“Mi… e chi è na Basilissa?!” Avete mai sentito questo termine a Catania? Io si. Nel vecchio cortile dove abitavo da ragazzo, sentivo spesso ripetere questa frase a “Donna Mara a Cattagirunisa” tutte le volte che vedeva un bel pezzo di ragazza. Molto tempo più tardi ad un mio ex dipendente, riferendosi ad una sua collega più giovane di cui diceva peste e corna sentii dire: “chissa è ‘na basilissa! Mi stassi attentu a chiddu ca fa!” Un’altra volta sentii ripetere ad una donna vecchissima: “megghiu viva, ca Basilissa.”
Per ben tre volte nella mia vita sentivo questo termine, riferito ad una donna, senza capirne l’effettivo significato. Ovviamente Donna Mara intendeva dire che si era in presenza di una bella donna. Il secondo certamente riferiva il termine ad una donna infida. La terza ovviamente si riferiva a qualcosa che aveva a che fare con la vita e con la morte. Ma da dove veniva questa parola? Chi era questa Basilissa e come mai veniva citata con prerogative e caratteristiche diverse? Da ricerche glottologiche eseguite nel mio piccolo, ho scoperto che il riferimento a “Basilissa” in Sicilia non avviene punto in alcun altro luogo tranne che a Catania. Solo a Catania è noto questo paragone di una donna a “Basilissa” o per lo meno lo era, poiché da parecchio non l’ho più sentito ripetere.
Molto più tardi ho appreso che questo appellativo era riferito a Persefone, o Kore in una antica città greca dell’Arcadia, chiamata Cipselo, che aveva intrattenuto dei rapporti con l’antica Katana di Trinacria. Chissà che una colonia di Greci di Cipselo non si sia trasferita a Catania esportandovi nome e rito della Dea in questione? Ho letto pure che solamente a Cipselo ed a Katana, le donne avevano l’usanza di eleggere ogni anno in onore di Persefone una “Basilissa”, ovvero una campionessa di bellezza in onore della dea. Una specie di odierna “miss” con finalità religiose
Alla luce di questa notizia ho capito i riferimenti ascoltati nelle tre diverse occasioni. Nel primo caso donna Mara intendeva riferirsi semplicemente ad una bella donna, come quella che viene eletta in onore della Dea. Nel secondo caso il riferimento era ad una donna nella cui fiducia non bisogna aver fede; va ricordato che Proserpina, nell’antichità era considerata poco affidabile perché aveva due modi opposti di vivere: una da morta ed una da viva. Nel terzo caso il significato era il paragone tra la vita e la morte rappresentata dalla dea che infine era regina dei morti; evidentemente è meglio essere vecchia e viva, che trapassata e regina dei morti.
Non è escluso che il termine “Basilissa”, venisse attribuito anche alle cosiddette “mavare”, ossia a donne che avevano la pretesa di esercitare la magia indovinando il futuro. Il ricorso da parte delle donnette del popolo di ricorrere alla “mavara” per sapere la fine di una storia od anche per ottenere un filtro d’amore o per indirizzare degli avvenimenti futuri secondo le proprie intenzioni è, purtroppo, nella nostra tradizione popolare. Anche in questo caso il riferimento è a Proserpina, regina dell’oltretomba in grado, quindi, di conoscere gli eventi futuri. Chi, meglio di lei, regina dell’oltretomba, è capace di indovinare il futuro?
Ai nostri tempi tale tendenza è stata sostituita in parte dagli oroscopi, che, in sostanza, emettono dei verdetti futuri su basi proclamate scientifiche in relazione alla posizione degli astri. Tuttavia il ricorso alla “mavara” ( ed anche al mavaro!) è ancora in auge nel popolino.
Chiaramente (almeno per me!) sia nel caso degli oroscopi che in quello dei vaticini siamo in presenza di vere mistificazioni messe in atto per speculare sulla debolezza umana volta alla ricerca di superare le difficoltà della vita. Purtroppo durante il periodo della Inquisizione si pensò che si trattava di elementi demoniaci che andavano soppressi con il rogo!
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Una delle jatture della Sicilia e non solo della Sicilia, ma del mondo intero, è stata la “Santa Inquisizione”, un regalo propinatoci dagli spagnoli in combutta con Santa Madre Chiesa, che per l’occasione è stata la peggiore delle matrigne dell’umanità. Ne parlo non per vituperare la nostra chiesa, che in altre occasioni ha saputo essere madre amorosa e che ritengo abbia un fondamento veramente divino per essere sopravvissuta ad un tale errore; ma per evidenziare a cosa possa condurre a volte l’aberrazione umana ed il fanatismo religioso.
Forse non tutti hanno chiaro di cosa si trattasse effettivamente. Cercherò di spiegarlo in breve. Un Papa, che certamente brucia all’inferno, nonostante la mitra in testa ed il triregno in mano, prese la trista decisione di debellare il demonio che era solito impossessarsi delle anime delle persone, inducendole a compiere azioni contro la morale e la religione. In verità a spingerlo a ciò era la determinazione a voler difendere il suo potere temporale con l’aiuto della dominazione spagnola. A cadere nelle grinfie della Santa Inquisizione erano tutti coloro i quali dissentivano dal volere della Chiesa e della religione cattolica o che, comunque denunciati, manifestavano rapporti di sudditanza e comunione con il demonio. Subire oggi una inquisizione processuale del genere farebbe semplicemente cadere dalle nuvole, ma allora non era così! Un’accusa così articolata o la scomunica papale, che adesso sembra non sortire alcun effetto, ad esempio, nei confronti dei cosiddetti mafiosi, allora aveva la sua importanza e poteva rendere la vita difficile, fino al punto di dover subire i rigori della legge. Le cose si svolgevano in questo modo. Un tribunale del clero, il cosiddetto Santo Uffizio, giudicava il reo di eresia e di commercio con questo nemico di Dio, sottoponendolo anche a tortura nelle more dell’istruttoria accusatoria; riconosciutolo reo di colpe, che venivano anche dichiarate sotto la tortura come realmente commesse, lo condannava irrimediabilmente alla morte e, per salvarne l’anima prescriveva che il corpo venisse portato al rogo da vivo per subire la totale purificazione col fuoco ed impedire al demonio di ritornarvi. Poiché la chiesa non poteva contravvenire al comandamento di non uccidere, il Santo Uffizio affidava il condannato al “braccio secolare”, che sarebbe lo Stato, per l’esecuzione della sentenza. Siamo in presenza non solo di fanatismo e di aberrazione mentale, ma anche di ipocrisia eclatante.
L’istituto dell’inquisizione nacque in Spagna nel 1478 ad opera della monarchia, che stabilì la totale immunità da errori dei Tribunali, istituiti per espresso mandato e nomina dei componenti dalla Curia Romana. I suddetti tribunali dovevano rispondere del loro operato solamente all’autorità del Re.
Essa venne istituita anche in Sicilia, dominio spagnolo, nel 1487 e cessò di esistere soltanto nel 1780 con l’incalzare dell’Illuminismo e per volontà del Vicere Caracciolo, che ne stabilì l’abolizione con la conseguente distruzione di tutti gli atti pendenti ed anche già conclusi; cosa quest’ultima che venne eseguita nel 1783 sulla pubblica piazza di Palermo e le cronache tramandano essere avvenuta per rogo, durato per ben tre giorni.
Il tribunale del Santo Uffizio, fu di fatto istituito per la Sicilia in Palermo, presso il palazzo, cosiddetto dello “Steri”, che era anche il carcere degli arrestati per questo reato in attesa di giudizio. Viene riportato dalle cronache che le sentenze ivi emesse in tutto il periodo ammontano a quasi sei mila, delle quali, purtroppo, non è possibile conoscerne i contenuti, essendone stati gli atti distrutti, come ho detto, per disposizione del Vicere. Faccio notare come fu simbolico il rogo degli atti, simile allo stesso tipo di condanna subita dagli inquisiti, ma anche intenzionalmente finalizzato a far dimenticare e cancellare del tutto quel tristo periodo. Tuttavia, copie di tutti gli atti dovrebbero essere conservati nell’archivio di stato di Madrid, poiché esisteva l’obbligo da parte del Tribunale di Palermo di inviarle al governo centrale spagnolo. Delle vicende dei condannati allo “Steri” non rimasero che i graffiti e le iscrizioni sui muri delle celle, da una paziente scrittrice raccolte e catalogate in un grosso volume. Da esso è possibile rilevare la varietà di cittadini arrestati, appartenenti a tutti i ceti, dalla nobiltà alla plebaglia, dai colti agli analfabeti, ed anche personaggi dello stesso clero. Generalmente il “reo” veniva individuato per mezzo di lettere anonime cui veniva dato credito (vox populi, vox Dei.) Addirittura su un muro è stata trovata una ricostruzione della Sicilia di un certo Nigro, cartografo, con la indicazione delle città più importanti, tra le quali, stranamente era indicata Caltabellotta, nota a quei tempi come centro esoterico per eccellenza. Monaci eretici, streghe, maghi, negromanti, indovini, indemoniati, ciarlatani, modesti truffatori e magari millantatori di poteri soprannaturali e ritenuti capaci di rievocare le anime dei morti, venivano indiscriminatamente denunciati, arrestati, torturati e condannati. Dallo “Steri” non si usciva mai assolti e le condanne variavano dalle “verghe” al “rogo” da vivi.
Pur di arrivare in ogni caso alle condanne, si giunse al paradosso di ammettere l’esistenza, in quanto personificazioni di demoni, degli antichi Dei pagani, dei quali per un secolo intero era stato detto e dimostrato anche con il martirio che non esistevano perché falsi e bugiardi. Pertanto nel dispositivo di alcune condanne poteva leggersi che il reo aveva avuto rapporti anche carnali con la dea pagana Persefone, regina dei morti e dell’inferno, o che una strega si era carnalmente congiunta con il dio vaticinatore Apollo. Insomma le condanne avvenivano con delle motivazioni aberranti e contraddittorie con i veri e santi principi del cristianesimo e riesumando assurde connivenze con figure di vecchi idoli, già definiti inesistenti.
Per capire esattamente cosa fosse lo “Steri” a Palermo, voglio riportare alcuni versi che sono stati trovati scritti sulla parete di una cella da un condannato, che si dilettava di poesia dialettale e che sicuramente conosceva la Divina Commedia di Dante, del quale in sostanza ne riporta un celebre verso in dialetto siciliano:
Nisciti di spiranza vui ch’entrati
cha non si sapi si agghiorna o si scura
sulu si senti ca si chianci e pati
pirchì non si sa mai si veni l’hura
di la desiderata libertati.
(Lasciate ogni speranza o Voi ch’entrate,
qui non si sa se fa giorno o annotta
solo si sente piangere e patire
perché non si sa se verrà l’ora
della desiderata libertà.
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“All’interno d’un ampio antro manipolavano il ferro i Ciclopi Bronte, Stérope, e nudo le membra, Piràcmon” Canta Virgilio descrivendo l’interno del vulcano Etna come un officina da fabbro. Bronte rappresenta il rimbombo dei colpi di maglio sul ferro rovente, Stérope il lampo che guizza ad ogni colpo assestato e Piràcmon l’incudine fredda su cui poggia il ferro arroventato che riceve i colpi. Secondo la mitologia greca, questi ciclopi, compreso anche Polifemo, accecato da Ulisse, erano dei giganti enormi con un solo occhio, figli del Dio Poseidone, dai Romani chiamato Nettuno. Quel nome Bronte, nominato da Virgilio, rispetto agli altri due, fu destinato ad avere una maggiore memoria storica, rispetto agli altri due rimasti semplici simboli mitici senza alcun addentellato alla realtà. Bronte fu chiamato un territorio all’interno della Sicilia, nei pressi dell’Etna, dove la tradizione vuole che il mostro era solito andare sovente. Ciò, probabilmente significa che in quel posto si sentivano sovente e ben distinti i rimbombi dell’Etna durante le attività eruttive. In questo territorio sicuramente nacque un primo borgo di abitazioni sicule, essendo stati trovati dei reperti risalenti a loro, anche se Tucidide sosteneva che i primi abitatori della Sicilia furono, appunto, i mitici Ciclopi ed i Lestrigoni. In ogni caso nulla di eccezionale emergeva da questo territorio, anche quando, dopo, i Greci lo battezzarono Bronte. I secoli passarono silenziosi, fino a quando, un bel giorno, un fatto storico italiano non lo espose in vetrina, affidando il suo nome alla storia.
Sull’onda della rivoluzione francese del 1789, scoppiarono dei moti di ribellione anche in Italia e per quello che ci riguarda anche nel Regno delle due Sicilie. Napoli insorse contro i Borboni ed a ben ragione, la Regina Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria e sorella di Maria Antonietta, che a Parigi era stata ghigliottinata, fortemente impaurita, convinse il marito a lasciare Napoli ed a riparare a Palermo, dove, in verità, vennero bene accolti. In effetti i Siciliani speravano che il Re, ritenendo la Sicilia più affidabile, trasferisse definitivamente la capitale da Napoli a Palermo. Purtroppo le loro speranze andarono frustate, poiché l’ammiraglio inglese Horatio Nelson, che aveva la flotta alla fonda nel porto di Napoli, per espressa disposizione della corona inglese, intervenne con energia e pacificata Napoli vi riportò i reali borboni, i quali non sapevano come disobbligarsi non solo con la corona inglese ma anche con Nelson e consorte. La moglie di Nelson, lady Hamilton ricevette due intere carrozze piene di vestiti ed una prebenda di sei mila scudi. Horatio Nelson , oltre ai favori che le male lingue dicono abbia ricevuto dalla regina Carolina, ricevette in dono il castello di Maniace con tutto il territorio attorno che si chiamò Ducea di Bronte, con diritto all’ereditarietà e senza alcun obbligo di tributo alla corona borbonica. Bronte ed il suo territorio diventò sostanzialmente un enclave inglese, dove era di stanza una guarnigione di soldati, che pensarono anche ad incrementarne la popolazione, oltre che proteggere gli interessi dei Nelson. Ovviamente l’avvenimento fece scalpore in Italia e specialmente nella Sicilia, dove si recepì la negatività di avere in casa non solo i Napoletani, ma anche gli Inglesi per quel tanto che avrebbero sempre garantito alla monarchia borbonica una maggiore sicurezza. Insomma i siciliani non gradirono la faccenda e misero su tutta una storia fantastica che ribadiva l’esistenza della maledizione di Dio su Maniace e sulla Ducea di Bronte, alimentata anche dal fatto che il povero Nelson, pur vincitore sulla flotta francese a Trafalgar, ci perse la vita senza aver avuto la possibilità di godersi quel dono. Ecco, quindi, che Bronte, assume un’importanza storica non indifferente ed inoltre diventa il simbolo del coinvolgimento di fatti mitologici antichi con fantasie esoteriche del tempo in un groviglio veramente singolare ed internazionale!
Dovreste sapere (e se non lo sapete lo apprenderete ora!) che un certo re d’Inghilterra Enrico VIII, pensò di divorziare dalla moglie imparentata con il re di Spagna, per sposare Anna Bolena. Poiché il Papa non concesse il divorzio per non inimicarsi il monarca spagnolo, l’ottimo re d’Inghilterra non ci pensò più di tanto: dichiarò lo scisma dalla chiesa cattolica autoproclamandosi capo della religione cristiana inglese; in poche parole mise fuori legge il papa nella sua Inghilterra. Naturalmente, per questo motivo, venne scomunicato e dichiarato in combutta con il diavolo, cioè con il nemico numero uno del cristianesimo. Non solo era scomunicato Enrico VIII, ma tutti i sudditi che eseguivano la sua volontà, compresi i figli ed i successori. Ecco quindi che i siciliani pensarono di avere in casa il diavolo in persona. Nacque così la leggenda che la Regina Elisabetta I, la vergine, come lei stessa si definiva, figlia di Enrico VIII, quando morì, venne prelevata dal diavolo in persona per essere gettata nelle fiamme infernali del ‘Etna con tutti gli arredi reali, comprese le scarpe. Nel tragitto da Londra al cratere dell’Etna, una scarpetta si sfilò dal suo piede e cadde nei pressi di Bronte. Venne trovata luccicante tempo dopo da un pastorello, ma con sua grande sorpresa si bruciò le mani nel toccarla. Fu gioco forza far intervenire un esorcista e la scarpetta per sfuggire da lui volò via ed andò a rifugiarsi nel castello di Maniace, dove rimase nascosta per quasi due secoli, finché nel 1799, dopo l’avvenuta donazione della Ducea di Bronte, l’ammiraglio Nelson, ballando con una dama durante una festa mondana a Palermo, ricevette da quest’ultima un cofanetto con dentro la famosa scarpetta, con il monito di custodirla e di non farla vedere a nessuno, perché ne andava della sua vita. Naturalmente la dama donatrice altri non era che lo spettro della defunta regina Elisabetta. Il buon Horatio ad un certo punto mostrò il dono alla sua amante, o moglie che fosse, Emma Hamilton, la quale la trafugò senza tanti complimenti. Sapete cosa avvenne? Dopo pochi giorni l’ammiraglio perse la vita a Trafalgar! Dopo questo fatto la scarpetta fuggì per andarsi a nascondere nuovamente nel castello di Maniace, in attesa del prossimo sortilegio. Da allora vennero addossati ad essa tutti i guai dei successori di Nelson alla guida della Ducea, la quale venne anche tacciata di essere frequentata dai diavoli.
Voglio evidenziare che la vicenda di una scarpa sfuggita alle fiamme dell’Etna, non era nuova. Un altro famoso calzare, quello in bronzo di Empedocle, pare si sia salvato dalla furia del vulcano. La tradizione vuole che questo grande filosofo, sia sceso dentro il cratere dell’Etna per scoprire il mistero del fuoco lavico, senza far più ritorno; solamente un suo calzare venne espulso dal cratere, senza che si sappia dove sia finito.
Che Bronte sia sede o meno di presenze diaboliche non è dimostrabile. In ogni caso un altro fatto increscioso fece salire alla ribalta il nome di questo paesetto, che viene ricordato come l’eccidio di Bronte. Quest’ultimo avvenne durante l’invasione dei Garibaldini ad opera di Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi. Si disse che i cittadini di Bronte fatti fucilare dalle camicie rosse fossero degli oppositori borbonici e dei briganti, ma su tutta la vicenda aleggia il sospetto che essa fu la contropartita pagata da Garibaldi al Governo inglese per avergli favorito lo sbarco a Marsala, impedendo alle truppe borboniche di usare le loro artiglierie piazzate nel porto. Sostanzialmente il sospetto è che Garibaldi pagò l’aiuto avuto dagli inglesi con la promessa, che poi realizzò Nino Bixio, di far fuori a Bronte quei quattro manigoldi che avevano osato precedentemente ribellarsi al Duca inglese. Fiumi d’inchiostro sono stati versati su questo argomento, senza che alcuno abbia mai potuto accertare la verità. La cosa certa è che la spedizione dei mille ha dato adito a molte perplessità, nate dalla solerte opera diplomatica e preparatoria del Cavour, che mettono molto in ombra l’operato dell’eroe Giuseppe Garibaldi.
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Una vecchia leggenda racconta che tra il 1500 ed il 1600, un pastorello che si aggirava con un gruppo di mucche al pascolo nel territorio di Brucoli, frazione di Augusta in Sicilia, si accorse che ne mancava una all’appello.
Il nome del posto sta appunto ad indicare, come in effetti era, che quel territorio veniva adibito al pascolo di animali di piccola e grossa taglia; molto vicino al mare, fin dai tempi più antichi, oltre che alla pastorizia, si prestava anche ad approdo di imbarcazioni, essendo dotata, tra l’altro, di un lungo fiordo, la foce navigabile del fiume Porcaria, tanto da far pensare che Brucoli sia stato uno dei primi luoghi dove i colonizzatori greci approdarono. Oggi è una ridente frazione di Augusta sede di attrazione turistica estiva. Ottime pizzerie, ottimo pesce, ottima sede per vacanze serene e spensierate. Storicamente, nacque come centro abitato intorno al 1400, ma già da prima il porto canale formato dal fiordo, consentiva l’uso della località come approdo marinaro, anche per motivi militari, come Tucidide racconta. Fu sotto gli Aragonesi che il porto-canale assunse una importanza maggiore con la costruzione del castello e l’uso come posto caricatore di merce via mare. In data molto recente nel territorio è sorto il villaggio del Valtur, che ha valorizzato la zona dal punto di vista turistico. Proprio in questo villaggio ha iniziato la sua carriera il noto showman siciliano Fiorello.
Ma torniamo al nostro pastorello, che disperato, incominciò a cercare la mucca smarrita, fintanto che, alla fine, la senti muggire senza scorgerla. La povera bestia era andata a finire dentro una grotta il cui ingresso era nascosto da una fitta vegetazione. Per entrarvi egli fu costretto a calarvisi con una corda attraverso un anfratto di forma circolare. Appena messo piede sul terreno ed aver scorto la mucca, alla luce che filtrava attraverso la vegetazione dell’ingresso, scorse sul muro la figura di una madonna nera, dipinta sopra una nuvola con il bambino in braccio, con nella mano destra una croce ed in quella sinistra uno scettro. Tirata fuori la mucca, parlò del ritrovamento di quell’immagine.
Si trattava niente po’ po’ di meno che della famosa Madonna dell’Adonai, di cui si sapeva dover esistere da qualche parte in località Gisira di Brucoli. Era nella tradizione che intorno al IV secolo dopo Cristo, lì a Brucoli, esistesse un luogo segreto dove i primi cristiani si riunivano per pregare al riparo delle persecuzioni, fondato da un cristiano di nome Publio di Trotylon (forse primo nome greco di un territorio parte dell’antica Lentiini), ma non si sapeva dove esattamente, essendo stato abbandonato dopo che l’imperatore Costantino si era convertìto al Cristianesimo. Finalmente , grazie a quella mucca smarrita ed al pastorello il posto venne individuato proprio in quel gruppo di Grotte, chiamate del Greco, poiché furono utilizzate al loro arrivo dai primi coloni ellenici. La grotta dove venne trovata l’immagine della madonna aveva una forma circolare, come di una cappella, con sopra un buco da cui filtrava la luce e dal quale il pastorello era sceso. Quel Publio di cui ho detto prima, si ritirò in questo eremo per pascere, pastore di anime, le pecorelle del Signore. Fu questo il posto, quindi, dove Sant’Agatone visse e svolse la sua opera di diffusore della Fede e dove si rifugiavano i cristiani leontinesi perseguitati dagli imperatori pagani Decio e Valeriano. Veniva ricordato con il termine “Oratorio dell’Adonai”, che letteralmente significa Oratorio del mio Dio, essendo Adonai un termine biblico con questo significato. Notare che nel mondo greco vi era il dio Ade, quello del famoso ratto, che con Adonai, hanno la stessa radice.
Evidenzio che l’immagine ritraeva una madonna nera in volto. Va precisato che nella prima tradizione del cristianesimo, la madonna era rappresentata sempre nera ed ancora oggi esistono dei culti, in cui la madre di Dio viene così rappresentata. Quali i motivi? E’ difficile poterli stabilire. Forse si voleva indicare con questo colore della pelle la provenienza orientale della madonna o forse, come sostengono alcuni, per abituare il popolo a vedere nelle vecchie icone di Iside, Proserpina ed altre dee orientali, l’immagine della madonna; sostanzialmente, per far gradualmente dimenticare i vecchi idoli sostituiti dai nuovi simboli. Sinceramente non lo so per quale motivo la madonna venisse ai primordi rappresentata nera! So per certo che i santi esorcisti venivano rappresentati neri per la loro frequentazione delle fiamme dell’inferno dove riaccompagnavano i demoni, ma per quanto concerne la Madonna non so proprio.
Dopo che venne scoperta la grotta con la Madonna, che fu detta dell’Adonai, (“Mater Adonai”), un drappello di soldati spagnoli decise d’abbandonare la vita militare e di dedicarsi a quella contemplativa, proprio in quel luogo, costruendo una chiesetta ed un convento che ancora esistono e costituiscono un’attrattiva turistica ed un richiamo alla fede.
Molta leggenda aleggia sull’origine dell’oratorio dell’Adonai e della sua Madonna e si è fatto pure un gran parlare della sua “miracolosa” esistenza. Si sconosce il vero autore del dipinto della Madonna, forse opera di Santo Agatone o di qualcuno che lo seguì nella sua missione di eremita. Non è certo se la primitiva immagine abbia subìto delle variazioni, come qualcuno sostiene. Di certo c’è soltanto che la grotta risale addirittura al neolitico e che precedentemente al periodo cristiano, cioè, antecedentemente al 250 D.C., le cosiddette grotte del Greco, siano state fin da subito utilizzate come luoghi sacri anche dal mondo pagano ed inoltre come sepolture. L’altra certezza è che dopo l’editto di Costantino con il quale si ufficializzava il cristianesimo, le grotte vennero totalmente ignorate per circa un millennio.
Per chi non lo sapesse, inoltre, il territorio di Brucoli, che si affaccia sul mare, è soggeto a violenti terremoti, poiché da queste parti passa la faglia di contatto tra l’Eurasia e l’Africa. Nel 1693 un tremendo terremoto distrusse Augusta e dintorni, radendo al suolo molti edifici. Ebbene, la chiesetta dell’Adonai, la grotta ed il convento non subirono alcun danno. Il fenomeno si è ripetuto anche con i successivi terremoti del 1848 e del 1990. Di quest’ultimo sono stato anche testimonio dei danni provocati; ricordo che la stazione ferroviaria di Brucoli, di solida muratura, si sbriciolò come se colpita da una bomba e non provocò vittime per puro miracolo, mentre nessun danno ne riportò il vicinissimo complesso religioso dell’Adonai. Il fatto ha radicato nei fedeli la credenza che il santuario della Madonna di Adonai di Brucoli goda della protezione divina della Madonna. Per questo motivo, dopo il 1990 si è pensato bene di dare una mano alla Provvidenza divina mettendolo in sicurezza ed apportandovi anche delle variazioni, non tanto felici in verità. Oggi è meta di pellegrinaggi e di preghiera. Nel giorno della ricorrenza del patrono San Nicola, la processione raggiunge anche la chiesetta della Madonna dell’Adonai.
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E’ stato certamente assodato che il volgare toscano ha preso il sopravvento su tutti i dialetti nello sviluppo della lingua nazionale italiana. Ma non bisogna sottovalutare che esso attinse a piene mani dal volgare della scuola siciliana di Federico II, prima a volgere in volgare la poetica provenzale, come sostenuto anche dal Petrarca. I primi a seguire le orme della scuola siciliana furono i cosiddetti poeti siculo-toscani con a capo Guittone d’Arezzo e Bonagiunta da Lucca che ne accolsero il linguaggio considerandolo un’espressione lirica insostituibile. I poeti fiorentini del “dolce stil novo” che seguirono, a cominciare da Chiaro Davanzati e Brunetto Latini, definito da Dante il suo maestro, attinsero a piene mani dal linguaggio della scuola siciliana. Infatti le loro opere sono cosparse di sicilianismi correntemente esposti, come delle mattonelle di diverso colore in un pavimento uniforme. Fra tutti questi basta citare quello che più di tutti emerse per la sua ciclopica opera della “Divina Commedia”: Dante Alighieri. Egli, che non fu solamente un poeta, ma un profondo studioso del linguaggio, nel suo trattato in latino “De vulgari eloquentia” sostiene questa verità riconoscendo alla scuola siciliana il primato nell’espressione del “volgare illustre” siciliano, da distinguere da quello dei “terrigenae mediocres”, ossia, quello parlato dal popolo.
Curiosamente, in questo periodo, mentre si esaltano i valori del “volgare illustre”, usato nella poesia, sulla falsariga dei trovieri provenzali, per quanto concerne i trattati scientifici, veniva usato esclusivamente il latino. L’esempio tipico è, appunto, il “De vulgari eloquentia” di Dante.
Il sommo poeta non si limita a sostenere la sua teoria sull’importanza del volgare siciliano, ma ne tiene anche conto, poiché nella sua opera poetica incede molto facilmente in sicilianismi evidenti come una prassi usuale della sua poetica. Cito alcuni esempi particolari che mi hanno colpito. In Purg. XVIII, 56 dice “dalle prime notizie omo non sape”. Usa qui ed in altri posti la forma siciliana del verbo sapiri. ( Cu’ sapi si …? ). In altre occasioni usa la forma latina sicilianizzata, tipica del messinese, della terza persona singolare del verbo essere (este al posto di è.) Undi esti? dicono i Messinesi per chiedere dove si trova un determinato oggetto. In Inf. XXIV, 127 riferendosi al noto ladro sacrilego Vanni Fucci scrive “Dilli che non mucci.” (digli che non nasconda). Quel “mucci” altro non è se non il congiuntivo del verbo siciliano ammucciare (che io ammucci, che tu ammucci, che egli ammuccia…). Elenco alcuni modi di dire siciliani: “Ammuccia, ammuccia ca tuttu pari” (Nascondi pure che tutto infine compare). “Ammucciari u suli cc’u crivu” nascondere il sole con lo staccio). “Irisi a mucciari” (andarsi a nascondere). “Và ‘mmucciti!” (vai a nasconderti!) e tanti altri che hanno come base questo verbo. In Purg. II, 104-105 dice “sempre quivi si ricoglie, quale verso Acheronte non si cala …“, nel senso di riunisce. “T’arricugghisti finalmenti!” (Ti sei riunito a noi finalmente diciamo in siciliano). In Purg. III, 102 dice “coi dossi della man facendo insegna” Nel senso di far segno con le mani. “Ti fici ‘nsigna c’a manu” (ti ho fatto segno con la mano)…. Potrei continuare a citare altri esempi ma preferisco fermarmi per paura di tediare chi legge
Dunque senza ombra di dubbio, la nostra lingua nazionale italiana prese le mosse dal nostro “volgare illustre” di federiciana memoria. Ma non è soltanto questa circostanza italiana prettamente letteraria a prendere le mosse dalla Sicilia. E’ tutta l’esistenza dello Stato italiano e della sua cultura che scaturiscono dal contesto storico-geografico di cui fa parte l’intera isola. Non a caso ho evidenziato tutte le curiosità storiche e letterarie della nostra Trinacria. Esse mostrano il costante contatto con il mondo classico che fu la fortuna dell’impero romano e che costituisce il fondamento del viver civile del mondo intero. Qualcuno ha definito le varie fasi di civiltà storiche caratterizzandole con gli appellativi di Prima Roma (quella italiana) Seconda Roma (quella Bizantina) Terza Roma (quella russa) ipotizzandone una quarta che sarebbe quella americana. Poiché la prima Roma è fortemente connessa alla cultura classica greca della Sicilia, è lecito ammettere per il principio della proprietà transitiva, che la civiltà nel mondo è figlia primigenia della nostra terra. I fatti non smentiscono questa verità, poiché ovunque voi andiate nel mondo difficilmente non trovate dei siciliani. Scusate. Ho detto mondo? Forse avrei dovuto dire Universo! Mi era momentaneamente sfuggito che siamo stati anche nel cosmo con un astronauta catanese!
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Da tutte queste vicende storiche e linguistiche emerge ancora che il nostro patrimonio culturale è il più ricco e più vario del mondo, poiché siamo il crogiuolo di tutte le maggiori civiltà del pianeta. Noi Siciliani rappresentiamo la fusione perfetta di uomini di tutte le razze, la sintesi dei modi di pensare delle diverse umanità dall’oriente all’occidente e dal Nord al Sud. Noi siciliani abbiamo saputo essere Sicani, Siculi, Fenici, Greci, turchi, latini, bizantini, vandali, goti, ostrogti, arabi, normanni, francesi, spagnoli, tedeschi ed italiani … E’ vero che adesso apparteniamo allo stato ed alla nazione italiana, ma la nostra vocazione è quella internazionale e cosmopolita. Noi siamo i cittadini del mondo per eccellenza. La nostra terra è un ponte senza fine tra passato e presente, che mai potrà essere interrotto ed è sempre stata un punto di riferimento di gente nuova in arrivo alla ricerca di quel paradiso terrestre, che pensano sia. La nostra isola è la zattera al centro del mediterraneo sulla quale tutti i popoli hanno cercato di salire con le armi nei tempi passati ed ancora oggi cercano di guadagnare disperatamente attraverso le peripezie del mare attraversato con fatiscenti battelli.
Potrei ancora all’infinito elencare fatti storici, curiosità linguistiche, vicende umane, aneddoti, semplici riferimenti riguardanti la nostra Sicilia, poiché ogni nostro angolo di terra, ogni nostro specchio d’acqua, ogni corso d’acqua, ogni fiore ed ogni pietra gronda di mito, di storia e di mistero. Anche le persone del passato distante nei secoli e quelle del presente più recente hanno il fascino che emana la nostra terra da Empedocle ad Ettore Majorana, da Caronda a Don Sturzo, dai modesti giullari post-provenzali ai comici dei nostri tempi, dagli antichi cantori delle corti al nostro Vincenzo Bellini ed ai nostri cantautori moderni, compresi i nostri grandi scrittori come Verga, Pirandello, Rapisardi, Sciascia ed altri, modesti grafomani come me. Continuare a parlarne da parte mia diventerebbe un’ impresa superiore alle mie forze e forse anche agli anni che mi restano da vivere.
Preferisco a questo punto delegare ad altri codesto compito con la speranza che sia migliore di me nell’esprimere tutto l’amore che nutro per la mia terra e nel rievocarne tutte le infinite curiosità alle quali si presta.