PREMESSA DELL’AUTORE
Mi sembra più che giusto che vi racconti come mi è venuto il desiderio di tradurre alcune delle mie poesie siciliane in italiano, anche se alla base di ciò sono stato sollecitato da una mia corrispondente americana che porta il mio cognome ed è d’origine siciliana. Mi ha confessato che riesce a tradurre in inglese le mie poesie scritte in italiano, ma non riesce a capire quelle scritte in siciliano, poiché ne ha dimenticato la parlata, appresa in tenera età dal nonno.
Durante la pandemia in atto, leggendo qua e là, ho riscontrato in Internet il seguente episodio che riguarda un noto cultore del dialetto siciliano.
“Pi’ casu Vossia è chiddu ca scrivi favuli pe’ picciiriddi?” Si sentì dire Giuseppe Pitré dal contadino che lo aveva chiamato per visitare la sua bambina in preda ad una febbre improvvisa manifestatasi durante la notte.
“No. Io sono il medico Giuseppe Pitré. L’altro che avete detto è un’altra persona. Uno che ha il mio stesso nome e cognome.” – rispose, mentendo, il solerte dottore, togliendosi dalle orecchie l’auricolare con il quale aveva visitato la bimba. In verità egli ed il favolista erano la stessa persona, ma ci teneva a dire sempre che non lo era, poiché distingueva tra le sue due professionalità. Di buon mattino impiegava le prime ore del giorno allo studio delle lettere, scrivendo racconti per i bambini traendoli dalla sua cultura siciliana , Dopo una certa ora si dedicava invece al suo lavoro di medico. Era come se in lui effettivamente convivessero il letterato ed il medico, ma in fasi differenti ed in modo che le due attività non si intralciassero a vicenda. Esattamente come facevo io alternando il servizio ferroviario al culto della letteratura. Mi sono subito chiesto per mero interesse culturale chi fosse mai costui.
Ma chi era, dunque, Giuseppe Pitré? Alla luce di quanto riportato da Internet, era uno dei tanti figli di questa nostra Sicilia che si distinse nel mondo letterario e culturale. Egli nacque nel quartiere di Santa Lucia a Palermo da una modesta famiglia di pescatori il 22 Dicembre 1841. Rimasto orfano di padre, morto di pellagra nel 1847 in America, dove si trovava imbarcato, fu educato dalla madre con grandi sacrifici. Grazie anche alla generosità dei Gesuiti, cui venne affidata la sua educazione culturale, egli coltivò lo studio del latino e della storia della sua terra. Notò la sostanziale differenza tra la lingua italiana, che egli era costretto ad usare ed il suo modo di parlare prettamente dialettale. Lo appassionò, quindi, fin da piccolo questa differenza linguistica, cercando di individuarne i motivi. Grazie alla sua costante applicazione ed alla conoscenza di usi e costumi della sua città, concepì che il dialetto siciliano altro non fosse, se non una lingua neolatina parallela a quella italiana. Scoprì la connessione tra il latino ed il siciliano e pensò, sulla falsariga di quanto appreso della Scuola Siciliana di Federico II di Svevia, di evidenziare le regole di mutazione fonetica del siciliano dalla lingua madre latina, senza dover passare attraverso l’italiano. Praticamente, concepì il siciliano, una lingua a se stante rispetto all’italiano. Pertanto cercò di individuarne l’essenza, scrivendo una grammatica vera e propria della lingua siciliana, scevra dal parallelismo linguistico dall’italiano. Fu facile, quindi, per il Pitré fare ciò, grazie alla sua conoscenza, che oso definire naturale, e scivolare nello studio particolare dei modi espressivi dei suoi concittadini. Non solo studioso di lingua siciliana fu il Pitré, ma anche profondo ed attento scrittore degli usi e costumi del suo tempo e si accorse così della diversità dei dialetti siciliani a seconda delle località. Notò la mollezza del dialetto palermitano ad occidente della Sicilia e il tono quasi musicale di quello orientale, caratteristico del mondo greco. Ecco, quindi, che si occupò anche del modo di esprimersi dei catanesi, oltre che degli altri isolani-
Giovanissimo, si arruolò nelle truppe garibaldine, giunte in Sicilia nel 1860. Nonostante la sua attività militare momentanea, non trascurò non solo lo studio delle lettere, ma nemmeno quella dell’istruzione universitaria nel campo sanitario. Nel 1865 si laureò in medicina e chirurgia, diventando medico. Fu questa la sua attività che gli consentì di vivere ed inserirsi nella società in modo produttivo, ma il Dottor Pitré non dimenticò le lettere che gli avevano permesso tanto successo nella vita e continuò imperterrito ad approfondire la sua cultura letteraria. Pertanto, prima che medico, fu anche insegnante di lettere e Filosofia nel liceo della sua città. Il suo pregio consisteva nel distinguere le due attività, nelle quali eccelse con pari fortuna.
Ottimo medico fu dunque, come la tradizione ce lo mostra ed ottimo letterato come la sua produzione letteraria ce lo porge superbamente impegnato a scoprire i significati profondi del suo dialetto e l’origine etimologica e fonetica di molti vocaboli dialettali.
Per mia fortuna, ho avuto modo di conoscere il Pitré attraverso un opuscolo da lui scritto con l’intento di dettare le regole grammaticali del dialetto siciliano attingendo le notizie relative ai termini latini. Un’ opera certosina e scrupolosa di ricerca degna di molto riguardo e da vero accademico. Ovviamente per chi non conosce i rudimenti della lingua latina non può recepire in pieno il lavoro del Pitré; tuttavia avrà modo di rendersi conto del significato esplicito di alcuni termini e della profonda conoscenza del folklore siciliano, che è alla base del suo operare. Non solo questo, ma anche della giusta valutazione di molti poeti dialettali siciliani che per parecchio tempo sono rimasti nell’ombra. Mi riferisco, in particolare, al Martoglio ed a Domenico Tempio. Specialmente in quest’ultimo risulta evidente la connessione tra dialetto catanese e lingua latina. Oserei dire che quasi, quasi è più semplice tradurre in latino piuttosto che in italiano, le poesie dialettali del Tempio. Non a caso quest’ultimo ha ricevuto la stessa base culturale d’apprendimento del Pitré. Entrambi ricevettero l’influsso del latino attraverso Santa Madre Chiesa, rappresentata dai Gesuiti nell’uno e dal Monastero nell’altro. Per quanto non sia tanto noto, il Tempio studiò in gioventù per diventare prete.
Ovviamente il rigore scientifico, legato alla conoscenza del latino rende un poco ostico il contenuto dell’opuscolo in questione, poiché non tutti conoscono questa antica lingua madre. Tuttavia aiuta a comprendere il significato di molti termini siciliani e la loro origine, non sempre legata ai successivi idiomi scaturiti dall’occupazione di altre popolazioni “barbare”. Dal momento che anche la lingua italiana è legata al latino, l’opera del Pitré risulta molto utile, anche se non risolutiva al livello popolare. E’ da dire che il Pitré era assillato dal cruccio di voler dimostrare che il siciliano non era una deformazione della lingua italiana, ma un diverso modo di evoluzione linguistico parallelo ad essa. In effetti dice una cosa vera e certamente non confutabile. Però, ai fini utili, chi parla già l’italiano ha necessità di far riferimento alla sua lingua per comprendere alcuni termini e modi di dire siciliani. In parole povere, non si può praticamente tradurre un concetto dall’italiano al siciliano attraverso il latino, ormai desueto e da molti non più conosciuto. Necessita, quindi di un rapporto immediato e più diretto ai fini della comprensione perfetta. In ultima analisi, bisogna conoscere le regole grammaticali del comune modo di esprimersi di entrambe le lingue. Esattamente come avviene tra l’italiano ed il francese o l’inglese o qualunque altra lingua. Da questo punto di vista l’opera del Pitré sembrerebbe inutile e superflua, ma non è così poiché il suo studio nelle mani di uno studioso di lettere attento riesce ad indirizzarlo nella traccia di un piano di intendimento universale applicabile in ogni caso tra il siciliano e qualunque altra lingua. Proprio per questo il Pitré è famoso. Grazie al suo continuo riferimento del siciliano al latino, riesce ad eliminare accenti, apostrofi e quant’altro nella scrittura dialettale, rendendola più comprensibile ed immediata nella rappresentazione delle immagini e , quindi, più facile ad essere tradotta in altri linguaggi. Seguendo il tracciato del suo studio letterario, sono nati dei dizionari e delle regole grammaticali siciliane che consentono il rapporto con altri linguaggi di facile consultazione ed uso. Purtroppo, non esiste una vera storia di letteratura dialettale, che è rimasta, come suol dirsi, al palo .Ciò per la sua caratteristica prettamente popolare e finalizzata soltanto a poter dialogare tra conterranei. Tuttavia c’è nel dialetto l’elemento poetico che emerge e che sembra standardizzato senza seguire i canoni che invece caratterizzano le varie lingue, non solo parlate, ma studiate e migliorate. Così accade che un poeta siciliano, pur scrivendo e recitando poesie nel suo dialetto, quando si tratta di dover esplicitare dei concetti del suo pensiero in prosa, utilizzi l’italiano. Accade pure che le sue poesie in siciliano non seguano gli indirizzi storici, che emergono periodicamente ed assumano una forma sempre uguale, caratterizzata dalla rima che può essere alternata e dal classico sonetto d’antica memoria. In particolare, per il poeta siciliano la rima è sacra! Ed anche il popolo che ama la poesia siciliana, la pretende espressa in rima e non la considera tale senza di essa. Per quanto mi concerne, dal momento che anch’io scrivo poesie in dialetto, oltre che in italiano, ho pensato di superare tale forma, ricorrendo sovente all’endecasillabo sciolto, magari alternato con settenari, esattamente come faceva il Leopardi, mettendo in atto una maggiore attenzione nel rispetto degli accenti tonici, ossia della metrica, anch’essa derivata dal mondo latino. In molti casi mi sembra che l’esperimento sia riuscito abbastanza bene, anche se qualcuno non è per niente d’accordo, legato alla rima nella poesia siciliana.
A conclusione di questo mio dissertare sul dialetto siciliano, è da dire che a livello popolare la poesia gode ottima salute, così come viene espressa, ossia usando la rima, anche se gli argomenti molte volte non sono proprio poetici. La stessa cosa non possiamo dire della prosa. Il siciliano scrive in italiano, anche se pieno di errori grammaticali, ma nel parlare e nel dialogare stenta ad usarlo. Preferisce esprimersi in dialetto e se cerca di mostrare una certa talentuosità sfoggiando un italiano contorto ed infarcito di espressioni tipiche dialettali; ne vien fuori una specie di fiume, dove prende quota un italiano maccheronico, misto a sicilianismi, che trova anche fortuna artistica nel campo teatrale. Usando questo modo di esprimersi alcuni attori siciliani hanno raggiunto la celebrità, facendosi nello stesso tempo porta-voci del dialetto siciliano, rendendolo comprensibile anche agli spettatori che siciliani non sono. Cito fra questi il mai dimenticato Angelo Musco ed ancora ,Rosina Anselmi, Turi Ferro, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, nonché Gilberto Idonea, Lando Buzzanca Tiberio Murgia. Pino Caruso, Leo Gullotta , Nino Frassica, Grasso, Pippo Pattavina, Tuccio Musumeci ed altri ancora sulla breccia. Non bisogna dimenticare inoltre quanti dal mondo dialettale siciliano, pur scrivendo in italiano hanno tratto gli spunti per raggiungere la celebrità. Anche qui mi piace citare tra tutti il Verga, Nino Martoglio, Pirandello, nonché Bufalino, Sciascia e non ultimo Camilleri con le sue vicende poliziesche risolte dal commissario Montalbano.
Insomma, in questo campo, il dialetto ha fatto sfoggio di preziosismi linguistici più che apprezzabili e tali da trovare un’icona nel mondo artistico-letterale italico.
Sostanzialmente, ho parlato del dialetto siciliano riferendomi alla nostra realtà di Italiani e quindi delle connessioni con il linguaggio italiano. Trova inoltre molto interesse anche linguistico il linguaggio che scaturisce dal contatto con la lingua inglese, adottata dai nostri emigranti in America. E’ un misto di italiano, siciliano ed inglese che è anche possibile notare nelle loro lettere epistolari ai congiunti In una di queste lettere, ad esempio, un emigrato informava la moglie di aver trovato a Nuova Yorka lu jobbu (il lavoro) che aveva problemi, però, per accucchiare i dollari, che poi sono le lire, che non poteva mandare. Lì, nella terra lontana dalla Sicilia, il dialetto a poco a poco muore ed i figli degli emigrati apprendono l’inglese e raramente ricordano qualche parola appresa dai loro genitori. Non ricordo chi lo abbia detto, ma proprio questa mescolanza di termini di diversa origine, tende ad un linguaggio, che, ipoteticamente, sarà comune agli uomini tutti di diversa nazionalità ed etnia. Qualcuno che ha inteso anticipare i tempi ha tirato fuori una lingua comprensibile a tutti dandogli anche un nome: l’esperanto. Ma da quanto mi risulta l’esperimento non ha avuto fino adesso buon esito. Tuttavia son convinto che alla fine, ciò avverrà, ma quando solo Dio lo sa!
Ecco dunque il vero motivo per cui ho pensato di tradurre in italiano alcune mie poesie siciliane, cercando di seguire le indicazioni- guida del Pitré, aiutandomi con la mia modesta conoscenza del latino, corredandole anche da alcuni appunti di confronto tra termini italiani e siciliani, senza dover ricorrere attraverso la conoscenza della lingua madre comune.
L’Autore
U fumu di l’Etna
Sicilia mia
ca ti stinnicchi a mari
dunni Veniri
vergini nascivu
e l’acqua d’iddu
tutta a furriari
ti cingi
cu lu ciatu
sempri vivu,
tu mai ti stancasti
di jttari
lu fumu
ca ‘nto celu si jsavu
e nesci
da Muntagna
pi’ cantari
la forza da natura
supirchiusa
Traduzione
Il fumo dell’Etna
Sicilia mia
che ti stendi a mare
dove Venere
vergine nacque
e l’acqua sua
tutt’intorno
ti cinge
con il fiato
sempre vivo,
tu non ti stanchi mai
di buttare fumo
che in cielo si leva
ed esce
dalla Montagna
per cantare
la forza della natura
senz pari.
Fasti di l’alivu
Roma, stu beddu frutticeddu nicu,
ca crisci supra l’arvulu d’alivu,
ni fici cosa di valuri anticu.
Salatu, arrimuddatu e sempri privu
di l’amaru , ca ci havi (non ti dicu)
quann’è virdognu ancora nta lu civu)
diventa di sapuri veru apricu
sirvutu comu piattu gustativu.
Lucullu, ch’era veru sciampagnuni
supra nappi durati l’ha mustratu
e fici a stissa cosa Trimalciuni.
Oggi ci avemu lu stissu apparatu,
pirchì facemu granni mangiatuni
parannu cu’ l’alivi lu palatu.
Traduzioine:
Fasti dell’ulivo
Roma , di sto bel frutto piccolino
che matura sopra l’albero d’ulivo
ne fece pregio di valore antico.
Salato, ammorbidito e sempre privo
dell’amaro, che porta (non ti dico!)
quand’è verdastro nel suo civo,
diventa di sapore in vero aprico,
servito come piatto gustativo.
Lucullo , ch’ era ricco ed allegrone
l’offriva sempre su vaso dorato
e pur così faceva Trimalcione.
Adesso ancora vige l’apparato,
perché prima di fare un gran cenone
solletichiam la lingua ed il palato.
Nun c’è paci tra l’alivi
L’angilu vulavu di la morti
supra st’alivara d’anni ricca
e n’ammustrau tutta ‘a malasorti
di la fogghia c’addiventa sicca.
Mori lu zuccu, pirchì ‘na picca
nesciunu li ràdichi cuntorti
fora di la terra ca ‘un allippa.
Di lu celu si grapèru i porti
a chista malefica Xilella,
ca chiuvennu muta, quatta quatta,
l’arvulu d’alivu ni cancella.
Non vulissi ca na menti piatta,
pinsannu di fari cosa bella,
ci la mannavu dintra na buatta
Traduzione:
Non c’è pace tra gli ulivi.
L’angelo della morte volò
sopra queste piante d’oliva d’anni ricche
e ci ha mostrato tutta la malasorte
della foglia che diventa secca.
Muore il tronco, perché di poco
escono le radici contorte
fuori dalla terra, che non le stringe più.
Si sono aperte le porte del cielo
a questa malefica Xilella,
che piovendo zitta e furbescamente
l’albero d’ulivo ci cancella.
Non vorrei che una mente scriteriata
pensando di fare una cosa bella,
ce l’abbia mandata dentro una scatola di latta.
Mangiari anticu
Lu scriviri paroli ‘nzuccarati
a mia mi pari cosa veru bedda,
ma si taliu l’alivi ca cunsati
e la vastedda ca tagghiati a fedda
o l’ova nto tianu strapazzati,
ca poi mittii tutti nta paredda,
nun c’è cosa cchiù granni ca faciti
donna Pippina pi’ li me vudedda.
Vi miritati appidaveru tuttu,
ca sapiti fari ssu mangiari anticu
ca duna sdilliziu nta l’agghiuttu
e nun pinsati a smafiri si dicu
ca puitissa siti cu’ lu bottu
propriu pi’ chissu ca nun è minnicu.
Traduzione
Mangiare antico
Lo scrivere dolcissime parole
mi sembra cosa veramente bella
ma se guardo le olive che condite
e la pagnotta che tagliate a fette
o le uova nel tegame strapazzate,
che poi versate dentro la padella,
non c’è cosa più bella che facciate,
Donna Peppina, per le mie budella.
Vi meritate per davvero tutto,
perché sapete al mangiare antico
delizia dare e lustro a chi s’ingozza
e non pensate male se vi dico
che poetessa siete non da butto
per tutto questo che non è mendico.
A Giuvanni Rizza
Carissimu Giuvanni,
ca parri comu senti,
l’amuri è cosa granni,
ca nasci nta la menti
e senza fari danni
nto cori comu nenti
agghica e poi si spanni
cchiù sutta prirumpenti
e tutti fa cuntenti
si dura pi’ cent’anni
e certu nun si penti
si trova picca canni.
Traduzione:
A Giovanni Rizza
Carissimo Giovanni
Che parli come senti,
l’amore è cosa grande
che nasce nella mente
e senza fare danno
al cuore come niente
arriva e poi si spande
più sotto prepotente
e tutti fa contenti
se dura per cent’anni
e certo non si pente
se trova poca … carne.
A Cuncittina da Piscaria
Quannu passu mi talia,
Cuncittina da putia,
chidda dda da piscaria,
ma nun pensa sulu a mia.
Idda ridi e s’arricria
si la chiamu “vita mia”
mentri metti cu’ mastria
li citrola ‘nta statia,
ca cuntrolla e poi tastia
cu la manu ca pazzia.
Ora tutta si mutria
Cuncittina da putia,
ca pigghiavu da scansia
du’ patati c’alliffia.
Datti paci menti mia
pirchì in sutta cazzulia,
poi ti chiama di Vossia,
mentri ammustra camurria.
Chissa è roba di putia
cosa tinta ca schifia,
li citrola ti mania
pi’ chiamari a cu’ talia.
Traduzione:
A Concettina della Pescheria.
Quando passo mi guarda
Concettina del negozio,
quella della pescheria,
ma non guarda solo a me.
Lei ride e si diverte
Se la chiamo “vita mia”
Mentre mette accortamente
I cetrioli sulla bilancia
che controlla ed accarezza
con frenesia
Ora ciondolando va
Concettina del negozio,
che ha preso dalla mensola
due patate e le accarezza.
Datti pace mente mia
perché con te sta civettando
poi ti dà del Vossignoria,
mentre mostra di seccarsi.
Costei è cosa di negozio,
che ti prende solo in giro.
I cetrioli va toccando
per far da chiamo a chi la guarda.
Ma chi sacciu … ?!
‘Nta stu cazzu di munnu burdillusu
annutamu ca masculi cu’ masculi
fannu tra d’iddi sessu circunfusu
e nun mi pari veru d’ascutari
ca si ponnu tra d’iddi maritari.
Ma allura chi sugnu anticchia fusu,
si mi piaci da fimmina u … pirtusu
e masculi non cercu pi’ ‘n trummari?
Traduzione:
Ma che ne so …?!
In questo cazzo di mondo di bordello
Prendiamo atto che maschi con maschi
Fanno tra loro sesso un po’ confuso
E non mi sembra vero d’ascoltare
Che possono sposarsi tra di loro.
Ma allora che sono un poco sbalestrato
Se a me piace il sesso femminile
E non cerco maschi per fare l’amore?
Spasimi d’amuri.
Cchiù assai di milli sunu li paroli
ca scrissi e li canzuni ca cantai
pi’ tia, bidduzza, ca nun mi cunsoli
di tutti li me’ lazza e li me’ guai.
Tu comu na farfalla scappi e voli
supra lu ciuri ca pi’ tia chiantai
nto centru du me’ cori e non ti doli
ca luntanu di mia ti ni stai.
Pinsannu a tia li nuvuli tuccai
ca currunu nto celu cu lu ventu
e li labbra nto sonnu t’adurnai
di vasuneddi dati a centu a centu
mentri fucusu tutta t’abbrazzai,
ma sulu chistu … nun mi duna abbentu.
Traduzione
Lamenti d’amore.
Più di mille sono le parole e i duoli
che scrissi e le canzoni che cantai,
per te, mia bella, che non mi consoli
di tutte le mie pene ed i miei guai.
Tu come una farfalla fuggi e voli
sopra quel fiore che per tè piantai
nel centro del mio cuore e non ti duole
che lontana di me tu te ne stai.
Pensando a te nuvole ho sfiorato
che corrono nel cielo con il vento
e le labbra nel sonno ti ho adornato
di tanti bacetti dati a cento a cento
mentre ardente forte t’ho abbracciato,
ma questo solo … non mi fa contento
A jattaredda mia
Quannu mi guarda tutta si mutria
la jattaredda mia di Castidduzzu.
Luntanu si ni staci e mi talia
comu fussi la luna nta lu puzzu.
Ju cercu di tuccarla e si canzia
si l’accarizzu anticchia quannu attruzzu,
ma idda scappa, curri, si furria
e si ripara sempri nta ‘n-cantuzzu.
Vogghiu sapiri finu a quannu dura
sta mania di scappari in sichitanza,
ca divintò pi’ veru na jattura,
lu fattu ca s’incugna e poi si scanza.
Si nun avissi tutta ssa paura
cchiù carizzi acchiappassi di sustanza
Traduzione:
La mia gattina.
Quando mi guarda, si dondola tutta
la mia gattina di Castelluccio.
Lontana se ne sta a guardarmi
come se fossi la luna nel pozzo.
Io cerco di toccarla e s’allontana
se l’accarezzo un poco quando l’avvicino
Ma lei scappa, corre , si rigira
e si nasconde in un cantuccio.
Vorrei sapere fino a quanto dura
questa mania di fuggire sempre
perché è diventato una vera disgrazia.
Il fatto che s’avvicina e poi fugge..
Se non avesse tutta questa paura
Riceverebbe più carezze sostanziose.
Notti di spiranza.
‘Nta stu vadduni funnu e senza luci,
unni tummavu cu la menti persa,
non crisci l’erba duci di l’amuri
e ‘un cuva sutta terra la spiranza.
Lu ventu sulu ciuscia nta la facci
E lu dispettu scinni nta lu cori.
Ccà sutta è notti funna lu Natali,
su’ lacrimi li stiddi di lu celu,
su’ sbrizzi di duluri li lumeri,
è sonu di lamentu a ciaramedda.
Ccà la stidda non spunta cu la cuda
e morti regna, ch’è rimediu sulu
a la disperazioni di lu cori.
Cu l’anima scicata a lu Presepiu,
pasturi vegnu allura senza nenti
e nudu sutta l’arvulu mi prostru
mustrannu sulu lu me chiantu vivu,
lu friddu ca m’incascia e mi sutterra
e lu scunfortu ca ‘un mi duna paci.
Guardannu lu Bamminu nta la stadda
s’addumanu li stiddi d’improvvisu,
lu friddu mi si strogghi nta lu pettu
e la paci ritrovu ca pirdivu.
lu ventu cemma e mi diventa duci
lu toccu nta la facci risulenti.
Spiranza mi rinasci nta lu cori
e la lumera dintra mi s’adduma
di lu pidutu amuri pi’ la genti,
mentri lu sonu si n’acchiana in celu
da ciaramedda ca ‘un è chiù lamentu.
Traduzione
Notte di speranza.
In questa profonda valle senza luce
dove piombai con la mente persa,
non cresce l’erba dolce dell’amore
e non cova sotto terra la speranza.
Il vento solamente il viso sfiora
e l’amarezza invade il cuore.
Quaggiù, non v’è festa di Natale,
son lacrime le stelle in cielo,
son lacrime di dolor le luci,
la ciaramella ha suono di lamento.
Qui non spunta la stella con la coda
e regna solo morte, ch’è rimedio estremo
alla disperazione del cuore.
Al presepio pastore senza niente
Vengo con l’anima sconvolta
e nudo sotto l’albero mi prostro,
mostrando solo il mio pianto vivo,
il freddo che m’opprime e mi sotterra
e lo sconforto che non mi dona pace.
Guardando il Bambinello nella stalla,
s’accendono le stelle d’improvviso
e la pace ritrovo ch’era persa,
il vento scema e sembra dolce
il suo sfiorarmi il viso sorridente.
Speranza nel cuore mi rinasce
e dentro mi s’accende la luce
del perduto amore per la gente,
mentre nel cielo sale il suono
della ciaramella che non è lamento.
Chiovi …
Chiovi…,
guarda comu chiovi!
Alleggiu, alleggiu, accuminciavu,
sbrizza dopo sbrizza
e dopu chiù forti a chioviri si misi
supra la terra asciutta,
supra l’erba sicca,
supra i tetti russi,
supra i petri morti …
… E chiovi…
‘nsichitanza chiovi!
Sbacantati in terra
li nùvuli a mumzeddu
stinnicchiati sunu
supra la campagna
e comu nenti fussi
si sbracàru tutti
sutta l’arvuli affucati
e pari picireca
cascata di lu celu
lu velu ca si vidi
sciddicari in terra.
Accussì chiovi
supra l’anni mei
e nun si ferma chiù
l’acqua scunchiusa,
ca scinni a cataratti
e veni di luntanu,
dunni ‘un c’è paci
e mancu paradisu.
C’era na vota ddocu
la luci di lu suli
ca punziddava a muzzu
lu celu alabastrinu
ed ora s’ammucciavu
e mancu tenta
di spuntari ancora.
Traduzione:
Piove …
Piove …
Guarda come piove!
Adagio adagiò cominciò,
goccia dopo goccia
e dopo più forte a piovere si mise
sopra la terra asciutta,
sopra l’erba secca,
sopra i tetti rossi,
sulle pietre morte.
… E piove,
continuamente piove!
Svuotate a terra
le nuvole a bizeffe
stiracchiate sono
sopra la campagna
e come niente fosse
si sbracaro tutte
sotto gli alberi affogati
e sembra pece nera
caduta dal cielo
il cielo che si vede
scivolare a terra.
E così piove
sopra gli anni miei
e non si ferma più
l’acqua sconclusa,
che scende a cataratte
e viene da lontano,
dove non c’è pace
e manco Paradiso.
C’era una volta lì
la luce del sole
che pitturava a caso
il cielo alabastrino
ed ora si nasconde
e manco tenta
di spuntare ancora.
Si leggiri tu sai …
Si leggiri tu sai
li ruppa e li trazzeri
ca vidi ‘nta me facci
addisignati vivi,
si capisci ‘u culuri
di l'occhi mei cangianti,
ora cilestri e chiari,
ora grigiastri e scuri,
da nasca l'arrizzata,
quannu mi guardi muta
o la muvenza duci
di la vucca ca surridi,
allura veramenti
pussedi a chiavi giusta
pi’ grapiri ‘nu scrignu
segretu e favulusu,
unni ci trovi chiddu
ca speri ‘nta la terra:
muntagni immaculati,
vadduni verdeggianti,
celu turchinu e tersu,
mari serenu e riccu
di vita e di piaciri
cu dintra li tisori
chiù granni di lu munnu.
Traduzione
Se leggere tu sai …
Se leggere tu sai
gli incroci e le viuzze,
che vedi sul mio viso
disegnate vive,
se capisci il colore
degli occhi miei cangianti,
ora celesti e chiari,
ora grigiasti e ssc,
del naso l’arricciata,
quando mi guardi zitta
o la movenza dolce
della bocca che sorride,
allora veramente
possiedi la chiave giusta
per aprire uno scrigno
segreto e favoloso,
dove ci trovi quello
che speri sulla terra:
montagne immacolate,
vallate verdeggianti,
cielo turchino e terso,
mare sereno e ricco
di vita e di piacere,
con i tesori dentro
più grandi del mondo.
PARRA FULIPPA
Parra Fulippa, pi’ piaciri parra
ca siddu arresti muta c’è cu’ soffri
e bruttu mi talia si ti dicu
di staritinni muta e non parrari.
Cummogghia cu’ la vuci u marranzanu,
u scrusciu di lu ventu e la cascata
di l’acqua sciddicusa ca tuppia
subissa di paroli cu’ t’ascuta,
parrari t’è cuncessu si t’aggrada,
e diri ‘n-soccu voli u to pinseri,
ca siddu torna Chiddu, Diu ni scansa,
finisti appiddaveru di parrari.
Parra, pirtantu, finu a quannu voi,
sfoga la raggia ca ti senti dintra,
azzicca li paroli nta l’aricchi
di cu’ t’ascuta ed è cuntentu puru,
pirchì li frati italici di tannu
non davanu a li soru sta putenza
e risichi a turnari a stari muta,
a fari la quasetta attornu a conca,
isariti a faretta e nenti cchiui.
Traduzione
Parla Filippa
Parla Filippa, per piacere parla,
che se resti zitta c’ chi soffre
e di brutto mi guarda se ti dico
di rstartene zitta e non parlare.
Ricopri con la voce il marranzano,
il rumore del vento e la caduta
dell’acqua scivolosa che ribatte,
sotterra di parole chi t’ascolta.
Parlare t’è concesso se ti aggrada
e dire quel che vuole il tuo pensiero.,
che se ritorna Quello , Dio ne scansi,
finisci per davvero di parlare.
Parla pertanto fino a quando vuoi,
sfoga la rabbia che ti senti dentro,
appioppa le parole nelle orecchie
do chi t’ascolta ed è contento pure,
perché d’allora gll’Itali Fratelli
potere non ne davano a Sorelle
e rischi di tornare a stare zitta.
a rammemdar calzette intorno al fuoco
alzare la sottana e niente più.
Tantu, pi’ diri …
Quann’era ancora nicu e picciutteddu
a li vecchi purtai sempri rispettu.
Ora ca sugnu granni e vicchiareddu,
taliatu vegnu sempri cu’ suspettu
di ripurtari a corpa di punseddu
la malatia c’ammucciu nta lu pettu.
Cu’ la scusa ca sugnu patuteddu
e c’è bisognu d’essiri prutettu
nta jargia sugnu misu comu aceddu
e non mi ni lamentu, essennu rettu.
Ma non mi pari poi tantu beddu
di purtari d’appressu ssu suspettu,
ca ribattennu comu a lu marteddu
ti diventa mancanza di rispettu.
Finiu la paci e nun mi pari beddu
ca sugnu vivu senza lu rispettu.
Traduzione
Tanto per dire …
Quand’ero piccolino e giovincello
ai vecchi ho sempre dato il mio rispetto.
Adesso che son grande e vecchierello
guardato vengo sempre con sospetto
di riportare a colpi di pennello
la malattia che celo nel mio petto.
Con la scusa che sono un po’ patito
ed ho bisogno d’essere protetto
in gabbia sono chiuso come uccello;
non mi lamento, essendolo corretto,
Ma non mi sembra poi tanto bello
di portarmi appresso sto sospetto,
che rintoccando a colpi di martello
ti diventa mancanza di rispetto.
Finì la pace e non mi sembra bello
Che vivo resti senza alcun rispetto.
U ficu crocifissu
U focu, già lampia
e d’arrustìri fremi
li feddi priparati
di carni punsiddati.
La carni di l’agneddu,
pari di santificari
lu ficu ca murivu
comu lu Cristu in cruci
ed ora brucia lentu
di fumu profumannu
lu vecchiu fucularu
TRADUZIONE
Il fico crocifisso
Il fuoco già lampeggia
E freme d’arrostire
Le fette preparate
Di carne spennellate.
La carne dell’agnello
Santificare sembra
Il fico che guardava
Come Cristo in croce
Ed ora brucia lento
Di fumo profumato
nel vecchio focolaio
Cangia lu tempu no
La negghia lemmi lemmi
nta muntagna munta
e favula mi cunta
di l’acqua ca ci sfui.
L’aceddu chiù non vola
lu suli chiù non vidi
lu celu chiù non ridi
e chiantu già mi sfui
chinu di spaventu;
lu ventu si jttavu
lu mari si scantavu
la vista già mi sfui.
Già vinni primavera,
ma friddu si pizzia
e pari na pazzia
lu tempu ca mi sfui.
Il tempo cambia
La nebbia piano piano
Sulla montagna monta
E favola racconta
Dell’acqua che le sfugge.
L’uccello più non vola
Il sole più non vede
Il cielo più non chiede
E pianto già mi sfugge
Pieno di spavento
Il vento s’è buttato
Il mare s’è incantato
La vista già mi sfugge
Già venne primavera,
Ma freddo ancora c’è
Ed è calamità
Il tempo che mi sfugge
LA SCAMPAGNATA
AD ALGIRASSI
La cinniri a lu munti
alleggiu alleggiu scinni
e anniricannu tingi
la vigna e li trazzeri,
ca fannu prestu mustra
di luttu prufissatu.
Lu virdi già scumpari,
s’assuppa d’acquazzina
la simmula cascata
‘nta l’erva straburuta.
Bummia la muntagna,
ca pari na carcara
di focu ca fumia.
Lu suli cummigghiavu
lu fumu ca ni nesci
a forma di culonna
e pari lu pinnacchiu
di nuvula ammiscata
a nivuru vapuri.
Si grapunu l’umbrella
pi’ fari “arrusti e mangia”
attornu ‘o fucularu
pirchì la rina cala
e li tizzuna astuta
mentri nta l’aria senti
lu ciavuru di carni
ca fumicannu acchiana.
Cuperta la cannata
di vinu picciuttazzu
da vutti appena sfusu,
si vidi a tavulinu
ca scansa la cascata
di cinnirusa pici.
A sira, muti muti
a casa riturnammu
pinsannu siddu ancora
dumani la muntagna
finisc d’arruttari.
TRADUZIONE
LA SCAMPAGNATA AD ALGIRASSI
La cenere dal monte
pianin pianino scende
e già di nero tinge
la strada e la campagna,
che fanno presto mostra
di lutto professato.
Il verde già scompare,
si copre di rugiada
la semola caduta
sull’erba tramortita.
Rimbomba la Montagna,
che sembra una caldara
di fuoco fumigante.
Il sole già coprivo
il fumo che ne esce
a forma di colonna
e sembra nuvoloso
pennacchio di nerume
dipinto col vapore.
S’accendono gli ombrelli
per fare arrosto e mangia
attorno al focolare,
perché la sabbia cala
ed il carbone spegne,
mentre nell’aria senti
l’odore della carne,
che fumigando sale.
Coperta la cannata
di vino fresco fresco,
spillato dalla botte,
si vede a tavolino,
che scansa la caduta
di cenere peciosa.
A sera, zitti, zitti,
a casa ritornammo,
pensando se ancora
domani la montagna
finisce d’eruttare.
Di mia.
Ju sulu comu ferru vecchiu sciutu,
di nomu Pippu di li Nasca natu,
e ,‘nta lu munnu appena canusciutu
nta la vesti di puru pinsiunatu,
vaiu scrivennu cu’ sulerzia mutu
spirannu sulu d’essiri stimatu
non sulu comu ferru arrugginutu
ma comu nu scritturi raffinatu
Traduzione
Di me
Io solo come ferro vecchio noto
di nome Pippo de li Nasca nato,
e nello mondo appena conosciuto
nella veste di puro pensionato,
vado scrivendo con solerzia muto
sperando solo d’essere stimato
non solo come ferro arrugginito,
ma celebre scrittore raffinato .
Comu nascivu in celu
la via di lu latti.
La striscia di li stiddi ca nto celu
si vidi quann’è notti e pari latti,
ora vi cuntu comu idda nascivu.
Comu l’antichi greci ni cuntaru,
lu Patreternu di ddi tempi, Giovi,
si susivu tanticchia ‘ncazzateddu
na matina pirchì Giunoni dormi
ed iddu lu disiu lu pressa ‘ncuttu
di fari tricchi-tracchi in sichitanza.
Talia versu terra comu sempri
ed Alcmena vidi ca smania,
essennu ca cummatti lu maritu
luntanu centu migghia e nun la poti
pi’ certu accuntintari comu voli.
L’aspettu pigghia di l’anticu regi
e nta lu lettu acchiappa la rigina,
ca mancu veru ci paria lu fattu
di stari finalmenti tra li vrazza
di lu maritu ca luntanu stava.
A forza ‘i furnicari cu’ custanza
ad Alcmena la panza ci criscivu
ed Erculi nascivu picciriddu,
ch’era murtali ma menzu divinu.
Sintiti cosa fici patri Giovi
pi’ dari ad iddu l’immortalitati.
Mentri Giunoni in celu addrummisciuta
supra na stidda si ni stava nura,
lu figghiu avutu di straforu pigghia
e l’appizza a sucari nta lu pettu
lu latti santu ca ‘mmurtali renni.
Lu picciriddu, ca era già furzutu
pi’ naturali nascita divina,
a na minna s’appizza cu’ la vucca
e cu li manu l’autra afferra e stringi
accussì forti ca lu latti sgriccia
nto celu sparpagghiatu ed ogni sbrizza
diventa stidda rilucenti in massa.
Tantu latti sgricciavu cu li manu
ca stiddi ni nasceru na caterva
e ddocu ancora sunu senza fini.
Si nun s’avissi rusbigghiata in tempu
e l’avissi Giunoni alluntanatu
tuttu lu celu jancu addivintatu
avissi cancillatu puru a notti.
Li stiddi ca nasceru sunu ancora
nto celu ammunziddati e sunu tanti
ca parunu di latti na sgricciata,
tali e quali cuntavanu l’antichi
ca via di lu latti la chiamaru.
Traduzione:
Com’è nata in cielo la via lattea
La gran massa di stelle che nel cielo
si vede quando è notte e sembra latte,
adesso vi racconto com’ è nata.
Come gli antichi Greci ci hanno detto,
il padreterno di quei tempi, Giove
si leva una mattina incavolato
perché Giunone a letto dorme ancora
e a lui lo pressa forte il desiderio
di far ancor l’amore senza fine.
Guardando verso terra, come sempre,
Alcmena scorge un poco su di giri,
lontana dal marito che combatte;
son più di cento miglia e non la può
di certo accontentare come vuole.
Prende l’aspetto dell’antico Re
e la regina concupisce ignara,
che vero non le parse il fatto strano
di stare tra le braccia del marito.
A forza di star costante insieme al Dio
ad Alcmena la pancia le crescette
ed Ercole ne nacque piccolino,
ch’ era mortale e per metà divino.
Sentite cosa fece il padre Giove
per farlo diventare un Dio immortale.
Mentre Giunone in cielo addormentata,
sopra una stella se ne stava nuda,
il figlio piglia avuto clandestino
ed a succhiar le tette glielo attacca.
per berne il latte che immortale rende.
Il piccoletto, ch’’era già forzuto,
per naturale nascita divina,
ad una tetta con la bocca succhia
ed all’altra s’afferra con le mani
così forte da far sgricciare il latte
in cielo sparpagliato ed ogni goccia
diventa stella rilucente in massa.
Tanto latte si sparse per il cielo
Che di stelle ne spunta una caterva
e se ne sta ammassata senza fine.
Se non si fosse risvegliata in tempo
e non l’avesse Giuno allontanato
tutto il cielo bianccastro diventato
avrebbe cancellato anche la notte.
Le stelle nate dall’evento sono
ammassate nel cielo e sono tante,
che sembrano di latte una sgricciata,
tale e quale raccontano gli antichi
che via del latte la chiamaron tosto.
LA FINI DI JACI
Unni li scogghi stampigghiati a mari
Tu vidi scaramantici e putenti
ddocu., Polifemu e so’ cummari,
ancora prima c’arrivassi a genti,
ca l’occhiu tuttu ci abbruciavu ; pari
ca l’amuri facissiru cuntenti.
trasennu tutti nudi nta lu mari
cu’ l’acqua di lu ciumi prirumpenti.
Appena a Galatea vitti nura,
lu ciumi Jaci sùbitu impazzivu,
ca d’amurusu spinnu la calura
ci vinni , e cu’ viulenza la pigghiavu,
ma cu’ furcuta pala e granni cura
Pulifemu di lava lu cupriv
Traduzione:
La fine di Aci.
Dove gli scogli stampati nel mare
Tu vedi scaramantici e potenti,
lì, Polifemo con sta sua commare,
ancor prima dell’arrivo di gente
che l’occhio tutto gli bruciasse, pare
che facessero l’amore contenti,
entrando entrambi nudi nel mare
con l’acque del fiume prorompenti
Come vide Galatea tutta nuda,
Il fiume Aci subito impazzì,
che d’amoroso desiderio la caldana
gli venne e la prese con violenza.
ma con forcuta pala e grande cura
Polifemo di lava la coprì .
Scilla e Caridddi
Esti Cariddi figghia di Nettunu
ca l’acqua agghiutti e rimanna arreri
pirchì latruna addivintò di voi,
ad Erculi dunati da li Dei.
Scilla di petra addivintò lu scogghiu
pirchì l’amuri rifutò d’un Diu
ca valenti cuntava nta lu mari.
Unni Trinacria guarda e quasi tocca
la terra calabrisa cu’ li manu,
lu mari curri trùbulu cu l’unni
tra li du’ scogghi ca di fronti stannu.
Non hannu scampu i naviganti tutti,
ca pàssunu di ddocu, mischineddi,
pirchì Cariddi li so’ navi sbatti
contru di Scilla ca li sfascia tutti.
TRADUZIONE
Scilla e Caridddi
Era Cariddi figlia di Nettuno
che l’acqua inghiotte e la rimanda indietro
Perché ladrona diventò di buoi,
ad Ercole donati dagli Dei.
Pietra di scoglio ti diventa Scilla
perché l’amore rifiutò d’un Dio
che era molto potente dentro il mare.
Dove Trinacria guarda e quasi tocca
la terra calabrese con le mani
il mare corre torbido con l’onde
tra questi scogli che di fronte stanno.
Non hanno scampo i naviganti tutti,
che poveretti passano da lì,
perché Cariddi le lor navi sbatte
contro di Scilla che li sfascia tutte
Ulisse e Polifemo
-“NUDDU” sugnu
ca l’occhiu t’annurbavu,
lu Grecu Ulissi,
d’Itaca patruni,
a tia ca fusti
scemu e babbasuni.-
Gridava Ulissi
supra di la navi,
ca già la ripa
lesta abbannunava.
Allura Polifemu
cu l’occhiu lacrimanti
tri pezzi di muntagna
Jttavu a mari
versu di dda vuci.
Satavu in celu l’acqua
fatta a sbrizzi
e parti di lu mari
di scogghi cummigghiavu,
ca misi sunu
a ricurdari ancora
la raggia e lu duluri
di Polifemu,
c’annurbatu fu.
La storia è chista
di li faragghiuni
davanti a Trizza
misi a monumenti.
Traduzione:
Ulisse e Polifemo
“NESSUNO fu
che l’occhio t’accecò,
il Greco Ulisse,
d’Itaca padrone
o tu che fosti
scemo e credulone”
Gridava Ulisse
sopra della nave
che già la riva
lesta abbandonava.
Allora Polifemo
con l’occhio lacrimante,
tre pezzi di montagna
buttava a mare
verso quella voce.
Balzò nell’aria l’acqua
fatta a sbrizze
e parte di quel mare
di scogli ricoprivo
che messi sono
a ricordare ancora
la rabbia ed il dolore
di Polifemo,
che cecato fu.
La storia è questa
di quei Faraglioni
davanti a Trezza
messi a monumento.
Li frati Palici.
Quannu lu tempu vinni ca nasceru
li figghiastri di Giovi e di Thalia,
successi ‘ncataclisma veramenti.
Unni lu chianu si stinneva ‘ncuttu
nasceru sti muntagni sempri virdi,
ca sunu munti Palici chiamati
pi’ ricurdari d’essiri arrivati
a riturnari di lu scuru funnu
a vidiri la luci di lu munnu.
Li Palici, nasciuti comu mostri
di spiriti malefici e fitusi,
ni fannu di sta terra abbannunata,
di surfuru sparmata e di caluri,
lu sommu paradisu di l’aranci.
Supra sti munti tanfici nasciuti
accussì Pàlika nascivu bedda,
franca di liggi nta l’antichitati
e li misteri cilibrannu jeva
di sti fratuzzi ca di ccà nisceru.
Traduzione:
I Fratelli Palici
Al tempo della nascita arrivata
dei figliastri di Giove e di Thalia,
successe un cataclisma veramente.
Dove pianura si stendeva incolta
nacquero questi monti sempre verdi
che Palici chiamaro i montanari
per ricordare d’essere venuti
di ritorno dal buio più profondo
per ammirare della luce il mondo.
I Palici, che nacquero già mostri
di spiriti malefici e fetenti,
ne fanno d’una terra abbandonata,
di solfo spumeggiante e di calura,
il sommo Paradiso degli aranci.
Su questi monti tanfici cresciuti
Palika sorse superbosa e bella,
franca di leggi nell’antichità
ed i misteri celebrando andava
di questi Frati che di qua sortiro.
ACI E GALATEA
C’era na vota ‘n-ciumi, ca di l’Etna
scinneva e sciddicannu duci duci
a mari si jttava allegramenti,
unni cu’ l’acqua frisca di muntagna
a biviri ci dava cu’ piaciri
a la figghia di Nereu, so’ muggheri
Aci maritu e Galatea spusina
tra mari e ciumi stavanu cuntenti.
Li vitti Polifemu cu’ d’ucchiazzu,
ca tempu dopu Ulissi c’intuppavu,
e lu disiu ci vinni d’arrubbari
ad Aci la muggheri ch’era bedda.
Chinu d’amuri e raggia lu giganti
a jttari si misi cu’ la pala
ciumi di lava supra lu mischinu,
ca mori subbissatu di lu focu
e resta sula Galatea pirduta
nte manu ‘i Polifemu ca la voli.
L’afferra Polifemu assatanatu,
ca non lu frena cchiù lu ciumi siccu
né d’idda la chiangiuta prirumpenti.
Ni ficiru minnitta, tempu dopu,
ca l’occhiu c’intupparunu li Dei
pi’ manu di lu Grecu pellegrinu.
Traduzione
ACI E GALATEA
C’era una volta un fiume che dall’Etna
scendeva e scivolando dolcemente
a mare si buttava allegramente,
dove con l’acqua fresca di montagna
la figlia di Nereo, sua consorte.
Aci marito e Galatea sposina,
tra mare e fiume stavano felici.
Li vide Polifemo con l’occhiaccio,
che tempo dopo Ulisse gli tappò
ed il desio gli venne di rubare
ad Aci la sposina che era bella.
Pieno d’amore e rabbia quel gigante
A buttare si mise con la pala
Fiumi di lava su quel poverino,
che scompare asciugato dalle fiamme
e resta sola Galatea smarrita.
nelle mani del mostro che la strupa.
L’afferra Polifemo assatanato,
che non lo frena più il fiume secco,
né d’ella il pianto prorompente e forte.
Ne fecero vendetta, tempo dopo,
che l’occhio gli tspparono, gli Dei
per mano del fuggiasco e furbo Ulisse.
ALFEU ED ARETUSA
Mentri cacciava Alfeu nta lu campu
vttti Aretusa ca lu bagnu faci
nta l’acqua tutta nura senza scantu
e subitu d’amuri s’addumavu
Iddu l’afferra e si la vasa tutta,
ma chidda s’alluntana e poi ci dici:
“Sugnu Aretusa, ninfa di la caccia,
Aviri non mi poi pi’ muggheri
ca data sugnu a la divina matri”.
Lu bagnu si faceva nta na vasca
la ninfa mentri parra e chiddu arriva.
Scappa Aretusa e curri dritta a mari,
facennusi di rivu un turrinteddu
D’appressu curri l’amurusu Alfeu.
ca si trasforma in ciumi cchiù putenti
e beddu ca si tumma nta lu mari,
l’abbrazza e si la vasa tutta para.
Nettunu li marita in santa paci
e nesciunu filici tutti e dui
a Siracusa, dunni ancora sunu
abbrazzati nta l’acqua e lu papìru.
Traduzione:
ALFEO ED ARETUSA
Mentre cacciava Alfeo in mezzo al campo
vide Aretusa che faceva il bagno
nell’acqua tutta nuda ed indifesa
e subito d’amore s’infiammò.
Egli l’afferra e se la bacia tutta,
ma quella s’allontana e poi gli dice:
-Sono Aretusa, ninfa della caccia.
Avere non mi puoi come sposa,
per voto fatto alla mia madre Dea.
Il bagno si faceva nella vasca
la ninfa mentre parla e quello arriva.
Fugge Aretusa e corre dritta a mare,
facendosi di rivo un torrentello.
Le corre dietro l’amoroso Alfeo,
che si trasforma in fiume più veloce
e bello che si tuffa dentro il mre,
l’abbraccia e se la bacia tutta quanta.
Nettuno in santa pace li marita
ed escono dal mare entrambi lieti
a Siracusa, dove ancora sono
abrracciati nell’acqua col papiro
ENCELADU
Quannu Giovi nto tronu s’assittavu,
di l’Olimpu, filici vincituri,
l’occhi vutavu versu terra ancora
e vitti Enceladu acchianari in celu
li nuvuli satannu a quattru a quattru.
- Nautru n’arriva –dissi – beddu tisu
di sti mulesti terroristi in celu!
Ora l’abbersu comu si cunveni. –
La cima afferra di lu munti Olimpu
e cu la forza ch’era straputenti
la jetta supra a lu giganti tutta.
Sta gran pitrazza, ch’era grossa assai
supra d’Enceladu cascavu a tappu,
c’arruzzulannu, a mari lu tummò
e comu Cristu in cruci vinni misu.
La cima di l’Olimpu in coddu casca
ed iddu resta impiccicatu a mari,
la vucca aprennu e vumitannu sangu.
E’ daccussi ca nasci la Sicilia,
ca teni incatinatu stu giganti,
ca quannu s’arrimina jetta focu
e lava manna in celu di la vucca
ca Mungibeddu fu chiamata dopu.
Traduzione
ENCELADO
Qundo Giove sul trono si sedette
Dell’Olimpo, felice vincitore,
l’occhio rivolse verso terra ancora
e vide Encelado salire in cielo
le nuvole saltando a quattro a quattro.
-Ne arriva un altro-disse –bello dritto,
di questi molesti terroristi in cielo!
Ora l’aggiusto come si conviene.-
La cima afferra del superbo Olimpo
E con la forza ch’era travolgente
La butta intera sopra quel Gigante.
Questa gran pietra, ch’era grossa assai
sopra d’’Encelado cadette a tappo
che ruzzolando in mare lo piombò
e come Cristo in croce venne messo.
Dell’Olimpo la cima lo ricopre
ed egli resta spiaccicato a mare,
la bocca aprendo e vomitando sangue.
Ed è così che nasce la Sicilia,
che incatenato tiene quel Gigante
e quando si muove butta fuoco
e lava manda in cielo dalla bocca
e Mongibello fu chiamato dopo.
DEMETRA E KORE
(ovvero lu rattu di Proserpina)
C'era na vota na picciotta schetta
de' parti di Enna, la liggenda voli,
di na Dea figghia sula prediletta
ca nta 'nu pratu arricuggheva violi.
Appari, quannu menu si l'aspetta
l'orribili Plutoni tra cannoli
di fumu inturciddatu e l'aria infetta
d'insurfaratu fetu e, li paroli
chiù tristi farfagghiannu, l'assicuta
e subitu nto 'nfernu si la porta.
Mentri grida la figghia: su' pirduta!,
accurri la matri e chiangila pi’ morta.
Lu dogghiu è tali ca lu suli astuta
e la stagioni di l'invernu è sorta.
Traduzione:
DEMETRA E KORE
(ovvero il ratto di Proserpina)
C’era una volta una ragazza nubile,
nativa d’Enna, la leggenda vuole,
ch’ era figlia prediletta d’una Dea.
Mentre nel prato raccoglieva viole
apparve quando meno se l’aspetta
l’orribile Plutone tra le fole
di fumo a torciglioni e l’aria infetta
di zolfo puzzolente e le parole
più brutte farfugliando, la rapisce
e subito all’inferno la conduce.
Mentre grida la figlia: son perduta,
la madre viene a piangerla per morta.
Il duolo è tale d’adombrare il sole;
nasce così d’inverno la stagione
COLAPISCI
Scinnivu Colapisci
nto funnu di lu mari
e juntu finu a jusu
pi’ ripurtari a galla
l’aneddu di lu Regi,
cu’ l’occhiu, ch’era lestu,
Piloru vitti tostu,
ch’era menzu ruttu
e si firmavu allura
pi’ fari di sustegnu
a l’isula cadenti
e ddocu ancora resta
e la manteni a galla.
Lu vrazzu addivintò
culonna di putenza
e Cola la figura
di cu’ la vita duna
pi’ la Sicilia nostra.
Traduzione
COLAPESCE
Discese Colapesce
In fondo al mare
e giunto fin laggiù
per riportare a galla
l’anello del Re
con l’occhio , che era lesto,
tosto vide il Piloro
ch’era mezzo rotto
allora si fermò
per fare da sostegno
all’isola cadente
e restò quivi
per mantenerla a galla
Il braccio diventò
potenza di colonna
e Cola la figura
di chi la vita dona
per la Sicilia nostra.
La leggenda di Cola Pesce
Unni si cunta ca Cariddi e Scilla
a tutti l’uri fannu mulineddi
cu’ l’acqua di lu mari ballarinu,
si parra puru ca campassi ddocu
facennu ‘u piscaturi ‘n-omu forti
ca si chiamava Cola, dittu Pisci,
pirchì piscannu pisci cu’ la riti
nto mari si tummava senza scantu
e d’iddi ni pigghiava ‘na caterva.
Lassàvanu natari a Colapisci
Scilla e Cariddi senza fari dannu,
pirchi spiranza nasci ‘nte so’ cori
d’avirlu pi’ maritu qualche vota,
ca fimmini arristàru li du’ mostri,
ca trasfurmati fòru pi’ magia.
Di pisci veramenti avia l’aspettu
stu granni piscaturi missinisi,
ca manu e peri sunu veri pinni,
apposta fatti pi’ natari a mari.
Ristava a moddu tra li scogghi a ripa
e nta lu mari funnu, lu cchiù funnu,
e dintra l’acqua pari ca jucassi
facennu trinchillanza cu’ li pisci.
Lu sappi stu discursu Federicu,
Suvranu di l’imperu di ddi tempi.
ca vinni nta citati di lu strittu
pi’ vidiri piscari a Colapisci.
Ci dissi, appena vitti ddu purtentu:
-Dici la genti ca piscari sai
Tuttu quantu nto mari s’arritrova.
Videmu siddu è vera sta manfrina.
Riportami ccà, sutta a li me’ peri,
sta cascia china d’oru ca t’ammustru
e poi la jettu dunni si ni cala,
nto mari lu cchiù funnu di sti parti.
Si tumma Colapisci cu’ sulerzia
turnannu a galla cu’ la cascitedda
ca fu jttata a mari di lu re.
-Bravu! – ci dissi Federicu allura –
Videmu si mi trovi st’autra cosa,
ca a mari jettu senza cumplimenti. –
ed accussì dicennu la curuna,
pigghiata di la testa, jetta a mari
Non si scumposi ancora Colapisci,
ca risulutu scinni a mari e torna
mustrannu tra li manu la curuna.
-Videmu - dissi lu sommu Federicu –
si ripurtari sai l’aneddu d’oru
ca portu nta lu jtu ed è nicuzzu.
-ed accussì dicennu, comu fussi petra
Nto mari lu subissa e poi s’assetta.
Aspetta cu’ pacenza e cu’ custanza
ca Colapisci ritunassi a galla.
Tummavu Cola nta lu mari funnu,
circannu di truvari l’anidduzzu,
ma mentri scinni finu a jusu vitti
ca la culonna sutta di Missina
era cadenti e stava pi’ cascari.
Non ci pinsò du’ voti Colapisci
a teniri cu’ forza lu pilastru
ed arristari ddocu eternamenti,
pirchì non affunnassi la Sicilia.
Pari ca fussi ssa colonna rutta,
‘nu vrazzu di Tifeu, lu giganti,
ca cunnanavu Giovi tempu arreri
ad essri sustegnu nta lu mari
di la Sicilia nostra terra amata.
Di sta liggenda ni parrò Calvino
scritturi allittiratu tempu arreri
dicennu ca si cunta peri peri
sta storia di Nicola e Federicu,
Ma siccomu cu cunta e cu ricunta
ci jungi sempri a junta o cangia i cosi,
si dici ca lu granni Federicu
scantatu ca Sicilia scumparissi
a Colapisci, ch’ era catanisi
ci dissi chiaru, chiaru ca scinnissi
nto mari suttastanti la muntagna
ed accussì astutassi ‘u fucularu
e Catania sarvassi di lu focu.
-Sissignura - ci dissi Colapisci-
- ‘u fucularu astutu da muntagna.
Catania è salva, ma bruciatu restu
e cchiù non tornu a galla pi’ cuntarlu.-
A mari si tummavu Colapisci
purtannusi d’appressu nu vastuni.
Lu tempu passa ma non torna a galla
ca sulu lu vastuni bruciacchiatu.
Traduzuione
La Leggenda di Colapesce
Dove si narra che Cariddi e Scilla
a tutte le ore fanno mulinelli
con l’acqua del mare ballerino
si dice pure che vivesse lì
facendo il pescatore un uomo forte
che si chiamava Cola detto Pesce
perché pescando pesci con la rete
nel mare si buttava senza ambascia
e di essi ne prendeva una caterva.
Lasciavano nuotare a Cola Pesce
Scilla e Cariddi senza fargli danno
perché speranza nutrono nel cuore
d’averlo per marito qualche volta,
ché femmine restaro questi mostri,
che trasformati furo per magia.
Di pesce veramente avea l’aspetto
sto grande pescatore messinese,
cui mani e piedi sono vere pinne
apposta fatte per nuotare a mare.
Restava a mollo tra gli scogli a riva
e nel profondo mare, lo più fondo,
sembrava che giocasse dentro l’acqua
giocando allegramente con i pesci.
Lo seppe Federico sto discorso,
sovrano dell’impero di quei tempi
che Messina raggiunse sullo stretto
per vedere pescare Colapesce.
Gli disse appena vide quel portento:
-Dice la gente che pescare sai
tutto quanto nel mare si ritrova.
Vediamo se l’è vera questa fiaba.
Riportami qua sotto I piedi miei
sta cassa piena d‘oro che ti mostro
e poi la butto dove se ne scende
nel mare ch’è più fondo in questo punto.
Si tuffa Colapesce con solerzia
tornando a galla con il cofanetto,
che fu buttato al mare dal sovrano.
-Bravo! – gli disse Federico allora -
Vediamo se mi trovi un’altra cosa,
che butto a mare senza complimenti. –
E ciò dicendo la corona afferra
dalla testa buttandola nel mare.
Per nulla ancor turbato Colapesce,
che scese ben deciso a mare, torna
mostrando tra le mani la corona.
-Vediamo – disse il sommo Federico
Se riportare sai l’anello d’oro,
che porto all’anulare ed è minuto –
Così dicendo, come fosse pietra,
lo butta a mare e poi si siede in trono.
Aspetta con pazienza e con costanza
che Colapesce ritornasse a galla.
Si tuffa Cola nel profondo mare,
Cercando di trovare l’anellino,
ma mentre scende su quel fondo vede
che la colonna sotto di Messina
era cadente e stave per cadere.
Non ci pensò due volte Colapesce
a puntellar con forza quel pilastro
e lì restare per l’eterntà,
perché non sprofondasse la Sicilia.
Sembra che fosse la colonna rotta,
un braccio di Tifeo, condannato
dal sommo padre Giove a sostenere
in mare la Sicilia terra amata.
Della leggenda ne parlò Calvino,
crittore letterato tempo addietro,
dicendo che si narra in ogni luogo
la vicenda di Cola e Federico,
ma siccome chi narra e chi rinarra
qualcosa aggiunge o cambia senza meno,
si dice che quel grande Federico
temendo che Sicilia scomparisse,
a Colapesce, che era catanese,
gli disse chiaro, chiaro che scendesse
nel mare sottostante la Montagna
a spegnerne per sempre il focolare
e Catania salvasse dalla lava.
-Sissignore – gli disse Colapesce –
Il fuoco spengo sotto la Montagna
Catania è salva, ma bruciato resto
e più non torno a galla per narrarlo.-
A mare si tuffava Colapesce
portandosi d’appresso un bel bastone.
Il tempo passa ma non torna a galla
che solo quel bastone bruciacchiato
Parra Fulippa
Questo il testo del Manzoni: L’addio ai monti di lucia.
Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme;l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose;le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.Questa la mia poesia in siciliano
L’Addiu a li munti di Lucia.
Addiu , muntagni persi
fora di l’acqua sciuti,
e sparpagnati in celu;
cimi diversi, noti
a cu’ tra vuautri crisci,
e fissi nta la menti
comu parenti siti;
turrenti vurticusi,
di cui lu scrusciu senti,
comu chiddu ca fusssi
di la secunna casa;
villini janchi e russi
d’attornu sparpagghiati,
comu a lu maggiu pecuri;
addiu, pi’ sempri addiu!
Quantu è bruttu lu passu
di cu’,vi vitti crisciri
e s’alluntana e manca!
A la manera stissa
di chiddu soru, soru,
ca si ni va cuntentu
cu’ la spiranza certa
d’aviri cchiù furtuna
nta nautra terra nova
e nta lu stissu tempu
chiangi e bruttu ci pari
circari la spiranza
di divintari riccu,
si meravigghia tostu
di la so’ decisioni
e vulissi turnari
arreri e non pinsari
ca riturnassi ‘n-jornu
riccu. filici e chinu.
Quantu cchiù lu chianu vidi,
tantu chiiù l’occhiu stancu
arreri si ritira
scuntentu e straburutu
di dda viduta sempri
pariggia e scunsulata;
l’aria morta ci pisa;
s’avvia scuntentu e mutu
versu di l’abitatu;
li casi a casi accantu,
li strati a strati dopu
ci levanu lu ciatu,
vidennu li palazzi
ca lu frusteri ammira,
ripensa amaramenti
all’ortu nicareddu
di lu so paisi anticu,
a dda casa nicuzza
ca pensa d’accattari
quannu riccu ritorna
tra sti muntagni amati.
Cu’ non ha statu mai
‘na sula vota almenu
di sti pinseri afflittu
si malasorti agghica
all’antrasatta e premi!
Cu’ , alluntanatu a forza
di parenti e amici
nun ha pruvatu mai
lu perfidu frastornu
di perdiri spiranza
e fidi di turnari
a vidiri sti munti,
assicutannu cosi
ca canusciri ‘un vuleva
e poi mai, mai pinsari
lu mumentu precisu
di putiri turnari
a rividirli ancora.
Addiu casa nativa,
unni assittatu soru,
cu’ pinseri ammucciati
s’imparava a capiri
senza sapirli ancora
tra l’ascutati passi
chiddi vuluti forti
e chiddi non graditi.
Addiu casa furastera,
casa taliata a casu
di cursa tanti voti
passannu cu’ disiu,
ca la menti pinsava
di viviri tranquilla
in vesti di muggheri.
Addiu Chesa di Diu,
dunni sirenu l’animu
turnò cantannu lodi
a lu Signuri in cruci;
unni era già prumissu
e priparatu ‘n-ritu,
unni ammucciata in pettu
nutreva la spiranza
d’avirlu binidittu
e vidiri agghicatu
l’amuri decretatu
perenni e santu; addiu!
Tanta filicità
ca li muntagni dunanu,
lu è pi’ tuttu e giova
puru a li figghi dopu,
ca trovanu ‘na vita
assai cchiù duci e granni.
Sproloquiando sulle Illusioni con una mia amica, mi è venuto in mente il ricordo di un grande assertore delle illusioni, come panacea del pessimismo che affligge l’umanità: Ugo Foscolo. Questo poeta romantico, superò il pessimismo, che affliggeva il Leopardi , grazie alle illusioni. Per lui anche l’amor di patria era un’illusione … Lo voglio ricordare facendovi leggere una mia rivisitazione della sua opera più significativa in siciliano.
I SEPOLCRI
Di Ugo Foscolo.
All’ummira di l’arvuli pizzuti,
sutta petri di chiantu cunfurtati,
è menu tintu u sonnu di la morti?
Siddu pi’ mia lu suli la finissi
di nutricari cu lu so caluri
sta terra ricca d’erbi e d’animali
e si mi capitassi di firmari
l’anni futuri di la vita mia
e d’accussì nun ascutari chiùi
lu sonu arcanu di li versi toi
ed iu stissu finissi di cantari
l’ amuri beddu di l’antichi vati,
unicu spinnu di lu me’ campari
privu d’affetti e di la patria mia,
pensi ca stari misu sutta terra,
dintra na tomba allicchittata e tali
di renniri distinti l’ossa mei
di l’autri morti sparpagghiati in terra,
dunari mi putissi gran ristoru?
E’ veru sulamenti o Pindemonti
ca puru l’ultimu spinnu di l’ omu,
la spiranza, li tombi sfuggi e lu tempu
li cummogghia di l’ ummira murtali
assemi all’ossa ca su’ dintra misi,
ca cangianu d’aspettu e sunu santi.
Ma pirchì l’omu ancora vivu trema
pinsannu di muriri all’antrasatta?
Non campa forsi sutta terra misu
si la luci ci agghica nta lu pettu
di lu pinseri di li so parenti?
Non sulu bedda ma divina pari
sta rispundenza d’amurusi sensi
ca fa campari cu l’amicu mortu
e sentiri li cosi ca pruvava
quann’era vivu, si lu corpu giaci
sutta la terra matri ca l’accogli
all’ummira di ‘n-arvulu frunzutu,
sutta nu cippu di sculpita petra
ca lu difenni di l’offisa gravi
di lu scunchiusu tempu e di lu volgu.
Sulu cu ‘un lassa eredità d’affetti
nun havi cura di la tomba quannu,
sia ca, spirdutu, dopu di la morti
tumma nta l’infirnali strati oppuru
si godi u Paradisu nta lu celu,
ed abbannuna lu so’ corpu fremmu
a la disolazioni di lu tempu
senza ascutari vuci di cu’ chiangi
supra na tomba leggia, c’ammustrari
non poti la so’ facci e lu so’ vantu.
Di cancillari all’occhi di la genti
la nova liggi imponi li sepolcri
e di nun ammiscari morti e vivi
dintra li mura di li borghi antichi.
Pi’ chistu giaci senza tomba giusta
ddu gran sant’omu, ca pi’ tia, Talia,
virdi chiantavu d’arvuli nta terra
na caterva d’eternu e santu alloru ,
facennuti curuni c’appizzava
supra l’artaru ca t’apprisintava
e tu divina di la to biddizza
ad iddu lu surrisu ci ammustravi.
Ora non vidu la to facci e mancu
lu ciavuru cchiù sentu di l’ambrosia
ca tu spannevi tra li rami, o Musa,
di st’arvuli ca sunu spogghi e nudi
senza guardari l’onorata tomba
di lu gran vecchiu, c’addumari tutta
di luci e di grannizza ormai non puoi.
Forsi tu vaghi erranti tra li fossi
di Campusanti novi e cerchi invanu
lu postu scanusciutu dunni posa
la sacra testa e dormi u to Parini,
di sangu lurda pi’ tagghiati testi,
di genti ca murivu dicullata.
Forsi tu senti l’arraggiati cani
arriminari l’ossa scummigghiati
e la civetta nesciri gracchiannu
di ‘n-abbannunata crozza nta la terra
e svulazzari tinta in celu ancora
tra l’arvuli pizzuti ed a li stiddi
cuntistari la luci ca si vidi
luntanu di li cruci sparpagghiati
nta campagna senza nomu e paci.
Vani sunu li sbrizzi d’acquazzina
e li prigheri ca la notti spanni,
pirchì nun nasci mai supra li morti
nuddu ciuriddu ca non posi l’omu.
Di quannu l’omu fu custrettu a dari
la giusta sepultura a cu’ mureva,
privannu belvi d’impietosu pastu,
fastusi tombi foru fatti in casa
c’altari sunu di l’umanitati
pi’ cilibrari antichi fatti e patria
e nta li chesi tumulati foru
li morti sutta di lu pavimentu
senza ca nuddu lamintari intisi
lu fetu di lu catalettu e mancu
di fantasimi l’appariri mestu.
Fu daccussì ca nta l’antichi corti
sarbati foru pi’ l’eternitati
li corpi di la genti ca cuntava
ed iu spirava di truvari in casa
‘n-agnuni nica dunni ripusari,
secunnu la buntati di cu’ campa
ca cilibrari voli lu ricordu.
A santi cosi addumanu la menti
li tombi di la genti ca fu forti
e fannu cumpariri a tuttti granni
la terra ca li serba o Pindemonti
Ju quannu vitti la tomba di dd’omu
c’ammustra quantu sunu tinti e latri
li guvirnanti in capu, dicennu comu fari
pi’ stari a galla, oppuru i monumenti
di chiddu ca dda bedda Chesa fici
a Roma pi’ li Santi e di chidd’autru
ca lu misteriu di lu firmamentu
canusciri ni fici finalmente.
gridai cuntentu cu’ li vrazza in celu:
“terra filici si’ o patria mia,”
pi’ tuttu chiddu ca natura ammustra
di ciumari ca d’Appenninu scurrunu
e di gioghi e terri assulati e ricchi
di casi, di vitigni ed autri pianti
e puru tu Firenzi ca sintisti
li versi prima di to’ figghiu Danti
e chiddi di Petrarca ‘nnammuratu,
ma chiù di tuttu pi’ chiddu c’ ammustri
di monumenti ed opiri superbi,
ch’è valurusu vantu, cancillatu
non pututu di genti supirchiusa,
c’ oscurari non sannu u to valuri.
E, siddu ci ni veni vuluntati
e spinnu, cca venunu l’italiani
a sentiri lu stimulu d’onuri.
Ccà, unni l’Arnu e cchiù desertu, vinni
Vittoriu Alfieri, ad ispirarsi quannu
currucciatu sinteva lu duluri
pi’ la pirduta paci ed ora mutu
eternamenti vivi e l’ossa soi
sunu d’amuri pegnu sempri vivu
pi’ chista nostra amata Patria granni.
Ah,si! Supra di st’ossa appari e parra
lu Numi di l’amuri pi’ la Patria,
chiddu stissu quannu Persiani e Greci
li vitti cumbattenti a Maratona.
Lu marinaru tannu ca lu mari
passau vicinu a l’isula d’Eubea,
vitti lu scintilliu di spadi e d’elmi
ca ‘si scuntravanu tra d’iddi, focu
d’accatastati piri pi’ li morti
e curriri cavaddi scalpitanti
supra li morti stinnicchiati in terra,
mentri lu sonu si sinteva forti
di li trummi strepitanti e lu cantari
di li vuci vilati di la morti.
Ancora tu, Ippolito filici,
pirchì stu mari navigatu fu
di tia picciottu e vidiri putisti
li furtunati costi d’Ellespontu,
unni si cunta ca ristaru l’ossa
d’Aiaci nta lu funnu ‘nsemi all’armi
ca d’Achilli foru e nun ebbi Ulissi.
E puru ju filici, pirchì disiu
Iri mi faci randagiusu e tristu
ca mi scigliu la Musa pi’ parrari
d’antichi eroi nta stu munnu novu.
Unni deserti e ruvinusi mura
di tombi fannu mustra di l’antichi
nostri Patri, ca vinniru di Troia,
custodi sunu li divini Musi,
ch’ etrnamenti dunanu valuri
a chista nostra disulata terra.
Comu sti petri assuntumati e tristi
ricordanu l’imprisi di li Greci,
ma serbanu nta l’urni li Penati
di chiddi ca mureru cummattennu
e non sunu e non furunu scurdati,
accussì facemu eterni li tombi
de nostri antichi Patri e Dei Penati
e nun facemu ca secunna Troia
divintassi la nostra amata terra.
E vui, palmi e cipressi, ca li nori
di Priamu cu’ lacrimi crisceru,
l’urni cupriti di li nostri patri
e d’ummira non fatili suffriri
e nuddu s’azzardassi di sciancari
cu’ l’accetta li zucca e li ramagghi
pirchì diventa piccaturi forti
contru natura , Patria ed anchi Diu.
Guardiani siti di li nostri patri
e nun cissati di ristari ddocu
finu a quannu d’Omeru nautra vota
arrivari viditi traballanu,
la figura ca trasi nta li tombi
ed addumanna a chiddi ca ci sunu
la storia di la morti e di la vita.
Li tombi allura tremanu d’arduri,
parrannu ancora di la persa Troja
e la vittoria di l’antichi Greci.
Ed Ettori di chiantu havi l’onuri,
unni è cunsidiratu sacru u sangu
virsatu pi’ la patria e finu a quannu
di luci u suli chista terra inonda.
La mia terra è sui fiumi stretta al mare, dice Quasimodo. Parla della Sicilia, ma la sua memoria più valida ne è il mare di Siracusa, la foce dell’Imera, i pianori d’Acquaviva dove il Platani rotola conchiglie. Ma la mia terra, la mia Sicilia, non ha fiumi, e dal mare è lontana come se fosse al centro di un continente
Leonardo Sciascia
APPUNTI DI GRAMMATICA SICILIANA
NOMI
I nomi di cose in siciliano sono maschili e femminili. Generalmente, al singolare quello maschile finisce per “u” , quello femminile per “a”.
Al plurale sia il maschile che il femminile feniniscono per “i”
Esempi:
Al singolare: ‘a strata (la strada) , al plurale: i strati
“ ‘u cannistru (il cesto), “ i cannistri
AGGETTIVI
Gli aggettivi seguono le stesse regole dei nomi ai quali si accompagnano
AGGETTIVI DI POSSESSO
Mio, tuo suo ( italiano singolare) in siciliano miu, me’, to’ so’
Mia, tua, sua “ “ mia, me’, to’, so’
Miei, tuoi, suoi (singolare plurale) in siciliano i me’, i to’, i so’
Esempi: mio nonno à me’ nannu
Mia nonna -à me’ nanna
Questo è mio -à Chistu è miu ---- Questa è mia -à chista è mia
I miei nonni, i tuoi, i suoi --à I me’ nanni, i to’, i so’
AGGETTIVI DIMOSTRATIVI
Qesto, codesto, quello -à Chistu , chiddu. Al feminile chista, chidda
Al plurale sia maschile che femminile: chisti, chiddi
PRONOMI PERSONALI:
Io tu egli noi voi essi -à Iu, tu, iddu, nui (nuautri), vui (vuautri), iddi
ARTICOLI DETERMINATIVI
Il, lo, la -à i, lu, la, (nelle lu e la a volte la l si elide e diventano:‘u ‘a )
Inoltre lu e la si apostrofano quando sono seguite da una parola che inizia per vocale e diventano l’
Esempi: ‘u nannu (il nonno) ‘a nanna (la nonna) , i nanni ( i nonni, le nonne). L’acqua (l’acqua) … L’omu ( l’uomo)
Al plurale i gli le -à i , li
Pertanto è chiaro che il siciliano distingue il maschile ed il femminile soltanto al singolare, mentre al plurale non fa alcuna distinzione.
ARTICOLI INDETERMINATIVI
Un, uno, una -à ‘nu ‘na; “un” può anche essere scritto ‘n-(nome)
Esempi: Un mondo -ànu munnu oppure ‘n-munnu . Inoltre nu e na apostrofano se seguiti da un nome che ha inizio per vocale: Esempi: ‘n-arvulu (un albero). In alcuni casi la u e la a scompaiono e la n si lega alla parola come in questi esempi:
un altro, un’altra -à nautra, nautru
VOCALI
Le vocali in siciliano sono come quelle italiane: a,e,i,o,u . Attenzione il suono delle vocali non corrispondono a quelli inglesi, ma a quelli italiani.
Le particelle di,a,da, in, per, con, su –tra à di,a, da, in, pi’, cu’, supra , tra e come in italiano possono unirsi agli articoli: con dei leggeri cambiamenti del, dello, della -à di lu ( che può anche essere du), di la ( o anche da)
Degli, delle -à di li stesse regole anche per le altre particelle con gli articoli determinativi ed indeterminativi.
NEGAZIONE
La nagazione in siciliano si ottiene mettendo “nun” prima del verbo
No, non, mai --à no , nun, mai . -- nun può anche risultare ‘un
Esempi:
Non me lo dire -à Nun mi lu diri.
Non mi pare vero! -à ‘un mi pari veru!
Dico la verità -à dicu lu veru . Non dico la verità -à nun dicu lu veru
PRONOMI RELATIVI
Che -à ca Esempio: le cose che ti dico -à i cosi ca ti dicu
VERBI
Il siciliano nel coniugare i verbi generalmente non usa il congiuntivo.né il condizionale indicativo, né tanto il futuro, sostituendoli di preferenza col presente indicativo. – Vi sono verbi regolari ed irregolari come in italiano ed anche i due verbi ausiliari essere -àessiri ed avere -à aviri
Coniugazione di essiri
Io sono -à iu sugnu. Tu sei -à tu si’. Egli è -à iddu è
Noi siamo -à nui semu. Voi siete ---Vui siti
Io ero, tu eri, egli era, noi eravamo,voi eravate, essi erano si traducono in
Iu era tu eri iddu era nui eravamu vui eravati iddi eranu
Io fui tu fosti egli fu, noi fummo voi voste essi furono si traducono in
Iu fui, tu fusti, iddu fu, nui fummu, vui fosti, iddi furunu.si può ricorrere anche al passato remoto con l’ausiliario aviri (ma anche essiri) ed il participio passato “statu”
Iu haiu statu, Tu ha statu iddu ha statu nui avemu statu, vui aviti statu iddi hannu statu oppure iu sugnu statu , tu si’ statu, iddu è statu nui semu stati vui siti stati, iddi sunu stati
Verbo ausiliare aviri
Io ho, tu hai egli ha noi abbiamo, voi avete essi hanno si traducono in
Iu haiu, tu hai, iddu havi, nui avemu, vui aviti, iddi hannu
Io avevo, tu avevi, egli aveva, noi avevamo, voi avevate, essi avevano -à
Iu avevu, tu avevi, iddu aveva, nui avevamu, vui avevate, iddi avevanu
Io ebbi, tu avesti, egli ebbe, noi avemmo, voi aveste, essi ebbero -à
Iu haiu avutu, tu hai avutu, iddu havi avutu, nui avemu avutu, vui aviti avutu, iddi hannu avutu
Non mi dilungo sui verbi irregolari perché il siciliano , se può ricorre sempre ai verbi ausiliari aggiungendo il participio passato.del verbo che fa l’azione od anche l’infinito.
ANALISI LOGICA
Le regole sono come quelle italiane: ogni periodo è composto da un nominativo soggetto che compie l’azione, da un verbo che esprime l’azione e dei vari complementi che possono essere d’oggetto, di termine, ecdi luogo , ecc., ecc.
Ad ogni periodo principale, possono essere aggiunti periodi secondari collegati con pronomi relativi ed altro.
La punteggiatura è come in italiano
Concettualmente il siciliano altro non è che una lingua neolatina parallela all’italiano, al francese, allo spagnolo ed anche al romeno, cioè, è una volgarizzazione della lingua latina, venuta a contatto con altre parlate dei Galli, del Celti, ed altri popoli detti in genere “barbari”