ acquisita libertà. Fu così che i Catanesi, un bel giorno, videro comparire queste statue, tirate fuori dal deposito.
LE TESTE MOZZE.
Di re borboni con la testa mozza
Catania adorna la marina antica
per ricordar la storica cacciata
di quei monarchi, quando Garibaldi
con mille fanti conquistò Marsala
e vincitor pervenne in questi luoghi
sull’onda del consenso siciliano
o forse di “picciotti” solamente
reggimentati prima dal Cavour.
(Dice qualcuno che La Masa fosse
capo bastone del Palermitano,
espulso dal borbonico governo
e che raggiunse molto tempo prima
del fortunato sbarco la Sicilia
col compito preciso di trattare
con “CHI” poteva più del re borbone.!)
Or mi domando se codeste teste,
che mozze rotolàro per le strade,
simboleggiare sogliono attualmente
l’indipendenza oppur la schiavitù
d’un popolo sovrano spodestato!
Io so per certo infatti che la terra,
che fu di Federico e d’Aragona
e degli stessi borbonici regnanti
ed ancor prima pure dei Sultani,
splendeva di ricchezza e di cultura
ed ora langue nella mota angusta
del cosiddetto mezzogiorno perso,
dopo che fame, bombe ed altri guai
ne fecero una schiava derelitta
Ogni città ha la sua Peppa la cannoniera. I Messinesi rivendicano che questa Peppa fosse di Messina, i Catanesi di Catania ed anche Palermo avanza la sua genitura. Non so se quale altra città . I rivoltosi avevano catturato un cannone che volevano utilizzare contro i Borboni. Quando questi ultimi si fecero avanti per riconquistare la piazzaforte da cui erano stati scacciati a furor di popolo, una donna, detta dopo Peppa la cannoniera accese la miccia della culatta e provocò lo sparo del cannone, che disperse gli assalitori.
A Catania vi è una via a lei intestata, a testimonianza dell’accadimento.
PEPPA LA CANNONIERA
Qui Peppa
(ca fu ditta a cannunera!)
la miccia accese
al provvido cannone
che venne dalla folla
conquistato
e volto contro
la fuggente schiera
dei soldati venuti
a bombardarla.
Una delle opere militari costruite a Catania da Federico II di Svevia fu il Castello Ursino, così chiamato dai Catanesi perché venne costruito all’estremità di un seno di mare per poter difendere la città dai pirati. Qualcuno obiettò dicendo per difendersi dai Catanesi. Qualunque ne fosse la motivazione questo castello venne costruito sopra un braccio di terra che chiudeva un’ampia baia, Nel lato opposto vi sorgeva e vi è ancora una chiesa il cui campanile serviva da indirizzo alle imbarcazioni. Tant’è che la chiesa è indicata come quella “da Madonna o’ ‘ndrizzu”. In questa baia sversava le sue acque un ramo del fiume Amenano, “lo Judicillo”. Sostanzialmente attorno a questo ramo di fiume viveva una comunità israelitica, che gli dette questo nome
Sua maestà l’Etna, pare non gradisse questo assetto del Castello ed un bel giorno incominciò a vomitare lava che si riversò nella baia prosciugandola. Lo Judicillo, sotto traccia, invertì la rotta e ritornò a congiungersi con l’Amenano. La massa di lava stava per investire il castello, ma il fatto non avvenne poiché i Catanesi implorarono Sant’Agata ed esposero davanti alla lava avanzante il velo della Santa, che ebbe il potere di arrestare il fiume di lava, che solidificando trasformò la baia in un’ampia piazza, ossia, l’attuale Piazza Federico II di Svevia.. Questa è la storia del castello Ursino che oggi è adibito a Museo cittadino
Si vocifera che esso, come tutti i castelli di Sicilia, sia abitato da fantasmi. In alcuni punti lo Judicillo venne rintracciato e nella zona nacquero dei mulini ad acqua, che adesso sono stati dismessi.
Lu Casteddu Ursinu.
Unni la chiazza basulata vidi
lu mari attornu c'era
a stu casteddu anticu.
Comu 'n-pileri vinni struttu apposta
pi’ fari sintinella alla citati
supra nu scogghiu in facci di lu mari.
A matula Nettunu,
cumpari di li turchi saracini,
circò di struggirni li mura arditi
cu milli e milli assalti di marusi
oppuru stannu calmu
pi’ l'inimicu sbarcu favuriri.
Stu Diu paganu guerra dichiaravu
a la citati quannu
la so divota Santa figghia a Cristu
in fidi la ridussi,
e quannu vitti d'essiri imputenti
mannò Mercuriu supra la muntagna
p'addumannari aiutu o Diu sciancatu.
- Vistu ca l'acqua - dissi - nun ci poti,
provaci tu cu focu e tirrimoti
a sburdiri li mura du casteddu
e strùggiri accussì Catania tutta. -
Vulcanu, allura, ch'era da cumacca,
li pedi ci cattigghia
a lu durmenti Encéladu,
ca s'arrimina tuttu sutta terra
e fa trimari la Sicilia intera.
Cascaru casi e tanta genti morsi,
ma lu casteddu additta s'arristavu
ca lu guardavu lu divinu amuri.
'Ncazzatu allura comu 'n-saracinu
'n'enormi pala pigghia lu Sciancatu
e focu ammutta contru la citati.
Comu si fussi lu Simetu in china
scurri forti la lava,
c'ammeri jusu llinchi
vadduni e fossi e poi
casi s'agghiutti e strati
finu c' a mari agghica,
mentri Nettunu sbuffa e s'arritira
e un'isula diventa lu casteddu
di focu circundatu e non chiù mari.
Ammutta ancora cu la grossa pala
Vulcanu feru la scurrenti lava
pi struggiri li mura,
ma nun ci arriva ca lu ferma a tempu
lu Velu di la Santa catanisa.
Dopu stu fattu lu furtinu anticu,
puru si 'un c'era chiù d'attornu mari,
chiamatu vinni sempri comu prima
IL CASTELLO URSINO
Dove la piazza vedi in pietra lava,
il mare attorno c’era
a quel castello antico,
Come un gigante venne strutto apposta
per far da sentinella alla città
sopra uno scoglio dirimpetto al mare.
Vanamente Nettuno
in combutta con Turchi e Saraceni
cercò d’abbatterne le mura ardite.
con mille e mille assalti di marosi,
oppure, stando calmo
per favorire l’inimico sbarco.
Guerra le fece questo Dio pagano
quando s’accorse che la santa figlia
Catania in fede a Cristo avea ridotta
E, quando vide d’essere impotente,
mandò Mercurio sopra la Montagna
per domandare aiuto al Dio sciancato.
-Visto che l’acqua -disse-non ci può,
provaci tu con fuoco e terremoti
a rompere le mura del castello
e demolire tutta la città.
Vulcano, allora, che faceva parte
del gruppo di nemici
solletica le reni e pure i piedi
d’ Encelado dormiente,
che si scompone tutto sotto terra
e fa tremare la Sicilia intera.
Ne caddero di case,
ma del castello vinsero le mura,
perché l’Amor divino le guardava.
Incavolato come un Saraceno,
prende una pala enorme il Dio sciancato
e fuoco spinge contro la città.
Come fosse la piena del Simeto
corre forte la lava,
che verso il basso copre
valloni e fosse e poi
case s’inghiotte e strade
finché raggiunge il mare.
Mentre Nettuno sbuffa e si ritira
un’isola diventa quel castello
di fuoco circondato e non più mare.
Spinge ancora con la grossa pala
Vulcano fiero la scorrente lava
per struggere le mura,
ma non ci riesce a farlo,
perché lo ferma in tempo
il velo della santa catanese.
Dopo l’evento il magico castello,
pur senza mare intorno
chiamato venne sempre come prima
Non capita tutti i giorni di vedere un bel pezzo di donna che mostrando le sue gambe nude e ben tornite, faccia il gesto di voler fare un bagno nella fontana dell’acqua al lenzuolo a Catania per fotografarsi e conservare il ricordo.
TU E L’AMENANO.
Quel tanto adorna di stupende forme,
che dalle vesti ancor spavalde mostri,
e quelle labbra turgide, che vedo
nel fiore d’un sorriso,
Tu l’acqua sversi in mente d’un torrente
di zampillanti gorghi,
anzi d’un fiume ch’ è nascosto in parte,
e pesci fai danzare arditi
sull’onde turbolenti
dell’acqua ch’era cheta
e se la chioma, sciorinata al vento,
il bianco seno adorna di disegni,
che mai dipinse mano di pittore,
dall’acqua emerge l’ubertoso scoglio
del desiderio immenso,
che Adamo discoperse in paradiso,
la mela pregustando,
dal serpente offerta.
Ed allora la mela benedico,
ed Eva ed il serpente che lo volle
e la cacciata da quel paradiso,
ch’ ebbe l’effetto di scoprir il sesso
che l’uomo distingueva dalla donna
perché m’impose il desiderio arcano
di ricercarti infine
nel turbinoso mondo dell’incerto
ed ammirarti pure tra le sponde
dell’Amenano, che, d’argento intriso,
scorre a lenzuolo nel finale tratto.
Indubbiamente la figura dell’elefante che fu posto al centro del Piano del Duomo era abbastanza inquietante per quei tempi. Specialmente con quell’obelisco sul groppone e con la faccia verso la chiesa di Sant’Agata, poteva essere considerato un atto sacrilego. Il Vaccarini lo trovò sotto le macerie di un palazzo distrutto dal terremoto, lo recuperò e forte della tradizione che vuole Catania legata a questo animale, lo piazzò lì caricandogli sul groppone quell’obelisco che serviva d’architrave ad un palazzo distrutto.
La leggenda vuole che Apollodoro, un mago di quel tempo catanese venisse inquisito e per questo inviato a Bisanzio. Pare che cavalcando l’elefante si levasse in volo e venisse a Catania quando e come gli piacesse. La faccenda durò fino a quando il vescovo di Catania non lo accompagnasse all’inferno ritornandone trionfante e santo..
Questo elefante di pietra lava ha avuto molti nemici. Uno di questi fu Federico De Roberto che propose di rimuoverlo da quel posto, ma la sua proposta venne respinta a furor di popolo.
I Catanesi amano il loro Liotro.
Lu liotru s’annacau la cuda..
Chi fu?!....Lu liotru s'annacau la cura!
Non si sapi lu comu né lu quannu
né tantu lu pirchì, ma l'avvintura
fu sicura pì chiddi ca la sannu.
La viritati é chissa, vera e crura.
Nun ebbi conseguenzi, 'un fici dannu.
La cunferma la detti la quistura
e lu cunsigghiu comunali, stannu
a la parola di cu sapi e visti.
Lu granni prufissuri, lu parrinu,
lu mavaru, lu storicu civili
'un sannu chi diri di stu fattu. Chisti
sannu sulu di tuttu stu casinu
ca s'annacavu si, cu veru stili!
Traduzione
Il Liotro mosse la coda
Che c’è!?- S’è mossa la coda del Liotro.
Se ne sconosce il come e quando fu,
ne tanto meno del perché si sa.
Ma certo fu per quelli che lo sanno.
E’ vera e cruda questa novità.
Non ebbe conseguenze e niente danni.
La conferma la dette la questura
ed il consiglio comunale, stando
alla parola di chi vide e sa.
Il grande professore, il cappellano,
lo storico civile ed anche il mago
non sanno cosa dire dell’evento.
Codesti sanno solo questo qua:
che la coda si mosse in grande stile.
La fiera dei morti si svolgeva un tempo a Piazza Mazzini. Adesso non ha una sede prestabilita. Ogni anno essa viene cambiata a seconda delle circostanze . Per chi non lo sapesse, a Catania, come in tutta la Sicilia si festeggia il giorno dedicato ai defunti. In questa occasione questi ultimi, sostituendosi alla befana dell’Epifania, portano i doni ai nipotini. Chiaramente questo fanno credere ai figli per rinsaldare gli affetti con le persone care che non ci sono più
Giucattuli d’autri tempi.
All'angulu da chiazza di li morti
supra na lapa ammunziddati stannu
li carritteddi di na vota e fannu
lu stissu effettu d'essiri risorti.
Na vota, quannu c'era fami forti,
li picciriddi annavanu giucannu
cu carritteddu nta li strati. Tannu
nun c'eranu giucattuli cuntorti
e simuventi. Sulu di cartuni
mudillatu cavaddi fermi e tisi
furunu impaiati a carritteddi i lignu
pi’ picca sordi. Ma ora ti n'adduni
ca sunu cari ed hannu li pritisi
d'essiri antichi a prezzu senza signu.
Traduzione
Giocattoli d’altri tempi
Alla fiera dei Morti nella piazza,
sopra il cassone d’una moto l’Ape
alla rinfusa ammonticchiati sono
i carrettini d’una volta e fanno
lo stesso effetto d’essere risorti.
Quando c’era la vera povertà
i piccolini andavano giocando
col carrettino nelle strade. Allora
non c’erano giochini complicati
e semoventi. Solo di cartone
modellato cavalli fermi e tesi
venivano attaccati a carrettini
per pochi soldi. Adesso te ne accorgi
che sono cari ed hanno le pretese
d’essere antichi a prezzo senza fine.
“A liscia catanisa” a volte si manifesta anche nel corteggiare “a putiara”, ossia l’esercente del negozio di frutta e verdura, che abbondano alla Pescheria, la quale le studia tutte pur di acquisire clienti.
La pescheria trova un posto stabile per la vendita del pesce dietro la fontana di “l’acqua a linzolu” fino ad occupare lo spazio della vecchia porta di Catania sul mare, che adesso è stato costretto a ritirarsi un poco.
A Cuncittina da Piscaria
Quannu passu mi talia,
Cuncittina da putia,
chidda dda da piscaria,
ma nun pensa sulu a mia.
Idda ridi e s’arricria
si la chiamu “vita mia”
mentri metti cu’ mastria
li citrola ‘nta statia,
ca cuntrolla e poi tastia
cu la manu ca pazzia.
Ora tutta si mutria
Cuncittina da putia,
ca pigghiavu da scansia
du’ patati c’alliffia.
Datti paci menti mia
pirchì in sutta cazzulia,
poi ti chiama di Vossia,
mentri ammustra camurria.
Chissa è roba di putia
cosa tinta ca schifia,
li citrola ti mania
pi’ chiamari a cu’ talia.
Traduzione:
A Concettina della Pescheria.
Quando passo mi guarda
Concettina del negozio,
quella della pescheria,
ma non guarda solo a me.
Lei ride e si diverte
Se la chiamo “vita mia”
Mentre mette accortamente
I cetrioli sulla bilancia
che controlla ed accarezza
con frenesia
Ora ciondolando va
Concettina del negozio,
che ha preso dalla mensola
due patate e le accarezza.
Datti pace mente mia
perché con te sta civettando
poi ti dà del Vossignoria,
mentre mostra di seccarsi.
Costei è cosa di negozio,
che ti prende solo in giro.
I cetrioli va toccando
per far da chiamo a chi la guarda.
Amuninni a la putia.
Furasteri ca passati
Pi’ li strati catanisi,
risturanti nun circati!
Itivinni nta putia,
cosi boni vi mangiati.
Dda vistuti a com’e gh'è,
a buffetta v'assittati
e cu vinu a tinchité
sdivacatu nte cannati
vi mangiati chistu cca:
quattru alivi ma cunsati
cu lu spezi beddu russu,
quattru ciciri squadati
cu l'ugghiuzzu ca lampia,
quattru favi cucinati
cu la cùdini i maiali,
aggrassati ch'e patati
carcagnoli, mussi e cudi
e cacocciuli impanati
arrustuti supra a braci
e, si tantu poi mangiati,
piscistoccu a missinisa,
baccalaru ch'e patati,
pani i casa friscu i furnu
nta la panza vi calati.
Picca sordi poi pagati
a cumpensu i stu mangiari
Traduzione
Andiamo alla taverna
Forestieri che passate
Per le strade catanese,
ristoranti non cercate.
Andate alla taverna,
cose buone mangerete.
Là vestiti a come capita
Vi sedete a tavolino
E col vino in quantità
Già versato nei boccali
Vi mangiate questo qua:
quattro olive, ma condite
con il pepe bello rosso,
pochi ceci ma bolliti
con l’olietto che lampeggia
poche fave cucinate
con la cute del maiale,
annegati tra patate
calcagnoli, mussi e code
e carciofi già condite
sulla brace cucinate,
e se siete più mangioni
pesce stocco messinese
baccalà con le patate
nella pancia vi mettete
e di pane casereccio
che dal forno venne fresco
nella pancia vi mettete.
Pochi soldi poi pagate
Per mangiare tutto ciò.
POESIE SUI DINTORNI DI CATANIA
A Nord di Catania, dopo il quartiere di Ognina, si estende la località di Aci.
Si tratta di un vastissimo territorio, che, come vuole la tradizione fosse occupato dal delta del mitico fiume scomparso.
In questo territorio sono nati diversi comuni di cui il più grande è Aci Reale.
Altri caratteristici sono Aci Castello, Aci Sant’Antonio, Aci San Filippo, Aci Bonaccorsi, Aci Catena.
Intorno alla figura di Aci i Greci hanno costruito un mito che ha tramandato la fine del fiume per opera dell’Etna.
Caratteristici sono il Maniero di Aci Castello, contiguo a Catania ed Faraglioni di Aci Trezza, ricordati da Omero nell’Odissea
La fini di Jaci
Unni li scogghi stampigghiati a mari
Tu vidi scaramantici e putenti
ddocu., Polifemu e so’ cummari,
ancora prima c’arrivassi a genti,
ca l’occhiu tuttu ci abbruciavu ; pari
ca l’amuri facissiru cuntenti.
trasennu tutti nudi nta lu mari
cu’ l’acqua di lu ciumi prirumpenti.
Appena a Galatea vitti nura,
lu ciumi Jaci sùbitu impazzivu,
ca d’amurusu spinnu la calura
ci vinni , e cu’ viulenza la pigghiavu,
ma cu’ furcuta pala e granni cura
Pulifemu di lava lu cuprivu
Traduzione:
La fine di Aci.
Dove gli scogli stampati nel mare
Tu vedi scaramantici e potenti,
lì, Polifemo con sta sua comare,
ancor prima dell’arrivo di gente
che l’occhio tutto gli bruciasse, pare
che facessero l’amore contenti,
entrando entrambi nudi nel mare
con l’acque del fiume prorompenti
Come vide Galatea tutta nuda,
Il fiume Aci subito impazzì,
che d’amoroso desiderio la caldana
gli venne e la prese con violenza.
ma con forcuta pala e grande cura
Polifemo di lava la coprì
Ulisse e Polifemu
-“NUDDU” sugnu
ca l’occhiu t’annurbavu,
lu Grecu Ulissi,
d’Itaca patruni,
a tia ca fusti
scemu e babbasuni.-
Gridava Ulissi
supra di la navi,
ca già la ripa lesta
abbannunava.
Allura Polifemu
cu l’occhiu lacrimanti
tri pezzi di muntagna
Jttavu a mari
versu di dda vuci.
Satavu in celu l’acqua
fatta a sbrizzi
e parti di lu mari
li scogghi cummigghiavu,
ca misi sunu
a ricurdari ancora
la raggia e lu duluri
di Polifemu,
c’annurbatu fu.
La storia è chista
di li faragghiuni
davanti a Trizza
misi a monument.
Traduzione
Ulisse e Polifemo
-NESSUNO sono
che ti rese cieco,
il Greco Ulisse,
d’Itaca signore,
a te che fosti
scemo e grossa bestia.-
Gridava Ulisse
sopra della nave,
che già la riva lesta
abbandonava.
Allora Polifemo
cu l’occhio lacrimante
tre pezzi di montagna
buttavu a mare
verso quella voce.
Saltò nel cielo l’acqua
fatta a schizzo
e tri punti di mare
di scogli ricoperse,
che messi sono
a ricordare ancora
la rabbia ed il dolore
di Polifemo,
che accecato fu.
La storia è questa
Dei faraglioni
davanti a Trezza
messi a monumenti.
DAVANTI AL MANIERO DI ACI CASTELLO.
Sul ciglio della torre del castello
che troneggiando scruta la marina
di neri scogli adorna ed orli bianchi
la luce mi risplende o forse l’ombra
di giorni ormai confusi nel nevischio
del tempo che trascorre senza posa
e nel ritaglio breve di chiarore,
che, gravido mantello lo circonda
di nuvole assemblate all’orizzonte,
rivivo scene di gloriosa stasi,
che rivestiro queste grigie mura.
L’incedere superbo di soldati
e cavalieri al suono di tamburi
tra l’osannante calca popolana
nel tripudiare di festosi eventi
sull’uscio del portone disserrato,
antiche storie sono del passato
poiché circonda adesso di mestizia
le negre mura l’ombra della morte,
ma resta in cielo fissa quella torre
al vento esposta un poco diroccata
ma che non ha l’aspetto di crollare,
poiché la forza la sostiene ancora
del regresso vigore riemergente
dai fasti antichi del superbo regno
del grande Federico ed altri ancora,
che di vessilli sugli spalti adorni
mostrarono potere e sommo ardire
il mare rischiarando della luce
non solo con le fiamme dei cannoni
ma col fuoco degli animi ferventi.
E storie antiche di passati eventi,
ma più recenti sono, l’ore andate
che trascorrevo sui deserti spalti,
seduto ad ammirare di lontano
dall’asola ristretta d’un traforo
le barche all’orizzonte veleggianti,
mentre ascoltavo quel silenzio immenso
che cingere soleva di mistero
la vivida penombra del castello
e mescolavo sogni ed ansie nuove
all’estasi d’un attimo presente
confuso col passato riemergente.
Ora le mura da lontano ammiro
di questa immane mole di fantasma
né di salire sugli spalti agogno
per ammirare cielo e mare ancora,
poiché mi pesa la fatica e temo
che quell’assurdo stare neghittoso
davanti a scene sorpassate e vane
mi rendono più triste e … non lo voglio!
Ancora più a Nord, a Sud di Giardini-Naxos,vi è questo fiume che è il solo a non aver ceduto all’Etna e di aver continuato a scorrere in superfice nonostante le colate laviche. Le sue acque sono riuscite a scalfire le rocce, creando dei meandri e della immagini veramente stupende. Può essere risalito a piedi essendo l’acqua bassa e a parte qualche mulinello verso l’alto, non offre particolari difficoltà. Recentemente il comune vi ha organizzato degli spettacoli del mondo classico , che hanno avuto molto successo. Esso nasce dal Monte Moio un vulcano spento dell’Etna-
L’ALCANTARA.
Discende, zampillando ed or planando
dal ventre eroso del vulcano domo,
l’acqua sversata nell’azzurro mare
dalla profonda gola, che serpeggia
tra rogge e mulinelli appena grevi.
Dal lacrimar furente degli Dei,
compressi d’ira per l’irruente lava
che videro sgorgar dal monte Moio,
nasce Alcantara scivolante osceno
tra le molate pietre un tempo sorte
dall’infuocata lava a forza incisa
dal murmure tremore della terra.
Sì grande fu l’estrema sempiterna
rabbia per la distrutta amena valle
che l’atra bocca chiusero gli Dei
al vulcanello imperbe che morì,
lasciando solamente attivo e lungi
l’Etna, garante di cessata lava
sul poveretto e lacrimoso fiume.
Se pure più non son l’acque fluenti,
che l’inquinò dell’uom l’opra maldestra,
resta stupendo lo scenario esposto
delle spianate rughe della gola,
che drappeggiando vanno di riflessi
le rive adorne in cima dalle piante,
scarabocchianti di ceselli e graffi
il sovrastante cielo sempre azzurro.
La gola s’apre nella roccia viva
e mostra ad ogni curva nuove scene
che sembrano le stesse nell’insieme
finché si giunge nella grotta estrema,
dove zampilla e scroscia su dall’alto
un getto d’acqua che schizzando forma
ampio lavacro scivolante innanzi
nel turbinar dello scosceso letto.
E’ questo il fonte donde nasce il fiume
che mai s’arrese al fuoco della lava
ed ogni giorno la corrode e scava
versando in mar la nera sabbia estorta.
Le poesie sull’Etna
Indubbiamente a dare lustro ed anche disastri a Catania è senza dubbio l’Etna, il vulcano più alto e più pericoloso di tutta l’Europa. Esso fa parte di quella faglia, che attraversa il Mediterraneo dalle isole di Santorino a quelle Baleari. Lungo questa faglia, oltre all’Etna, sono nati altri vulcani, di cui alcuni ormai spenti, ma non indenni da terremoti. Le isole Eolie ne sono un esempio. Anche il Vesuvio, che adesso sembra addormentato fa parte di questo sciame di vulcani.
Le sue colate su Catania l’hanno più volte distrutta. Però si è notato che da un certo tempo le eruzioni si verificano in zone desertiche e non costituiscono un pericolo. La motivazione è spiegabile. Nel tempo, ma molti anni fa, una parte dell’Etna è implosa creando il cosiddetto Vallo del Bove. Forse in quella occasione avvenne la scomparsa del fiume Aci, ricordata da Omero. Anche a causa di una maggiore fragilità della roccia, nell’ultimo periodo le eruzioni avvengono in questo posto, che essendo, tra l’altro, molto ampio riceve la lava fino a quando il vulcano non si calma.
L’ETNA E L’INFINITO.
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”,
che sulla tela colorando stesi
tra tanti quadri di ricordi obesi
e che d’azzurro sopra il verde estolle
La vista asconde il seno che ribolle
del fuoco che tacere apposta intesi
per non mostrar le rocce quando ascesi
i clivi aspersi di selvagge zolle.
Coprivo in questo modo d’alto mito
le querule pendici del vulcano
che mostrano silenti l’infinito
col quale si confonde piano piano
volgendo al cielo il silenzioso rito
del sempiterno trasognare umano.
PAESAGGIO ETNEO.
Sulle scampate pietre dall’oblio
ritesse il tempo ancora antiche storie
laggiù ,lungo il pendio,
cosparse tutt’intorno di memorie
che nuvola ricopre
quel tanto che la vista lo consente.
Nel rifiorir di verdeggianti zolle
sembiante nuovo appare all’orizzonte
d’un mondo rutilante
che sembra cancellare ciò che fu,
ma subito scompare quel sussulto
di semplici carezze
larvate dal pennello
che spazia prigioniero della vista.
Fu qui che quel lontano giorno il fuoco
sommerse le convalli
e l’inno osceno della morte avvinse
l’umano stato e la natura intera.
Ombra non vide il sole
del solito vociare spensierato
lungo le strade dell’antico borgo
ma l’eco riscoperse
del crepitar di fiamme
nel fiume della lava che scendeva
e fu silenzio arcano
cosparso solo di fumanti cirri
sopra le pietre diventate nere.
Noi e la montagna
Lungo la strada
che scemando sale
nel biancheggiar
di soporose nubi
un mare ondeggia
di ginestre gialle
che il vento le sospinge
e le accarezza
tra rocce nere
di licheni onuste.
Adesso andiamo
comodi seduti
ed il silenzio
di montagna rompe
il ruggito stridente
del motore.
Un tempo
tra le rupi ed il sentiero
che bordeggiando
le sfiorava appena,
ansante percorrevo
questa via,
armato
di scarponi e di bastone.
La cima m’attendeva
del vulcano
l’odore le narici
mi colpiva
ed il silenzio intorno
mi sfiorava
mentre salivo
e mi parea leggero
il passo che era
faticoso e greve.
Andavo a piedi
e mi sentivo forte.
Adesso
corro assiso come un re
ma privo di corona
e senza corte
e forza mi sostiene
che non c’è
Un dì veloce
qui verrò volando
e privo
di pensieri e di sudore.
col vento correrò
su queste balze
e d’oro
sembreranno le ginestre
nello splendor del sole
che le bacia
mentre nel cuore delle rocce
altrove
cavo e silente
entrambi
a valle un fiore ascoltano
cantare litanie
sotto una croce
che sovrasta amica.
… METTENDO INSIEME VULCANO,
MALINCONIA, CAMINETTO E MARGHERITE ...
La sabbia a gocce fusa,
che brontolando espulse la montagna,
si spande nevicando
sui tetti e nelle strade.
Il vento grida mesto tra le case
e pioggia mesce il cielo,
che, memore, ridesta antico duolo
sopito nel silenzio della sera
sui vetri recitando litanie
di cose già passate ma presenti
e mentre tu soltanto col pensiero,
le margherite cogli,
fantasticando apriche primavere
davanti al caminetto che scoppietta,
io sulla tela stendo cieli azzurri
e stelle appunto luccicanti e terse
laddove lo consente il mio desio.
L’Etna ed il Falco
Scivolerò volando sui tuoi fianchi
e colmerò di morsi le tue rocce.
La neve scioglierò dalle tue fronde
che ricoprì di bianco le tue foglie.
Ti inonderò con tutte le canzoni
che mute se ne stanno nel mio cuore
e sorridendo accoglierai fremente
il mio piombare intrepido sul seno
felice di sentire le carezze
del mio piumaggio grigio che ti sfiora.
Io son d’uccelli un elevato sire
che, scorazzando in cielo vado sempre,
con l’occhio vivo e l’altro riparato,
dopo la guerra con l’infame Dio,
che mai mi vinse nell’immane lotta.
Figlio diletto di sovrani Dei
nel tuo stupendo corpo accedo e godo
di tua bellezza e d’ogni tua vaghezza
perché d’averti sempre ignuda agogno
nel letto privo di fogliame ed erbe.
Dentro le ludiche caverne afose
la sete della carne che caldeggi
e del sangue che liquido ti rugge
estinguerò planando sitibondo
e mai non sia che tu non resti priva
d’antiche, care e mitiche leggende
che dette impulso e lustro al tuo splendore.
Tu dea perenne dal perenne calice
che fumigando mostri la tua forza
e dentro ti ribolle senza pace,
se ruvido mi doni ardito nido
tra rocce glabre dal brutale aspetto,
cessar non devi di curar le selve
e loro afflusso d’animali ingrati
che nutrimento son della mia vita.
Temer non devi del mio becco il morso
né degli artigli l’estro mio rapace
sulle tue rocce di durezza estrema
che solo intacca la crudele mano
dello scalpello armata e delle bombe.
Anch’io lo temo per veleno sparso
sulle frondose piante e nelle terre
dove la morte rugge e tutto annienta.
Finché d’eterna luce cingerà la terra,
il sole, che t’inonda e dona a me
la libertà del volo e della vita,
non lascerò le balze e le colline
del tuo roccioso manto e del tuo cuore
e possa sempre la natura amica
mostrare nude le tue forme arcane
per mio diletto e chi t’ammira e bacia.
Cangia lu tempu
La negghia lemmi lemmi
nta muntagna munta
e favula mi cunta
di l’acqua ca ci sfui.
L’aceddu chiù non vola
lu suli chiù non vidi
lu celu chiù non ridi
e chiantu già mi sfui
chinu di spaventu;
lu ventu si jttavu
lu mari si scantavu
la vista già mi sfui.
Già vinni primavera,
ma friddu si pizzia
e pari na pazzia
lu tempu ca mi sfui.
Traduzione
Cambiamento di tempo
La nebbia lemme lemme
sulla montagna sale
e favola racconta
dell’acqua che ci sfugge.
L’uccello più non vola,
il sole più non vedi,
il cielo più non ride
e pianto già mi sfugge
pieno di spavento;
il vento s’è buttato
il mar s’è spaventato,
la vista già mi sfugge.
Già venne primavera
Ma freddo ancor si sente
e sembra una pazzia
il tempo che mi sfugge
Cose di casa nostra.
Sul bianco cono dalla base estesa
alta si leva gongolante in cielo
una nuvola nera e sembra tesa
a ricoprir l’azzurro con un velo
Alla sua base, di rossore obesa,
un rilucente ed infuocato stelo
con essa rugge e mostra la pretesa
d’essere viva luce di candelo.
Un improvviso e cupo rimbombare
di tuoni ne fu chiaro il nunzio solo
e di nero si vide scombinare
il rosso, il verde ed il bianco suolo.
Necessitò, pertanto, cancellare
degli apparecchi totalmente il volo.
Ma resteranno infine i tre colori,
a risplendere al sole, strepitosi
sulla montagna che non ha rancori
U fumu di l’Etna
Sicilia mia,
ca ti stinnicchi a mari
dunni Veniri
vergini nascivu
e l’acqua d’iddu
tutta a furriari
ti cingi
cu lu ciatu
sempri vivu,
tu mai ti stancasti
di jttari
lu fumu
ca ‘nto celu si jsavu
e nesci
da Muntagna
pi’ cantari
la forza da natura
supirchiusa
Traduzione
Il fumo dell’Etna
Sicilia mia
che ti stendi a mare
dove Venere
vergine vi nacque
e l’acqua sua
tutta intorno
cinge
con il fiato
sempre vivo,
tu mai ti stancasti
di buttare
il fumo
che s’innalza in cielo
ed esce
dal cratere
per cantare
la forza del vulcano
malandrino.
Abitare per me a Tremestieri Etneo, significa, praticamente, abitare a Catania Infatti la mia casa si trova a qualche centinaio di metri dalla linea di confine tra Catania e Tremestieri Etneo. E’, intanto, da dire che i paesetti intorno a Catania ed abbarbicati sull’Etna sono stati sottoposti ad una fortissima spinta alle costruzioni edilizie, sicché i comuni di San Gregoio, Sant’Agata Li Battiati, Tremmestieri Etneo, Misterbianco risultano l’area di una vera e propria grossa Metropoli. In particolare, Tremestieri Etneo il cui paese si trova verso l’alto, ha un altro grosso pezzo ti territorio che costituisce un’isola amministrativa incuneata tra i suddetti comuni.
Io abito in questa isola amministrativa , i cui confini sono le strade. Chiaramente il cimitero dove penso di dover riposare in eterno, abbonda di monumentini tutti in pietra lava. Una cosa veramente stupenda ed unica.
A Trimisteri Etneu.
Tri munasteri antichi ammeri susu
e tanticchia di terra ammeri jusu,
di Trimisteri sunu li cuntradi
ca sutta Mungibeddu sunu misi,
scuntrusu e chiacchiaruni comu sempri.
Rivugghi l’aria di profumi antichi
Supra li tetti ca su’ russi e novi
‘nsemi a rumuri sempri chiù ‘nsuttusi
di machini ruzzanti nta li strati,
ca persuru lu nomu di trazzeri.
Traduzione
A Tremestieri
Tre monasteri antichi verso sopra
Ed un po’ di terra verso il basso,
di Tremestieri sono le contrade,
che sotto Mongibello sono site,
scontroso e chiacchierone come sempre.
Ribolle l’aria di profumi antichi
Al di sopra dei tetti che rossi sono e nuovi
Insieme a a rumori sempre pù pesanti
Di macchine ruzzanti nelle strade
Che persero l’aspetto di trazzere.
DAVANTI AL CIMITERO DEL MIO PAESE.
TREMESTIERI ETNEO
Di Mongibello la sudata carne
in questo prato d’anime e di croci,
che tanta parte del pianoro investe.
pietosa ed aggressiva, si distende
a ricoprire l’ossa rese spoglie
di chi nell’altra vita ancora vive,
ruvidi e grigi al sole riflettendo
i suoi cristalli che d’eterno sanno
ed accogliendo ancora con amore
la lacrimosa bruma della notte
ch’ammanta d’infinito la natura
e mostra al cielo l’opera compiuta
d’umane braccia impressa col martello
per esaltar l’ignoto della morte
e ricordar la vita che perdura.
Così tramanda, ricca di passato,
le sensazioni ascose nel suo seno
che furono vissute e, rimembrando,
le vie serene mostra del Signore,
dove il timor s’annulla del domani
e pace troveranno le passioni,
mentre di storia va scrivendo tomi
che rimarranno eterni fino a quando
di rosso il grigio tornerà a brillare
nel giorno estremo di resurrezione.
Se queste tombe di siffatta pietra,
folte di croci e foto d’altri tempi
i simulacri son d’immensa fede
nel final trionfo dell’umano stato,
non cessa certo il rimembrar pacato
che questa roccia vomitata a forza
dal perfido vulcano venne infine
e che nell’aria incombe greve e freddo
il pianto di Proserpina rapita,
nell’imo della terra prigioniera
come quei corpi seppelliti eterni.
Allora un velo di mestizia sale
alto nel cielo da quel campo ameno,
misto ai ricordi cari, suscitati
dal tripudiar d’artistiche figure,
e d’ogni avello adorno di fioriere,
lumini, foto e lastre con scritture,
che sanno di speranza e di rimpianto,
emergono persone d’altri tempi,
non certo grate d’essere sepolte.
Ma se di mesta rimembranza carche
e storia sono queste pietre grigie,
rifulgono di vita queste tombe
e queste croci di sinistra luce
nel rinverdire umani sentimenti
che mai la vita cesserà d’avere,
pur sulla scena viva della morte.
Quasi a ridosso di quella che era la stazione di Castellucio, alla Baia del Silenzio, vi è la mia casetta a mare per l’estate. Una gattina che vive allo stato randagio ha scelto il giardinetto come suo territorio e si è affezionata a chi la frequenta, cioè io, perché le porto del cibo oltre a quello che si procura cacciando anche i colombi sugli alberi. Però non si lascia avvicinare e resta sempre guardinga.
E poi dentro la casa c’è il caminetto a legna …
A jattaredda mia
Quannu mi guarda tutta si mutria
la jattaredda mia di Castidduzzu.
Luntanu si ni staci e mi talia
comu fussi la luna nta lu puzzu.
Ju cercu di tuccarla e si canzia
si l’accarizzu anticchia quannu attruzzu,
ma idda scappa, curri, si furria
e si ripara sempri nta ‘n-cantuzzu.
Vogghiu sapiri finu a quannu dura
sta mania di scappari in sichitanza,
ca divintò pi’ veru na jattura,
lu fattu ca s’incugna e poi si scanza.
Si nun avissi tutta ssa paura
cchiù carizzi acchiappassi di sustanza
Traduzione:
La mia gattina.
Quando mi guarda, si dondola tutta
la mia gattina di Castelluccio.
Lontana se ne sta a guardarmi
come se fossi la luna nel pozzo.
Io cerco di toccarla e s’allontana
se l’accarezzo un poco quando l’avvicino
Ma lei scappa, corre , si rigira
e si nasconde in un cantuccio.
Vorrei sapere fino a quanto dura
questa mania di fuggire sempre
perché è diventato una vera disgrazia.
Il fatto che s’avvicina e poi fugge..
Se non avesse tutta questa paura
Riceverebbe più carezze sostanziose.
DAVANTI AL CAMINETTO.
Sublime sfondo di sognati amori,
l’aspetto mostri di superbo divo
nel rosseggiar dei vividi colori,
pur della fiamma disadorno e privo
dello scenario dei vissuti ardori.
Nell’afa amorfa del calore estivo
non di tua vita l’esistenza ignori,
ma fantasma sei sempre redivivo
perché muto ricordi antiche scene
che ricoperse il tempo già passato.
Simbolo vivo di raggiunto bene,
t’erigi a monumento un po’ larvato
del fuoco che m’ardeva nelle vene
ed è per questo che ti sono grato.
Un altro scrigno della Sicilia è il Val di Noto, dove tra le altre perle spiccano quelle che hanno colpito di più la mia fantasia: Modica e Chiaramonte Gulfi
Modica è un gioiello in cui è attecchito lo stile “rococò” caratteristico nato dopo il terremoto che investì tutto il Val di Noto e Valdemone, ma non tanto i monumenti, quanto la sua campagna mi ha colpito per quel senso di pace che vi regna solcata da quei muri bianchi a secco, disseminati nei campi.
Chiaramonte Gulfi, non ha granché che ricordi il rococò, ma conserva un aspetto medioevale in cui si incastra magnificamente l’attività agricola (produzione olio d’oliva) e culinaria.
Guardannu la campagna di Modica..
'N-filu di petri allividdatu e incuttu
nto virdi da campagna arraccamata
t'addisegna tra l'arvuli na strata.
'N-muru cunsuntu e malamenti struttu
di na casuzza vecchia e diruccata,
lu troncu mozzu di 'n-arvulu ruttu,
'n-ciumi pitrusu quasi sempri asciuttu
davanti a na muntagna spirtusata
sutta a 'n-celu ca pari acculuratu,
nu sceccu ca cuntentu arragghia e mancia,
'n-viddanu ca travagghia scammisatu
sutta a lu suli ca la vita trancia,
'n-acidduzzu ca canta a tuttu ciatu....
Cca tuttu scurri lentu e....nenti cancia!
Traduzione
Guardando la campagna di Modica..
Un filo di pietre livellato e retto
Nel verde dei campi ricamati
Ti disegna tra gli alberi una strada.
Un muro consunto e malamenti strutto
d’una casetta vecchia e diroccata,
il tronco mozzo d’un albero spezzato,
un fiumi pietroso quasi sempre asciutto
davanti ad una montagna bucata,
sotto un cielo che sembra colorato,
un asino che contento raglia e mangia,
un uomo che lavora scamiciato
sotto a quel sole che la vita trancia,
un uccelletto che canta a tutto fiato....
Qua tutto scorre lento e nulla cambia.
A Ciaramunti Gulfi
Accantu a lu ciumiddu di Dirillu,
supra lu munti d’Arcibessu ‘ntisu,
pi’ vuluntà di nobili casatu,
nascivu tempu arreri Ciaramunti
d’alivi e viti circundatu attornu,
ca d’ogghiu e vinu l’arriccheru tostu.
Na vota c’era ddocu l’abitatu
di genti antica dalla Grecia giunti,
ca suvirchiati foru de’ Rumani
e di l’Arabi, c’agghicaru appressu
e chiamarunu Gulfi la citati.
Ma a cancillari tuttu ci pinsaru,
a tempu di li Vespri li Francisi.
Dopu, Manfredi, Chiaramonti dittu,
rinasciri la fici unni è ca vidi
e lu nomu ci detti di famigghia.
Pi’ sarbari di l’Arabi ricodu
lu mottu Gulfi vinni aggiuntu dopu,
ca terra bedda e duci voli diri.
Ccà, lu pirenni panurama vivu
ammustra di luntanu la viduta
di lu mari, li munti e la campagna
e pari la citati nu balcuni,
ca vidiri ti faci lu pinnacchiu
di l’Etna fumarolu e trapuleri
e lu chianoru ca si jetta a mari.
Li petri di li strati e di li casi,
ca sunu allicchittati cu’ mastria,
ricordanu li tempi di Manfredi
e culanu di storicu suduri,
cunfusu cu’ lu ciavuru d’arrustu,
ca ‘nta l’aria si senti stuzzicanti.
Lu porcu ccà s’onura cu sulerzia,
supra la braci cottu a focu lentu,
a furma di sasizza e braciuluni,
accumpagnatu a vinu di sustanza,
ca veni fattu ccà cu la racina.
Cu’ arriva a Ciaramonti s’arricria,
ca veni a panza leggia e si la llinchi
di storicu manciari sapurusu,
gudennusi la vista di l’anticu
e po’superbamenti a tutti diri
ca cu’ mangia lu porcu e bivi vinu,
vinennu a Ciaramunti allegramenti,
cchiù di cent’anni campa e si la godi.
Traduzione:
A Chiaramonte Gulfi
Accanto al fiumiciattolo Dirillo,
sopra il monte d’Arcibessi detto,
per volontà d’un nobile casato
nasceva tempo addietro Chiaramonte,
d’ulivi e viti circondato intorno
che ricco diventò d’olio e di vino.
C’era una volta quivi l’abitato
d’antiche genti dalla Grecia giunte,
che furon sottomesse dai Romani
e dagli Arabi, dopo sopraggiunti,
che città lo chiamarono di Gulfi.
Ma quando i Vespri vennero col tempo,
distrutto venne tutto dai francesi.
Dopo, Manfredi , Chiaramonte detto,
rinascere la fece dove vedi
ed il nome le dette di famiglia.
Per serbare degli Arabi il ricordo,
il nome Gulfi venne aggiunto dopo,
che la consacra terra amena e dolce.
Il panorama, qui sempre ridente,
l’intensità risalta da lontano
della marina, le montagne, i campi
e sembra la città balcone aperto,
che vedere ti fa pure dell’Etna
il murmure pennacchio fumigante
e la pianura degradante a mare.
Le pietre delle strade e delle case,
che sono con perizia modellate,
ricordano la storia di Manfredi
e trasudano storico sudore,
confuso con l’odor di carn’arrosto.
Il porco qui s’ onora con solerzia,
sopra la brace cotto a fuoco lento
a forma di braciole e salsicciotti,
accompagnato a vino consistente,
che fatto vien con l’uva dei dintorni.
Chi viene a Chiaramonte si ristora,
perché digiuno arriva e se ne torna
sazio di storia e di mangiare aprico,
godendosi la vista dell’antico
e può superbamente dire
che chi si mangia il porco e beve il vino,
venendo a Chiaramonte allegramente,
più di cent’anni vive e se la gode.
Motta Sant’Anastasia è un comune che si trova tra Misterbianco e Paternò e deve il suo nome ai continui smottamenti, frane e terremoti un tempo provocati dall’Etna. Protettrice è Sant’Anastasia, la cui etimologia significa niente stasi, ossia è la ripetizione di Motta che significa terra in movimento.
Paese di tradizione antica ha un castello, intorno al quale esso si è aggregato, che, si dice, ospiti il fantasma del famoso Duca di Modica, il Chiabrera, il quale, durante il periodo che Catania era capitale del Regno d’Aragona, ebbe l’ardire di insidiare la regina Costanza, vedova del defunto Re Martino per usurparne il regno e per questo venne catturato ed ucciso.
Na sira a Motta.
Ciuri appassutu nta lu borgu anticu,
pi’ troppu stari senza amuri veru,
ti vitti amministrari pani e vinu
arreri a lu bancuni di la festa.
Cu la faretta longa e la cammisa
di pizzu alabastrinu mi paristi
di lu casteddu avitu la rigina,
c'aspetta travagghiannu l'omu amatu
partutu pi’ la guerra in terra santa.
Di milli fochi allura lu pinseri
la menti s'addumavu comu nenti
e cavaleri anticu nta curazza
cu tantu di pinnacchiu supra l'elmu,
e lu cavaddu jancu pi’ cumpagnu,
mi vitti nta lu bagghiu cu la spada
turnari di la terra di lu turcu,
purtannu appressu li stindardi rutti
pigghiati in guerra all'arabu dumatu.
Sunàvanu li trummi e li banneri
nto celu traballavanu fistusi,
ca riturnavu infini nto casteddu
amuri e paci, cuntintizza e jocu!
Ma forsi chista nun é fantasia,
ma fattu veru di lu tempu jutu.
Cu sapi quanti voti si grapéru
li tampunati porti di ssa rocca,
ca foru chiusi pi’ la guerra in corsu
e quanti dami di l'anticu tempu
filici s'abbrazzaru nta lu pettu
lu cavaleri anticu ca turnava
o forsi li capiddi sparpagghiaru
di ciniri pi’ chiddu ca 'un turnavu!
Cu sapi quanti voti ssi straduzzi,
tutti cuntorti e stritti tra li casi,
di genti s'affuddaru ca curreva,
tutta scantata versu lu casteddu,
ca di luntanu vittiru arrivari
lu saracinu ca sbarcò di friscu
e quantu sangu e lacrimi virsati
bagnarunu ssi bàsuli di lava
o quantu soni e puisii d'amuri
nta l'aria si livaru e notti e jornu.
Centu e chiù assai di centu sunu l'anni
ca passaru di quannu ssu casteddu
e ssi straduzzi intornu fatti foru
supra la rocca ca la chiana guarda,
na vota virdi e immaculata ed ora
di casi e strati trapuntata tutta.
Ma petri e borgu sunu ancora vivi,
pirchì di storia pàrranu silenti
e mura e strati sunu cantu vivu.
Ca tu non cangi e muta resti ddocu,
petra tra petri cu lu cori friddu,
comu ssi casi e ssu casteddu anticu,
unni ti specchi e ti cunfunni tutta,
mi piaci forsi chiù d'ogni autra cosa
pirchì mi spingi menti e cori ancora
a cosi novi ca sunnai di fari
e lu pinseri mi s'adduma tantu
e cussì forti ca disiu m'appaga
e lu ristari cca sulu a guardari
nun é turmentu o dulurusu statu
ma sognu beddu e spiranzusu arrivu,
pirchì di puisia ti vestu tutta,
tu ca si nuda d'ogni sintimentu
e forsi dintra astuti insanu focu.
Traduzione
Una serata a Motta
Fiore appassito nell’antico borgo
Per troppo stare senza amore vero,
ti vidi amministrare pane e vino
Dietro al bancone della festa messa
Con la faretta lunga e la camicia
di pizzo alabastrino mi sembrasti
del nobile castello la regina,
che aspetta lavorando l'uomo amato
partito per la guerra in terra santa.
Di mille fuochi allora il mio pensiero
la mente l’accendeva come niente
e cavaliere antico con corazza
con tanto di pennacchio sopra l'elmo,
ed il cavallo bianco per compagno,
mi vedi nel cortile con la spada
tornare dalla terra dei Saraceni,
portando meco gli stendardi rotti
sottratti in guerra all'arabo domato.
Suonavano le trombe e le bandiere
nel cielo traballavano festose,
che ritornava infine nel castello
amore e pace, contentezza e gioco!
Ma forse questa non é fantasia,
ma fatto vero del passato tempo.
Chi lo sa quante volte s’ apersero
le tamponate porte della rocca,
che furon chiuse per la guerra in corso
e quante dame del tempo antico
si strinsero felici al proprio petto
il cavaliere antico che tornava
o forse tristi sparsero i capelli
di cenere per quello ch’era morto!
Chissà le volte quando quelle stradette
tutte contorte e strette tra le case,
di genti s'affollaron che correva,
verso il castello tutta spaventata
perché lontano videro arrivare
il saraceno che sbarcava lesto
e quanto sangue e lacrime versate
bagnarono la lava delle strade s
o quanti suoni e poesie d'amore
nell'aria si levaro e notte e giorno.
Cento ed ancora di più sono gli anni
che passaro da quando quel castello
e le stradette intorno furon fatti
sopra la rocca che la piana guarda,
verde una volta e immacolata ed ora
di case e strade trapuntata tutta.
Ma pietre e borgo sono ancora vivi,
perché di storia parlano silenti
e mura e strade sono canto vivo.
Che tu non cambi e muta resti lì,
pietra tra pietre con il cuore freddo,
come le case ed il castello antico,
dove ti specchi e ti confondi tutta,
mi piaci forse più d'ogni altra cosa
perché mi spingi mente e cuore ancora
a cose nuove che sognai di fare
ed il pensiero mi s'accende tanto
e così forte che disio m'appaga
e lo restare qua solo a guardare
non é tormento o doloroso stato
ma sogno bello e speranzoso arrivo,
perché ti vesto tutta di poesia,
tu che di sentimento appari nuda
e forse dentro spegni insano fuoco.
Siracusa, come Catania, venne colonizzata dai Greci. Bisogna sapere che in Grecia vi erano due grandi potenze Sparta ed Atene rivaleggianti tra loro. Ebbene Siracusa e Catania furono colonizzate da due parti in lotta tra di loro. Tale lotta si protrasse anche in Sicilia che venne coinvolta nella guerra detta del Peloponneso.
La città di Siracusa dominò per lungo tempo in Sicilia, finché non venne conquistata dal Console romano Marcello, che, non potendo conquistare dal mare difesa da Archimede con i suoi specchi ustori, fece sbarcare dalla flotta i legionari più a Sud di Siracusa e l’invase proprio attraverso il castello Eurialo lasciato sguarnito dai Siracusani, illusisi che i Romani avessero rinunciato a conquistare la città.
Il Castello Eurialo era costituito da una doppia cinta di mura, un interna ed altra esterna, entrambe fornite di porte. Dopo aver superato la cinta esterna con una difesa morbida, gli assalitori venivano a trovarsi in un vallo di mura laterali alla mercé dei difensori. Per i mezzi di allora era impossibile poter espugnare il Castello Eurialo. Avvenne, perché i Siracusani durante la notte lo lasciarono indifeso e senza sentinelle convinti che i Romani avessero rinunciato all’impresa.
SULLE ROVINE DEL CASTELLO EURIALO
DI SIRACUSA
Il tempo ingiuria aggiunse
al martellar frenetico del ferro
ed or laddove di memorie intonso
s'ergeva il mesopergo
il rovo alberga verzicando rude
le modellate pietre.
Né più la mole riguardante il piano
il sommo acceca limitar del colle
nel brulicar di nubi passeggere,
né sulla corte coronata attorno
d'asserragliate porte
il sole accende il basolato glabro.
Non più d'armati o ruvide donzelle
ad opre intente di rimosse pietre,
non più di fabbri assorti
nel laborioso speco, il trafficare
intenso spezza arcano
il rigido scomparto del maniero.
Laddove mura si levaro in alto
la selva regna distruttrice e viva
che tutto immerse nell'oblio profondo
orme stampando nuove
di sopraggiunte belve
mentre nel cielo il volo
cupo si leva di gracchianti corvi.
Lubrico il cielo incombe
sulle gramaglie traforate solo
da luce frastagliata nella rocca
che un dì superba eccelse.
Cinta di serti e fiori
cupa s'aggira tra le morte pietre
la cancellata speme
di rifiorenti fasti, ma ricordo
all'occhio balza di passata gloria.
Su queste mura pianse il fiero duce
che schiava a Roma rese la città,
mentre Archimede ai Lari s'immolava
e su quell'ara l'orrida cadeva
caligine del tempo.
Solo il fantasma di ricordi frali
e lo strisciar di serpi tra le pietre
ormai non regna dove
d'eterno e forte il suol si cinse un tempo
e l'amarezza resta dell'inconscio
che nel presente trova ogni cagione.
Le fiumare del messinese, quando le piogge imperversano, creano degli smottamenti. Il paesetto di Giampilieri ne fu vittima illustre
Uno dei terremoti più disastrosi più recenti è stato quello subito da Gibellina
GIAMPILIERI DOPO …
Ali d’immenso spazio
sfuggirono dal monte
tra lo stormir di piante
e lo sciamar di stelle,
sbranate dalle nubi.
Appare all’improvviso
nell’aria trista e muta
d’un giorno mai voluto
la scena dell’orrore
mentre cantando andava
la pioggia sulle case
sommerse dalla mota
precipitante a valle.
Laddove il verde manto
della natura viva
splendeva di riflessi,
adesso il grigio appare
della franata terra
che l’antistante mare
di torbido colora.
RICORDANDO GIBELLINA.
Sulle dirute pietre impresso appare
l’antico fasto di consunte case
nel muto abbraccio della morte infame,
che narra al vento il torbido tremare
di quella terra che superba cinge
la corrugata mole d’Appennino.
Ritorneranno certamente infine
ad essere rifatte queste case,
i campanili e le distrutte chiese,
ché l’opra tosto ferve del Governo
anche durante lo sciamar del sisma
tra le spaccate zolle del terreno,
mentre in Sicilia Gibellina giace
Al verificarsi della colonizzazione Greca, i Siculi, popolo che abitava di già la Sicilia furono costretti ad abbandonare le coste e trovare rifugio all’interno dell’isola fondando vi delle città. Un esempio è Morgantina ed anche Butera che prende il nome del Re siculo fondatore Bute
A BUTERA, CAPITALE D’UN REGNO CHE FU.
Dai colli intorno la figura emerge
D’un mitico guerriero d’altri tempi
che con la nuda spada tra le mani
guidò superbo la sicania gente.
Di Bute , parlo, mitico sovrano
d’antico stampo della nostra terra,
che fieramente oppose resistenza
all’invasore greco ed africano.
Egli, lasciando i lidi ormai perduti
in mano agli invasori tracotanti,
al centro s’arroccò della Sicilia,
col popolo sicano tra le rocce,
Butera lo ricorda col suo nome
Ed ora funge, memore di storia,
da testimone a quella civiltà,
che ci donò Pantalica porosa
e Morgantina di gloriosa fama,
nonché l’immago dell’eroe Ducezio,
che morto volle Atene vincitrice..
Pur se grondante di passati fasti,
ormai negletta e sconsolata giace
l’antica e ricca terra di Sicilia,
rubella d’africani, greci, turchi,
romani ed altre genti assatanate,
illusa sempre d’essere fregiata
d’amor profondo e di superba stima.
Ma da quei colli e le scoscese valli,
percorse da torrenti vorticosi,
dai quali emerge quello spettro antico,
un grido s’ode di corrusco accento
di speranzose voglie di grandezza,
che mitico diffonde il sacro credo
di chi difese della patria il suolo.
Butera vive, dunque, ricordando
quel re che simboleggia lo splendore
di questa nostra terra di Sicilia,
difesa con ardor dall’invasore
ed or, perenne rimembranza e fiamma
di civiltà futura, altera mostra,
nel dare impulso di calore e pregio
alla cultura antica e pur moderna
del mondo letterario di Sicilia,
col celebrar la fama ed il ricordo
del figlio Fortunato Pasqualino,
ad illustrare emerso come un faro
la vita sempre viva del suo mondo.
NASCITA DELLA SICILIA
Come nacque la Sicilia? Purtroppo non è dato saperlo con certezza. Sicuramente la sua nascita è legata alle teorie legate alla conformazione di tutte le altre terre che esistono nel mondo e le ultime hanno la pretesa di essere più scientificamente precise.
Ogni popolo ha elaborato le sue teorie più o meno fantasiose e, basate sull’elemento teologico e fideistico.
Secondo la Bibbia di retaggio ebraico Dio in sette giorni creò il mondo, anzi l’universo intero, uomo compreso. Ad un certo punto si incavolò per il cattivo operare dell’umanità e scatenò il diluvio universale che dette origine alle terre come adesso sono. Teorie quasi simili hanno alcuni popoli dell’altra parte del globo terrestre. Tutte parlano di un diluvio universale.
La Sicilia, pertanto, secondo la religione ebraica si è formata per caso in seguito al diluvio universale.
Secondo la mitologia greco-romana in principio c’era il caos dove convivevano due elementi il cielo e la terra, i quali si sposarono e dettero alla luce due generazioni: una , quella dei Giganti, che erano cattivi e l’altra degli Dei, capeggiati da Giove che erano buoni. Vennero a diverbio, Non mi dilungo a dire come e perché delle alterne vicende, dicendo solo che vinsero i buoni e che i giganti vennero tutti puniti ai … lavori forzati. Ci fu chi fu messo a sostenere il mondo intero e chi anche condannato a sostenere pure la Sicilia.
In base alla mitologia, sembra che Giove, assiso sul monte Olimpo in Grecia, si accorse che un certo Encelado, un gigante che aveva fatto il doppio gioco parteggiando per Giove, silenziosamente stava per dare la scalata al cielo con la ferma intenzione di detronizzarlo. Giove, preso un cocuzzolo del monte Olimpo lo scagliò sul traditore, che cadde nel bel centro del mar mediterraneo con le spalle in giù e le braccia aperte come un Gesù Cristo con sopra il grosso masso che aveva provocato la sua caduta. Ed ecco che ne venne fuori l’isola Trinacria (nome dato alla Sicilia) così come si trova adesso, ossia d’un uomo che sembra crocifisso con le mani una verso Messina e l’altra verso Siracusa ed i piedi e le gambe verso Palermo. Naturalmente nel cadere cominciò a gridare e dalla sua bocca, corrispondente al cratere del vulcano, cominciò ad inviare fuoco e fiamme ed ancora oggi, quando si muove cercando una posa più comoda continua a vomitare lava. Nulla sapevano i Greci della rotondità della terra e pensavano sostanzialmente che la terra fosse piatta e limitata a quanto era dato loro vedere.
Secondo le più avanzate teorie moderne, sulla scorta di quanto avviene per altri corpi celesti, sembra che la terra altro non fosse se non un’ enorme massa di fuoco, proveniente probabilmente dal sole, che subendo la sua attrazione cominciò a ruotargli attorno ed a ruotare su se stessa assumendo la forma di una sfera. Questa enorme quantità di fuoco, grazie ai movimenti sopra descritti, cominciò a raffreddarsi esternamente, dando luogo ad una massa solida che galleggiava sul fuoco conservatosi all’interno. Successivamente, questa massa solida si frazionò in placche continentali, che navigando sul fuoco dettero origine ai continenti attuali.
Due di queste placche, quella euro-asiatica e quella africana restarono quasi unite tra di loro e semplicemente separate da un grande lago corrispondente all’attuale mar Mediterraneo, formatosi grazie agli elementi atmosferici scaturite dalla lontananza dal sole.
Questo enorme lago per un fenomeno simile a quello del mar Morto e del mar Caspio, a poco, a poco si prosciugarono dando luogo aduna enorme pianura che collegava l’Eurasia e l’Africa. Pertanto si ipotizza che molti elementi sia animali che vegetali fossero liberi di circolarvi. Tuttavia, poiché le due masse continuavano a spingersi tra di loro, ne nacque una lunga faglia sulla crosta terrestre che partendo dalle isole di Santorini (Grecia) alle isole Baleari (Spagna) dette luogo ad eruzioni magmatiche che ancora sussistono ed in parte sono scomparse creando una rugosità eccezionale, quale i Carpazi, le Alpi e gli Appennini. Contemporaneamente vi erano delle scosse telluriche di una certa consistenza che ancora oggi sussistono di tanto in tanto. Una di queste scosse telluriche particolarmente forti, creò la frattura dello stretto di Gibilterra, provocando lo sversamento delle acque dell’oceano atlantico nell’area mediterranea, da materializzare con la tradizione del Diluvio Universale, ipotizzato dalla Bibbia.
Dunque secondo questa teoria moderna, non solo la Sicilia, ma anche le altre terre emerse, compresa l’Italia altro non sono che la conseguenza del corrugamento della crosta terrestre e da un lento ma sicuro e traumatico fenomeno di avvenimenti atmosferici e tellurici.
Le prove scientifiche di tale teoria, scaturiscono dai giacimenti di petrolio esistenti sotto il fondo del mar mediterraneo, la cui esistenza presuppone quell’altra di quantità boschive preesistenti, ricoperte dalla melma marittima e trasformatesi in carbonio liquido.
Inoltre, da quanto è dato sapere sia la terra che altri corpi celesti, come ad esempio la luna che è stata esplorata dall’uomo, hanno in comune la stessa composizione.
CENNI STORICI
Partendo dai presupposti della teoria scientifica testé accennati, sicuramente la Sicilia venne abitata fin dagli albori della sua nascita anche dagli uomini, ma non esistono documentazioni in tal senso.
Le prime notizie certe ce le hanno trasmesso gli antichi Greci, che basandosi su tradizioni orali hanno lasciato scritto che i primi abitatori dell’isola formalmente furono i Sikulos, un popolo proveniente dall’Asia ed esattamente da una località posta tra i fiumi Tigri ed Eufrate, che emigrò verso occidente. Ad un certo punto, sembra nei Balcani, questo gruppo di suddivise in due parti: una proseguì il suo viaggio deviando verso il mare e da lì raggiunse l’Italia meridionale e proseguendo verso sud dalle coste della Calabria si imbarcò e raggiunse la Sicilia. Si trattava dei Sicules.
L’altro gruppo continuò la sua strada fino a raggiungere la Spagna in una località dove scorreva il fiume Sika. Pare che da lì, imbarcatosi con dei navigli, avrebbe raggiunto la Sicilia. Si trattava dei Sikani.
Dicono i Greci che Sicules e Sikani, che forse all’inizio si ostacolarono a vicenda, alla fine divenissero un popolo che abitò per primo in modo autoctono l’intera isola.
I Greci, popolo di navigatori, considerarono quindi quel popolo come aborigeno e, stando alla forma triangolare dell’isola chiamarono quest’ultima Trinacria.
La tradizione vuole che anche i Fenici, un popolo di navigatori. si mossero verso la Sicilia alla ricerca di porti d’appoggio alla loro attività marinara. Un altro popolo, quello degli Elimi, proveniente dalle coste dell’attuale Turchia si aggiunse a Greci e Fenici, di modo che, alla fine la Sicilia venne abitata dai Siculi costretti a trovare rifugio all’interno dell’isola, ai Greci che si stabilirono nella parte orientale, i Fenici in quella centrale e gli Elimi ad occidente.
Non è escluso che anche le civiltà cretese ed egiziana abbiano avuto una precedente loro influenza sull’isola, lasciando delle tracce che di tanto in tanto emergono.
Ovviamente, queste popolazioni furono sempre in lotta per avere il dominio di tutta l’isola, finché non comparve all’orizzonte Roma, che ne fece una provincia dell’impero. Da quel momento la Sicilia diventò legata alle sorti dell’impero romano, subendone le diatribe politiche e le invasioni barbariche. Quando quest’ultimo si suddivise in impero d’occidente ed impero d’oriente La Sicilia passò sotto la dominazione di quest’ultimo.
Successivamente essa subì l’invasione degli Arabi che ne fecero degli emirati indipendenti in modo incisivo fino al momento che non sopraggiunsero intorno all’anno mille i Normanni che la conquistarono e l’aggregarono al Sacro Romano Impero. Quando quest’ultimo crollò e l’Italia tutta diventò un insieme di stati sotto la dominazione di Spagnoli, Francesi ed Austriaci, la Sicilia toccò agli Aragonesi (Regno d’Aragona e Sicilia) durante il quale la città di Catania ebbe per l’unica volta nella storia la funzione di capitale del suddetto Regno. Agli Aragonesi si opposero gli Angioini, che furono a loro volta eliminati, finché la Sicilia, aggregata prima al Regno sabaudo, successivamente venne affidata ai Borboni che fondarono il Regno delle due Sicilie. Dopo Garibaldi e le guerre d’indipendenza d’Italia, la Sicilia ritornò ad essere aggregata all’Italia, diventando attualmente una Regione Autonoma della Repubblica Italiana.
Ovviamente tutte queste vicende storiche hanno influito in maniera molto profonda sulla realtà siciliana, sia nel campo sociale che in quello architettonico, che è possibile rilevare, avendo ognuna delle dominazioni, lasciato delle tracce consistenti
CENNI GEOGRAFICI
La Sicilia ha la forma di un triangolo isoscele al centro del Mediterraneo,
La base è bagnata dal mare Jonio e guarda ad oriente. Degli altri due lati, quello a Nord è bagnato dal mar Tirreno e l’altro a Sud è bagnato dal tratto del Mediterraneo che viene chiamato Canale di Sicilia e guarda l’Africa.
Qualcuno ha azzardato l’ipotesi che la famosa porta di Ercole venisse considerata dagli antichi Greci non lo stretto di Gibilterra, ma proprio questo ampio canale, ipotizzando che mai, allora, si avesse conoscenza dell’estremità occidentale del Mediterraneo.
Le tre punte del triangolo vengono chiamate: Peloro, Passero e Lilibeo
Il terreno all’interno piuttosto pianeggiante e collinoso ha dei gruppi di agglomerai montagnosi : I Nebrodi nel messinese, gli Iblei a Sud, le Madonie ad occidente e gli Erei al cenro.
Vi sono dei fiumi quasi tutti a carattere torrentizio. Ad oriente i più noti sono l’Alcantara ed il Simeto alimentato da due affluenti che sono il Dittaino ed il Gornalunga. Essi nascono tutti dall’Etna. Famose sono inoltre le fiumare che scendono verso il mare dai Nebrodi. Ad oriente ha una grande rilevanza il Mazara che, che sboccando nel mare ad estuario è un ottimo riparo per le imbarcazioni.
Altri fiumi esistevano una volta che sono scomparsi fagocitati un po’ da eventi naturali , un po’ dall’azione dell’uomo. Tra essi restano famosi il Porcaria e l’Oreto su cui, praticamente oggi si estende Palermo, il Longane e l’Amenano distrutti dalla lava dell’Etna. Pare che un altro mitico fiume esistesse distrutto pure dall’Etna: il fiume Aci a Nord di Catania.
I tre lobi ai tempi dei Normanni vennero chiamati Val di Mazara, Val di Noto e Val Demone. Attualmente la Regione Siciliana che gode della cosiddetta autonomia, ha per capoluogo Palermo ed è suddivisa in nove province, che però sono state abolite, pur avendo ancora un riferimento di luogo. Pertanto mi limito a citare le città più importanti: Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Enna, Siracusa Ragusa, Catania e Messina le quali erano i capoluoghi di provincia.
Vi sono in Sicilia molte località che ricordano i riferimenti alla sua storia.
Particolare rilevanza pertanto ha in Sicilia l’attività turistica ed alberghiera. Altre attività rilevanti sono quella agricola della produzione del grano, dell’olio d’oliva e degli agrumi, quella industriale e quella commerciale.
Le poesie relative alla Sicilia in generale
A LA SICILIA
Sicilia mia stinnicchiata a mari,
dunni Veniri vergini nascivu,
guardannuti cu’ l’occhiu sempri vivu
mentri curreva lesta versu Cipru,
e celu ed acqua tutti si tingèru
di chiù culuri rilucenti e beddi,
linchénnuti di ciuri a tinchité. ,
Tu, nun ti stancasti mai di cimmari
lu fumu, ca lu celu azzurru allorda,
niscennu da muntagna pi’ cantari
la forza di lu focu sbuvattatu
ca rigina ti faci di lu munnu.
Lu suli ca ti vasa la matina
la luna ca t’abbrazza nta nuttata
li venti ca t’arrizzanu la peddi
ti fannu bedda duci di sustanza
e ciàvuru tu spanni nta lu celu
di zàgara e di ciuri prufumati,
ca mancu lu Parnasu si lu ‘nsonna. .
Lu Pilu d’oru di Missina ‘ntisu,
assemi a chiddu Passareddu dittu
e l’autru Lillu beddu chiù luntanu,
tri posti sunu, dunni li tri Ninfi
ti ficiru ballannu cu’ tri punti
e fu di tannu ca tu fusti terra
d’amuri, di grannizza e di sustanza.
La terra scarpisata malamenti
di gintazza vinuta d’ogni parti
di chiantu ti vistèru e tu, mischina,
la testa sullivasti du trisceli
e la vincisti cu’ lu to’ valuri.
Figghiu ti sugnu di mudestu cetu,
ma vivu sulamenti cu’ spiranza
ca l’ossa tu mi sarbi nta lu pettu.
Traduzione
Alla Sicilia
Sicilia mia che ti stendi a mare,
dove Afrodite vergine vi nacque
sfiorando te con l’occhio sempre vivo
mentre correva lesta verso Cipro
e il cielo e l’acqua tutta di colori
ti pingevano rilucenti e belli,
riempiendoti di fiori in quantità.
Tu non cesserai mai di calmare
il fumo che l’azzurro cielo sporca,
per cantar dalla Montagna uscendo
la forza della lava zampillante,
che ti fece del mondo la regina.
Il sole che ti bacia la mattina,
la luna che t’abbraccia nella notte,
Il vento che la pelle t’accarezza,
ti fanno sempre dolce e di sostanza
e spandono nel cielo il tuo profumo
di zagara e di fiori profumati,
spalle poggerò morendo
che nemmeno il Parnaso se lo sogna.
Il Peloro a Messina nominato,
insieme a quello Passero chiamato
e l’altro più distante il Lilibeo,
tre posti sono dove le tre Ninfe
ti tessero ballando con tre punte.
E fu d’allora che la terra fosti
d’amore di grandezza e di sostanza.
La terra malamente calpestata
da gentaccia venuta d’ogni parte,
di pianto t’han vestita e tu, meschina.
la testa hai sollevato del Triscele.
e soverchiata l’hai col tuo valore.
Figlio ti sono di modesto ceto,
ma vivo solamente con speranza
che l’ossa mie conservi nel tuo seno.
ALLA MIA TERRA,
LA SICILIA
Io le vestigia antiche percorrendo
vado di questa mia superba terra
finché le
nell'aspro suolo, che nel sen rinserra
l'ossa del duce che destino orrendo
prigion lo volle contro i greci in guerra,
l'opaco velo a forza discoprendo
che la vetusta lava ammanta e serra.
Greci e fenici qui pugnaro invano
per soggiogar gl'indomiti Sicani.
Più tardi ancor l'imperator romano
ed altri ancora in nome del Corano
con la violenza imposero le mani,
ma Siculi si fero a mano a mano!
SON QUI LE BARCHE STELLE.
Son qui le barche stelle
nel cosmo fisse dell’azzurro mare
e se la vista ascondi per sentire
il canto delle ninfe
che giunsero danzando sopra l’onde
dall’isole feconde,
dove approdando Venere sorrise,
la mente si confonde
all’apparir dell’orizzonte il fine,
che con il ciel si fonde,
e lo scrutare i flutti orlati a trine
per il guizzare allegro e spensierato
di variegati pesci in quell’afflato,
stupendamente varchi l’infinito,
dove il clamore tace
e sei pervaso di quell’amore vero,
quello divino, che non sa di mito
ma di suprema pace.
ALL’ISOLA CHE C’E’.
Il soffio aleggia dell’amor divino
su questa terra che dal mare è cinta
e mostra al cielo il volto repentino
di roccia nera nell’azzurro pinta
d’un monte, che giocando a rimpiattino
con nuvola di fumo in alto spinta,
stupisce chi la guarda da vicino.
Il cielo terso che la volle avvinta
nel mitico splendore dell’azzurro
la circondò di borbottanti venti,
che le nubi filanti come burro
sfiorarono di musica e d’accenti,
e l’aria accarezzando di sussurro
le fole ne cantarono suadenti.
Reazione alle provocazioni della politica leghista
Non fussi megghiu?
Carissimu dutturi milanisi,
semu d'accordu, senza cumplimenti,
ca fomu uniti malamenti e misi
a cazzu e culu senza aviri nenti
chi spartiri, ma cu ni fici i spisi,
finu a st'ura, non fu lu continenti,
ma la Sicilia tutta para para,
comu la vera storia ni lu impara.
Non parru di la storia fatta in casa
ca leggi supra i libri di la scola,
unni u Piemonti la Sicilia vasa
e di patria si sbrizzia la parola
a dritta e manca, tantu ca ni scasa
'n-patriottismu ca supra i casi abbola,
ma 'un havi fundamentu né sustanza
nonstanti c'é tutta st'esultanza.
Ca nenti ci accumuna lu dimostra
stu fattu cca: ca si Vossignuria
vimissi stu mumentu a casa nostra
circannu di capiri sta puisia,
nun a sapissi léggiri, ne ju na vostra
sapissi interpretari e così sia!
Nui parramu dui lingui diffirenti,
pirchì vinemu di diversi genti.
Di provenienza siti longobardi,
menzi tedeschi, gallici, francisi,
'n-miscugghiu di nordici bastardi;
semu in Sicilia di razza muddisi,
menzi greci, finici e cu riguardi
arabeggianti e marucchini intisi.
Semu di razzi differenti nati!
Putému diri d'essiri cugnati.
vistu ca dui razzi bastardi semu,
ma cu diversi cumpunenti in attu.
Si la carta geografica videmu,
appari nettu sulamenti 'n-fattu:
di mari circundata ad ogni estremu
n'arrisutta a Sicilia e dunqui esattu
cuncettu esisti di separazioni
naturali, ne mai reali quistioni
avanzari putemu di 'n-luntanu,
passatu incucchiamentu e di futuri
consimili evenienzi: tutti sanu
(e cu lu dissi sunu prufissuri!)
ca fa parti du zocculu africanu
la Sicilia; perciò di st'avvinturi
nun ci ni foru né sarannu mai,
a menu ca lu ponti nta sti guai
non ni cafudda puru, comu fici
'n-certu Garibaldi cu la scusa
di fari i Siciliani chiù filici.
Mai fu fatta 'n-azioni chiù fitusa
di stu Pippinu ca ti veni e dici
d'abbattiri cu da Sicilia abusa
e poi, comu lu tradituri Ganu
di lu Piemonti ni desi nte manu.
Chi pigghiata di culu fu stu fattu!
Di 'n-patruni dispoticu ed ottusu
avemmu sulu lu tristu barattu
cu 'n-autru ancora chiù tintu e fitusu!
Pi’ mettiri li Siculi all'aggattu,
scasàru du Piemonti finu a jusu,
nto cori da Sicilia, birsaglieri,
surdati scelti e puru cannuneri.
Si leggi nta li libbri di la storia
ca in Sicilia ci foru plebisciti
popolari, ch'ebbiru la gloria
di fàrini italiani tutti uniti,
ma nun si dici insemi a ssa gran boria
ca foru buttanati e farsi riti.
Li muschetti puntati nta li rini,
calammu i corna e puru li carini.
Pirdemmu tuttu senza cumplimenti:
onuri, libertà, travagghiu e pani.
Già vinniru in Sicilia antichi genti,
ma ni ficiru ricchi, forti e sani.
Li Svevi, i Greci, l'arabi sapienti,
i Francisi, i Fenici, i Catalani,
di st'isula ni féru na putenza,
'n-faru perenni d'arti, puisia e scienza.
L'Italiani, inveci purtàru fami,
miseria, crisi, guerra e scupittati.
Comu famelici lapuna a sciami,
ca sùcanu la linfa assatanati
di 'n-ciuri raru e ni lassànu i stami,
accussì l'Italiani d'ogni stizza
da Sicilia ni ficiru sasizza.
Dopu cent'anni e passa i sudditanza
lu risultatu avemu ca si vidi:
mari inquinatu, fami ca s'avanza,
cannuni sutta u lettu, c' hannu a 'ssiri
cca pi’ forza chiantati in sichitanza,
surdati amiricani, lu patìri
l'effettu deleteriu di strampalati
liggi e tassi a munzeddu cafuddati.
Carissimu dutturi milanisi
non fussi megghiu, m'addumannu e dicu,
vistu ca semu malamenti misi,
ca da Sicilia si facissi nicu
nu Statu novu, sulu e senza pisi,
ca ci ridassi lu splinduri anticu?
Ca fussi sulu e sulu sicilianu
e senza propriu nenti d'italianu?
Non sarebbe meglio?
Carissimo Dottore milanese,
siamo d’accordo senza complimenti
che siamo stati uniti malamente
e messi a cazzo e culo senza avere
nulla da spartire, ma chi ci andò
di sotto non fu certo il continente
ma la Sicilia interamente tutta
come la vera storia ce l’insegna.
Non parlo della storia fatta in casa
Che leggi sopra i libri della scuola,
dove il Piemonte la Sicilia bacia
e di Patria si spande la parola
a destra e manca, tanto che ne spunta
patriottismo che sulle case vola
ma che non ha nessuno fondamento
nonostante ce ne sia l’esultanza .
Che nulla ci accomuna lo dimostra
Questo fatto che se Vossignoria
Venisse adesso a casa nostra
Cercando di capire sta poesia
Non sa come si legge, né io la vostra
Interpretar saprei e cosi sia!
Noi parliamo due lingue differenti,
perché veniamo da diversa gente.
Di provenienza siete longobardi,
mezzi tedeschi, gallici, francesi,
un miscuglio di nordici bastardi;
siamo in Sicilia di più molle razza,
mezzi greci, fenici e con riguardo
arabeggianti e marocchini quasi.
Siamo da razze differenti nati!
Possiamo dire d'essere cognati,
visto che di bastarde razze siamo,
ma con diversi componenti in atto.
Se la carta geografica guardiamo,
appare chiaro solamente un fatto:
dal mare circondata ad ogni estremo
ne risulta la Sicilia e dunque esatto
concetto esiste di separazione
naturale , né mai reale questioni
avanzare potremo d’un lontano,
passato a noi comune e di futuri
consimili evenienze: tutti sanno,
(e chi lo disse sono professori!)
Ch’è parte dello zoccolo africano
la Sicilia; perciò di questi fatti
non ce ne furo ne saranno mai,
a meno che del ponte in questi guai
non ci cadiamo pure, come avvenne
con Peppe Garibaldi il quale disse
di fare i Siciliani più felici.
Mai fu fatta un’azioni più fetente
di Garibaldi che ti viene a dire
d'abbattere chi la Sicilia abusa
e poi, come il traditore Gano,
nelle mani ci dette ai piemontesi
Che presa per il culo fu codesta!
D’un patrone dispotico ed ottuso
avemmo solo il triste cambiamento
con un altro ancora più brutto e fetente.
Per mettere in castigo i siciliani
Usciron dal Piemonte fin qua giù,
nel cuore di Sicilia, bersaglieri,
soldati scelti e pure cannonieri.
Si racconta nei libri della storia l
che in Sicilia ci furon plebisciti
popolari, ch'ebbero la fortuna
di farci diventar italiani uniti
ma non si dici insieme a sta gran boria
che furon puttanate e falsi riti.
Con gli schioppi puntati nelle reni,
ci abbassammo le corna e pur le schiene
Perdemmo tutto senza complimenti:
onori, libertà, lavoro e pane.
Già vennero in Sicilia antiche genti,
ma ci fecero ricchi, forti e sani.
Gli Svevi, i Greci, gli Arabi sapienti,
i Francesi, i Fenici, i Catalani,
quest’isola la fecero potente
un faro grande d'arte, poesia e scienza.
Gli Italiani, invece portaron fame,
miseria, crisi, guerra e schioppettate.
Come affamato sciame d’api grosse,
che succhiano la linfa assatanate
d'un fiore raro e ne restar gli i stami,
così gli Italiani d'ogni contrada
della Sicilia fecero salsiccia.
Dopo cent'anni e passa di schiavismo
il risultato abbiamo che si vede:
mare inquinato, fame che ci cresce,
cannoni sotto il letto, che qua stanno
per sempre forzatamente piantati,
soldati americani, il sopportare
l'effetto deleterio di strampalate
leggi e tasse appioppate senza freno.
Carissimo dottore milanese
non sarebbe meglio, mi domando e dico,
visto che siamo malamente messi,
che di Sicilia si facesse piccolo
un nuovo Stato, solo e senza pesi,
che ci ridesse lo splendore antico?
Che fosse solo e solo siciliano
e senza proprio niente d'italiano?
La priera di ‘n-sicilianu.
Bedda matri sull'altari,
Signuruzzu fati tuttu
pi’ scanzarini stu luttu.
Nun li fati chiù calari!
Megghiu aviri 'n-artu ruttu,
a lu Fasciu suttastari
o lu focu suppurtari,
ca vidiri 'n-ceffu bruttu
d'un nordista nta sta terra!
Chissa é genti di rapina,
porta fami, peni e guerra.
Pi’ scanzari la ruvina,
chistu mari ca n'inserra
s'allargassi na matina!
Traduzione
La preghiera d’un siciliano
O Madonna benedetta
Dio mio fai di tutto
Per non darmi questo lutto.
Non li fare più venire
Meglio avere un arto rotto
Sottostare al dittatore
Od il fuoco sopportare
Che vedere un brutto ceffo
D’un Nordista in questa terra!
Questa è gente di capestro,
porta fame pene e guerra.
Per scansare la rovina
Questo mare che ci unisce
S’ allargasse una mattina!