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Thailandia

LE DONNE GIRAFFA

di Alessandra Menicozzi

 

 

  

Il sole mattutino mette a nudo un agglomerato di ariose capanne in bambù, disposte ordinatamente ai lati di un largo viale sterrato. Siamo in Thailandia, nella provincia settentrionale di Mae Hong Son a ridosso del confine birmano. Qui, confinati tra montagne circondate da una giungla lussureggiante, sorgono alcuni campi per rifugiati dell'etnia Karen, una minoranza proveniente dalla vicina Birmania.


Durante il periodo coloniale inglese, i Karen riuscirono a mantenere un proprio stato autonomo composto da diversi principati feudali. Quando nel 1948, alla Birmania venne concessa l'indipendenza, varie tribù montane non accettarono il nuovo ordine politico basato su una cattiva combinazione di socialismo, isolazionismo e buddismo e diedero inizio ad una rivolta contro il governo centrale. L'Esercito di Liberazione Nazionale dei Karen, che da allora si batte contro l'occupazione della loro regione, conduce una guerriglia volta a mantenere il controllo di una striscia di circa 640 chilometri lungo la regione montagnosa che funge da frontiera con la Thailandia. Dal 1984 ad oggi, il sanguinoso conflitto ha indotto oltre 70.000 Karen ad attraversare la giungla e a varcare i confini cercando rifugio nella territorio thailandese. Qui, raccolti nei campi profughi, hanno potuto trovare un po' di pace al prezzo dei quotidiani problemi di sussistenza che affliggono i rifugiati.


Le antiche leggende narrano che i Karen giunsero in Birmania circa 4500 anni fa provenienti da una mitica regione chiamata Thibi Kawbi, che si ritiene possa essere situata tra il Tibet ed il deserto del Gobi. Non si tratta di un gruppo omogeneo, ma di un insieme di tribù, ognuna con una sue proprie caratteristiche. Per semplificare potremmo suddividere questa popolazione in tre gruppi: a sud vivono i Sgaw-Karen e i Pwo-Karen, nella fascia centrale sono raggruppati i Karen bianchi (Geba) e i Karen rossi (Kayan o Bwe) ed infine a settentrione abitano i Pa-O (Taung-thu). Il nome delle tribù è spesso dato dai colori dei vestiti indossati dalle donne nubili; talvolta invece deriva dalla particolarità dei gioielli indossati, come nel caso dei Karen "lunghe orecchie", così detto a causa dei lobi delle orecchie deformati da pesanti orecchini.


Il popolo dei Padaung, un piccolo sottogruppo dei Karen-Bwe che vive nella remota regione montana dello stato Kayan, è una tra le etnie più misteriose e affascinanti dell'intero Oriente. Il nome padung di questa minoranza tra le minoranze, in lingua birmana significa "lungo collo". Questa tribù è divenuta oggetto di un "turismo etnico" a causa proprio di una singolare usanza dalle sue donne, per la quale è stato coniato l'appellativo di donne-giraffa. Un'antichissima tradizione non ancora del tutto abbandonata, vuole che esse debbano avvolgere attorno al collo una lunga e pesante spirale d'ottone. Questo particolare ornamento è composto da due parti distinte. Quella inferiore, che ricopre in parte la spalla, è a guisa di bavero ed è tenuta insieme da un'ansa formata a sua volta da anelli, mentre la parte superiore è formata da una lunga spirale che avvolge il collo. All'età di cinque anni, nel corso della "cerimonia del plenilunio", alle bambine vengono imposte spirali d'ottone alle braccia e le caviglie, quindi vengono sottoposte ad un vigoroso massaggio per stirare i muscoli del collo dopodiché vengono fatti loro indossati i primi tre chili di collare attorno alla gola. Questo rito di iniziazione segna per sempre la vita delle future donne. Nel corso degli anni il collare viene poi via via aumentato di peso. Nella tradizione di questo popolo il monile non solo conferisce agli occhi dei membri della tribù un particolare fascino a chi lo indossa, ma anche prestigio sociale e morale. Senza di esso la tradizione rendeva improponibile sia il matrimonio che la maternità e irrealizzabile l'affermazione personale. Giunte in età da marito, il collo di queste donne, che nel frattempo ha raggiunto l'eccezionale lunghezza di venticinque centimetri, si trova ormai racchiuso in un collare da una decina di chili. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è il collo ad allungarsi, ma la cassa toracica, che sotto la pressione esercitata dal peso del collare, si abbassa. Il collo così deformato viene limitato nei movimenti e a causa dell'atrofizzazione dei muscoli, non è più in grado di sorreggere la testa. Qualora il collare venisse tolto, queste donne morirebbero soffocate poiché la testa cadendo bloccherebbe la respirazione. In passato alle spose infedeli veniva inflitta come punizione l'allontanamento dal villaggio dopo che era stato loro tolto il collare.


Questa pratica di abbigliamento, costringe a dover giornalmente massaggiare gambe, braccia e collo per agevolare la circolazione sanguigna.

Attribuire a questa usanza un valore puramente estetico sarebbe però un errore. Come sempre dietro ad ogni usanza e ad ogni costume si cela la necessità di affermare la propria identità. Ecco quindi che questi elementi divengono segni distintivi con il preciso compito di trasmettere un'informazione e un'affermazione di sé con riferimenti unanimemente riconoscibili per quanto riguarda l'appartenenza alla propria tribù, al proprio status sociale, alla differenziazione tra donne nubili e sposate, alla protezione dai pericoli e dalle malattie finanche ad un mezzo per comunicare con le divinità. Così anche per le donne-giraffa l'usanza di avvolgere la gola in stretti collari si può ricondurre a miti leggendari.


Si narra che in un tempo lontano i Padaung vivessero nella lussuria e nei piaceri. I nat, gli spiriti della locale credenza popolare, indispettiti da questo comportamento superficiale e indolente decisero di punire i Padaung aizzando feroci tigri contro le loro donne. Gli uomini preoccupati dal rischio di perdere le proprie amate, seguendo i consigli di un vecchio saggio, decisero di utilizzare grossi fili d'oro per fabbricare spirali con le quali proteggere il collo e gli arti delle donne dai morsi dei felini. Da allora le donne, pur utilizzando un metallo meno prezioso dell'oro, non abbandonarono più quell'usanza che anzi venne adottata come simbolo di seduzione e fedeltà.


Il "peso" di questa bellezza non influisce tuttavia sulla attività delle donne; i loro movimenti infatti non sono impediti dai collari e permettono loro di lavorare nei campi, andare al mercato, svolgere le faccende domestiche, tessere al telaio e accudire i figli.

 

Nel campo profughi è l'alba. L'aria è densa, il caldo insopportabile. Tutto è immobile. Nessuno e nulla turba la tranquillità del villaggio. Tra poco la vita di ogni giorno prenderà a scorrere uguale a quella di tutti gli altri. Come un'eco risuoneranno le voci e i rumori che da anni si ripetono immutabili. Nella luce del primo mattino le minute donne padaung con il loro collo esageratamente lungo ed il luccichio dei loro gioielli, si avviano con portamento fiero al pozzo per il quotidiano rituale della toilette. Le prime ore della giorno sono dedicate alla meticolosa pulizia del corpo, delle spire d'ottone e dei numerosi bracciali, poiché, a causa dell'abbondante sudorazione indotta dall'umidità tropicale, il collare può causare infezioni e tumefazioni della pelle. La pulizia viene eseguita strofinando energicamente il metallo con paglia, spazzolini da denti e strofinacci impregnati di sapone, evitandone così l'ossidazione. Lucidata la "gioielleria", sbrigate le faccende di casa, sedute all'ombra della veranda, le donne filano, tessono, chiacchierano aspettando l'arrivo della prima ondata di turisti. Per l'occasione viene indossato l'abito più bello, una tunica bianca con ricami geometrici e multicolori. Sui lunghi capelli neri, raccolti a chignon, vengono avvolti drappi dai colori vivaci. Un asciugamano viene arrotolato attorno al collier per evitare che il sole arroventi l'ottone. Le guance delle più giovani vengono imbellettate con una polvere di colore giallo ottenuta dalla corteccia di thanaka, che, oltre ad abbellire, protegge la pelle dal sole tropicale.

Verso mezzogiorno lo scenario si anima. Frotte di turisti che giungono da Mae Hong Song o da Chiang Rai rompono la tranquilla atmosfera del villaggio. Si trattengono il tempo necessario per scattare alle esotiche padaung dal lungo collo qualche foto da mostrare agli amici, qualche piccolo acquisto e via per un altro sito turistico. Per entrare al villaggio il prezzo d'ingresso è di 250 bath, circa dieci dollari: servirà ai Padaung per comperare l'indispensabile per vivere: cibo, medicine, coperte e cotone per confezionare gli abiti. Questa tassa è stata voluta dal governo thailandese, per "addolcire" altre misure molto restrittive adottate, come dichiarato, per preservare un certo ordine nei campi profughi e per salvaguardare la foresta: rifiuto di concede terre da coltivare, divieto di raccolta di legname, proibizione di caccia e pesca, cristallizzando di fatto i Karen nella loro povertà.


La Commissione Culturale Karenni, consapevole del degrado che il turismo etnico comporta, ha redatto un piccolo volantino informativo da distribuire ai turisti per sensibilizzarli sui problemi della propria gente. Ma la maggior parte degli operatori turistici thailandesi si oppone alla loro divulgazione: in pratica non vogliono cedere la libertà ai Padaung di gestire un turismo più consapevole, più dignitoso, anche se meno esotico.