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Edizione per la famiglia nel
90° anniversario della sua morte
Catania, Settembre 2020
Alla scrivania con il fratello Salvatore
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INDICE
Presentazione del prof. Massimo Papa
Introduzione
Ringraziamenti
Abbreviazioni
Cap. 1 La fanciullezza e la giovinezza (fino al 1909)
Cap. 2 Comincia a farsi conoscere (1910-1919)
Cap. 3 La maturità (1920-1926)
Cap. 4 La malattia e la morte (1926-1930)
Appendice
Bibliografia
Elenco delle opere
Culla con angeli (AGBS)
Con P. Davide Grisafi
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GIOVAMBATTISTA SANGIORGIO
UN ARTISTA A TUTTO TONDO
La figura artistica “variegata” di Sangiorgio incuriosisce molto. Egli è una di quelle figure importantissime per la storia dell’arte, spesso sottovalutate e, in molti casi, ancora sconosciute o non studiate attentamente. Si tratta di quegli artisti che hanno subìto due fondamentali discriminazioni: quella di essere emarginati o sconosciuti dalla critica nazionale perché operanti, in quel frangente storico, in un’area marginale dell’Italia; e quella, di marca idealista, che non considerava degno di nota chi operava in ambiti considerati, arbitrariamente, artigianali e non artistici.
Spesso è accaduto a molti artisti di talento operanti in Sicilia, anche diversi secoli fa, di essere stati, da un lato, penalizzati dalla mancanza di confronto con altri artisti operanti in Europa e, dall’altro, di essere stati “schiacciati” da una committenza locale, spesso generosa ma che rifiutava, quasi sempre, le innovazioni e si appagava del gusto tradizionale guardando tutt’al più alla bravura tecnica. Tuttavia sulla condizione di isolamento degli artisti che hanno operato in Sicilia è necessario, riflettere maggiormente almeno per due motivi.
Il primo è che la Sicilia è un’isola “continente”, un luogo che è stato in alcuni secoli tutt’altro che marginale ma protagonista della vicenda politica ed economica del Mediterraneo e, anche quando questo non è accaduto, è stata “attraversata” da numerosi popoli portatori di culture diverse che l’hanno “contaminata” facendola diventare un luogo davvero unico. Non a caso è l’area del mondo che, in relazione agli abitanti, ha la più alta densità di siti inseriti dall’UNESCO nell’elenco di quelli definiti “Patrimonio dell’Umanità”. Tutto ciò ha determinato sedimentazioni culturali che hanno influenzato direttamente o indirettamente gli artisti che, nei diversi secoli, hanno operato in Sicilia e che quindi, da questo punto di vista, non posso essere considerati in assoluto degli emarginati.
Il secondo motivo è che, a mio avviso, non sempre la condizione di isolamento, soprattutto, come nel caso della Sicilia, cioè quando avviene in un contesto pieno di storia, è un fatto di per sé negativo o limitante. A volte tale condizione può evitare l’inseguimento di facili mode (anche se non sono locali ma nazionali o internazionali) e può portare, in ambito artistico, a creazioni originali, anche se a volte ingenue o eclettiche e tuttavia di assoluta genuinità.
Sangiorgio è uno di quei maestri, come si diceva una volta, di “arte applicata”, di quell’arte che la prevalente critica storico-artistica idealista considerava non poetica, in quanto ripetitiva e priva di unicità.
Bozzetto architettonico (AGBS)
Con le sue discriminazioni tra poesia e non poesia, tale critica, ha guardato solo al manufatto-capolavoro espressione solitaria di un genio, escludendo che la comprensione di un fatto artistico potesse essere il frutto di una ricerca che mette in stretto rapporto le diverse espressioni artistiche con le concrete situazioni ambientali, sociali, religiose, culturali, antropologiche, ecc. di un territorio. Come ha affermato con acutezza Federico Zeri “il misconoscimento di questa interdipendenza è di grave pregiudizio per la comprensione e l’esatta lettura del testo artistico; dal quale, a loro volta, i diversi momenti storici vengono illuminati e chiariti nei loro connotati più essenziali e sottili” (Storia dell’arte italiana, vol.8, pag. XLIV, Torino 1980).
Se lo studio di un’opera d’arte non si ferma solo all’analisi delle sue qualità estetiche specifiche e la si mette in relazione alla committenza, o al suo potere persuasivo, o a certi riti religiosi o vicende storiche che evoca, ecc., essa comincia ad assumere un vigore diverso e un senso diverso. E se, da un lato, un certo ammiccare a modelli importati può farci pensare a semplici repliche più o meno riuscite, dall’altra, la vibrazione di un colore, o la potenza luminosa, o la naturalezza del racconto, o la sincerità espressiva, ci colpisce e ci coinvolge e comunque ci fa comprendere (forse più di alcune studiatissime opere) lo spirito non di un singolo artista ma di una intera società; cogliendo meglio il modo di vivere la fede o il rapporto con il potere, o il modo di vivere una vicenda storica...; capendo meglio i simboli, i miti, le credenze, le superstizioni di un popolo, in una parola: la sua cultura.
Ma Sangiorgio è un artista che va analizzato non solo perché ha contribuito, come altri, spesso sconosciuti, a determinare la vicenda artistica di un territorio ma anche per le sue qualità artistiche specifiche che sono di grande livello. Se si guarda, per fare un solo esempio, ad un’opera come il “Pastorello con zufolo” realizzata nel 1913, cogliamo subito la forza di un’opera assolutamente notevole. Oltre la prodigiosa tecnica, si può apprezzare la potenza espressiva degli occhi che parlano all’immaginazione e al cuore chiedendo complicità e l’espressivo atteggiamento ammiccante delle membra che mostrano compiacimento. Si tratta di un’opera di un verismo che, più che guardare alla condizione sociale di uno dei tanti poveri pastorelli di fine ottocento, vuole scavare dentro la persona, vuole fare emergere la verità dell’animo umano di un bambino in quanto evocativo di un sentimento puro e generoso; quasi un contrappunto alla “fiumana del progresso”, per dirla con Verga, che fa trionfare l’avidità. E di Verga e del verismo che aveva influenzato, con declinazioni diverse, molti dei pittori siciliani di fine ottocento, egli sembra - più o meno - consapevolmente, cogliere, in questo suo “Jeli”, in questo personaggio “primitivo”, ancora più che il dramma di una condizione umana il sentimento puro e incorruttibile legato ad una profonda naturalità. Questa sua sensibilità artistica si manifesta quando i soggetti delle sue opere sono di tipo religioso ma anche quando è preso ad intagliare una cornice, o a modellare una statua con la cartapesta, o a realizzare i decori di una pittura murale….E’ la sensibilità di un uomo che pensava l’arte a tutto tondo, animato da un gusto raffinato che non aveva confini o gerarchie.
Massimo Papa
Critico d’arte
INTRODUZIONE
Questo lavoro si presenta, già dal titolo, come un prosieguo ed un ampliamento dell’opuscoletto di mia madre: (Carmelina Sangiorgio Maniscalco, Cenni sulla vita e le opere di Giovambattista Sangiorgio artista biancavillese, Catania, 2002). Con due differenze: lei scriveva sulla base di ciò che le aveva raccontato sua madre e per la famiglia, io scrivo su documenti (quelli conservati in famiglia e quelli che ho potuto rintracciare) e voglio anche tramandarne memoria in un ambito più vasto (biblioteche, studiosi).
Ho cominciato nel 2007/8 a fare ricerche sulle opere di mio nonno, poi ho dovuto sospenderle e, riprendendole, non ho ancora potuto concludere la parte “investigativa”. Nonostante ciò in occasione del novantesimo anniversario della scomparsa di mio nonno Titta (com’era affettuosamente chiamato in paese) ho deciso di stampare questa edizione per la famiglia. Per noi, suoi nipoti, conta molto l’aspetto conoscitivo e affettivo ma è importante esaminarne le opere: a questo proposito sono interessantissime le cose che ha scritto, nella presentazione, il prof. Massimo Papa. Confesso che da bambino non apprezzavo le opere di mio nonno; fino a quando non ho visto le decorazioni del Casino di Adrano pensavo che dipingesse esclusivamente in stile barocco, anche ricordando ciò che diceva mia madre (mio padre dipingeva secondo lo stile di Guido Reni). Invece era probabilmente la committenza, per lo più religiosa, ad indurlo a ciò; egli era in grado di dipingere anche in altri stili. Qualche elemento in più potrebbe venire dalle foto (se esistono) delle opere di Villa Colantoni, ma della valutazione artistica potrà occuparsi chi in queste materie ha competenze maggiori delle mie, io mi fermo alla documentazione storica.
Le fonti principali sono state l’archivio di mio nonno, l’autobiografia di mia madre e il suo volumetto sul padre. Di quest’ultimo ho voluto ricalcare il titolo e riportarne ampi passi, anche per dimostrare che quello scritto non è enfatizzato dall’amore filiale, ma è una descrizione puntuale, che ha attinto largamente ai racconti di sua madre. Entrambe avevano una venerazione per la memoria di Titta, ma questo non ha comportato enfasi sulla sua attività. Solo in pochissimi casi è stata necessaria qualche piccola precisazione o un chiarimento: ne consegue che il libriccino di mia madre è una fonte autorevole anche per le opere di cui non esiste documentazione o che sono perse, e non sono poche.
Ho inoltre consultato la stampa dell’epoca e raccolto documentazione, tra cui è importante quella di Barcellona P. G. Un grande aiuto viene dalle “certificazioni” di buona esecuzione che gli rilasciavano i committenti, evidentemente su sua richiesta, e cui lui teneva molto, tanto da definirli i suoi gioielli: si vedano i ringraziamenti al padre guardiano del convento di Barcellona per la sua lettera certificato che mi piacque tanto e la ringrazio infinitamente, essa aumenta il patrimonio dei miei gioielli ad ella ben noti per cui son geloso come Cornelia.
Un contributo importante mi ha dato, in diversi incontri, il cugino di mia madre Placido (Dino) Sangiorgio, anch’egli artista.
La novità di questi ultimi anni, che avrebbe fatto molto piacere a mia madre, è che - mentre in passato la memoria di mio nonno era custodita solo in famiglia e nessuno aveva mai scritto di questo artista, tranne qualche accenno nella stampa dell’epoca - oggi vi sono diversi studi che ne parlano: la Guida di S. Francesco all’Immacolata; il corposo articolo sull’organo della Cattedrale di Catania di Carmelo Scandura nel libro dell’Arcidiocesi sul grand’Organo della Cattedrale; il catalogo delle opere di Carmelo e Salvatore Sciuto Patti - nel libro edito dalla Soprintendenza - nel quale abbiamo trovato, con sorpresa, la foto del mitico modellino dell’organo che ritenevamo perso e che invece è conservato presso la Biblioteca Zelantea di Acireale.
Vi è una voce su Wikipedia (creata da me nel 2008) e che un ignoto ha ampliato recentemente. Vi sono, inoltre, su You tube dei video sulla festa A paci di Biancavilla con la sua statua del Cristo risorto; uno di questi è stato girato utilizzando notizie e foto tratte dal libro di mia madre e vi è un’intervista a Dino Sangiorgio.
Vi è insomma materiale per poter tratteggiare meglio non solo le sue opere ma anche la sua vita che, per sommi capi, si potrebbe dividere in quattro fasi:
1883-1909, la fanciullezza e la giovinezza con i primi lavori a Biancavilla.
1910-1919, gli anni in cui cominciò a farsi conoscere e a lavorare fuori.
1920-1926, la maturità, col maggior numero di opere, le più importanti.
1926 (settembre) - 1930 (settembre) la malattia e la morte.
Giovambattista fu il primo di una famiglia di artisti che comprende il fratello Salvatore (3/9/1890 - 10/2/1968) e il figlio di questo Dino (Placido, 3/1/1929) anch’egli affermato artista. Sarebbe interessante studiare in maniera unitaria questa famiglia, in che modo crebbe e come si rapportò all’ambiente artistico delle varie epoche e con la comunità biancavillese, cercando anche di recuperare il ricordo di coloro che collaborarono nel laboratorio dei due fratelli.
ABBREVIAZIONI
ADCT - Archivio diocesano Catania
AGBS - Archivio Giovambattista Sangiorgio.
ASPAZ - Archivio Sciuto Patti, presso l’Accademia Zelantea di Acireale
CdS - Corriere di Sicilia
CS - Carmelina Sangiorgio (nei Ricordi della mia vita, vedi Bibliografia)
CSM - Carmelina Sangiorgio Maniscalco (nel libro su suo padre, vedi Bibliografia)
GdI - Giornale dell’Isola
OFM - Ordine Frati Minori
OFM, Conv. - Ordine Frati Minori, Conventuali
SBCACT - Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Catania
Due antichi romani (AGBS)
RINGRAZIAMENTI
Innanzi tutto voglio ringraziare Dino Sangiorgio per i ricordi sempre lucidi e precisi; ed insieme a lui sua moglie Rosetta e la figlia Maria Teresa che mi è stata di aiuto nelle ricerche a Biancavilla. Lei e mia figlia Alice sono le sole, nell’ultima generazione, a voler intraprendere - forse con maggiore difficoltà rispetto ai predecessori - l’attività artistica. Auguro a loro di riuscire e di continuare l’opera dei loro “antenati”.
Un grazie alle mie sorelle Nunziella e Laura, a mio nipote Angelo e alla mia compagna Silvana per la revisione dello testo.
Mi sono stati d’aiuto in questo lavoro alcuni frati francescani: Benedetto Lipari (OFM); Satìa e Costa (OFM, Conv.) che mi hanno fornito gli articoli della rivista l’Immacolata. Un grazie anche a don Pino Salerno, parroco di S. M. dell’Elemosina di Biancavilla e all’arch. Nicola Neri della Soprintendenza ai BB. CC. AA. di Catania. Infine un particolare ringraziamento al sig. Mario Barresi di Barcellona P. G. che mi ha inviato la documentazione (lettere, foto, filmino) dell’altare della chiesa del Convento di Barcellona P. G. rendendo così possibile la ricostruzione quasi completa dell’appassionante vicenda.
CAP. 1: LA FANCIULLEZZA E LA GIOVINEZZA
L’unica fonte, come dicevo, sono le notizie del libro di mia madre:
Mio padre nacque il 25 dicembre 1883 a Biancavilla [nel certificato di nascita, secondo la consuetudine dell’epoca, risulta nato il 1° gennaio 1884] ridente cittadina alle falde dell’Etna, da Placido Sangiorgio e Carmela Grasso già vedova Lo Faro e con quattro figli. […] Dalle seconde nozze con Placido Sangiorgio mia nonna, Carmela Grasso, ebbe quattro figli dei quali mio padre era il primo, poi vi erano una sorella che si chiamava Alfina, Caterina e Salvatore [che] quando mio padre si trasferì a Catania… continuò a fare dei lavori di restauro nelle chiese di Biancavilla, si sposò ed ebbe quattro figli fra cui una mia omonima anch’essa con uno spiccato senso artistico e Dino. Questo mio cugino ha insegnato disegno ed esegue restauri nelle chiese perpetuando l’arte di mio padre e del suo […].
Fin da bambino mio padre manifestò il desiderio di dipingere ma era ostacolato dal padre che ne voleva fare un artigiano. […] Mentre andava a scuola frequentava anche le chiese del suo paese e faceva dei piccoli restauri alle statue per avere in cambio delle lezioni di musica dai preti.
Ad un certo punto abbandonò la scuola e si mise a lavorare nelle chiese dedicandosi all’arte sacra. Con i soldi ricavati cominciò a comprare libri di storia dell’arte per conoscere lo stile dei grandi artisti e approfondì lo studio del corpo umano. Ricordo molti schizzi con studi di anatomia (CSM, 6-7)
Man mano che andava avanti negli anni mio padre era sempre più apprezzato e i paesani lo chiamavano affettuosamente Titta (diminutivo di Giambattista); però nel paese si usava anche mettere dei soprannomi (u peccu) e mio padre aveva ereditato quello di “Pallina” da suo padre che la domenica usciva con la bombetta, era sarto e questo nel paese era un mestiere importante. Questo soprannome si era poi esteso a tutta la famiglia (CSM, 7-8).
La famiglia era in discrete condizioni economiche, diversi parenti erano preti. Possedevano un agrumeto in contrada Feudo Cavalluccio (o Cavallaccio), delle case in via Consolare con quattro ingressi e una casa in via Nicolina. La casa di famiglia di via Consolare (poi via Innessa; 111 nella numerazione di allora, n. 155 quella odierna) è in una zona centrale, a pochi passi dalla piazza principale. L’ubicazione si può individuare con precisione da una lettera (AGBS, 20/9/1914) che la colloca in via Innessa, angolo via Arco Portale e precisamente in piazza S. Antonino. Via Arco Portale (oggi via Preside Caruso - dall’altro lato sbocca nella piazza principale) all’incrocio con via Innessa forma uno slargo in cui si trova la chiesa di S. Antonino.
Da ragazzo, lasciata la scuola, avrà lavorato in qualche bottega; si ricordi che il padre ne voleva fare un artigiano: è plausibile che padre e figlio abbiano trovato un punto d’intesa su un’attività di artigianato artistico. Collaborando con un mastro avrà avuto modo di cominciare a farsi conoscere: Man mano che andava avanti negli anni mio padre era sempre più apprezzato (CSM, 7).
Mio padre eseguì nel suo paese molti lavori che si possono tuttora ammirare in alcune chiese come il Cristo risorto conservato presso la Chiesa Madre. Dipinse la statua di San Pasquale conservata nel Convento dei Frati Minori, sistemò l’altare maggiore e disegnò il prospetto della chiesa del convento. Progettò un tabernacolo ed un tronetto per la chiesa di Sant’Antonio e disegnò una tovaglia di altare, dando istruzioni per i colori da utilizzare per il ricamo, e nel centro vi dipinse l’effigie del santo. Per un’altra chiesa [l’Annunziata] realizzò una statua di san Giuseppe che porta per mano il bambino Gesù (CSM, 8).
La prima opera importante e tuttora esistente è - secondo la tradizione familiare - del 1897:
Statua di uno scugnizzo napoletano
Per comodino teneva una statua raffigurante uno scugnizzo napoletano che vende fiammiferi a piedi nudi e con le toppe nei pantaloni arrotolati, statua che aveva realizzato all’età di quattordici anni: impastando l’argilla l’aveva modellata, poi infornata ed in ultimo dipinta (CSM, 10).
Scugnizzo napoletano,1897
L’opera successiva per la quale si ha una data certa è del 1910. Di questo lasso di tempo - tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del nuovo secolo - sappiamo poco.
Nel giugno del 1906 fu arruolato ma subito congedato per “rassegna speciale” (cioè venne riformato alla visita, secondo il Regolamento di leva di Carlo Felice del 1824, e analoga formulazione c’è nei regolamenti sabaudi successivi). La strana espressione significa che poteva essere richiamato, come poi avvenne, in caso di guerra pur senza essere assegnato a reparti combattenti. Già in questo documento è definito pittore e da esso sappiamo che era alto 1,61, ma sorprende che i capelli (castani) siano definiti “rossi”. Più avanti in un atto notarile (26/2/1914) viene definito “decoratore”.
In quegli anni lavorò a Biancavilla ma - allo stato - non abbiamo informazioni precise, d’altra parte è normale che di un artista agli esordi rimanga uno scarno ricordo.
Molti dei suoi affreschi nei soffitti e alle pareti di case gentilizie del paese sono andati perduti (CSM, 9). Io penso, invece, che si sia perso il ricordo dell’autore, probabilmente alcune opere esistono ancora. Da Dino Sangiorgio (testimonianze del 3/2/2018 e del 28/1/2020) abbiamo notizia di pitture nei soffitti della propria casa natale di via G. Oberdan [si tratta probabilmente della casa dove Giovambattista e la moglie erano vissuti da sposini, prima che la suocera li costringesse a trasferirsi a Catania] e in una casa in via Giandomenico Romagnosi, vicino la chiesa della Madonna dello Spasimo, dove egli stesso li vide da bambino. In entrambi i casi rappresentavano l’Aurora di Guido Reni, tema che l’artista trattò altre volte, anche in una coperta dipinta di cui si dirà. A proposito di questa attività tra le sue carte vi sono due appunti in e, in uno di essi, sono anche riportati i prezzi del suo lavoro:
Volta maggiore sola pittura a volta piena stile <illeg.> L. 450
[Stanza per] dormire pittura … stile impero con figura L. 350
Sala da pranzo pittura floreale L. 180
A Biancavilla insieme con il fratello avviò una fabbrica di statue e bambole in cartapesta e istituì anche una scuola di disegno molto frequentata. I suoi allievi lo stimavano e per riconoscenza alla fine del corso gli regalarono una gran pergamena [dove] al centro era dipinto in rosso, azzurro e oro “Al professor Giovambattista Sangiorgio i suoi allievi” e seguivano le firme piene di svolazzi (CSM, 9).
Particolarmente interessante è la documentazione della scuola di disegno che istituì e diresse a Biancavilla a metà degli anni dieci. Dalle date segnate su alcuni disegni degli allievi si evince che la scuola fu certamente attiva tra l’agosto 1913 e l’aprile 1916, quando dovette essere chiusa perché in quel mese fu arruolato. Tra il materiale conservato vi sono molte pagine di modelli per disegno (sia ornato che architettonico) tratti da libri ma anche di sua mano. Tra questi ultimi particolarmente interessanti sono quelli in cui il bordo del disegno è bucherellato per la tecnica dello “spolvero”.
Particolarmente interessanti sono una trentina di disegni degli allievi, tutti col voto e la firma del maestro. Abbiamo, a parte pochi disegni anonimi, i nomi di una dozzina di questi allievi (Domenico Barone, Francesco Bellocchi, Giuseppe D’Agostino, Antonino Grasso, Alfio Lanza, Antonino Milazzo, Giuseppe Petralia, Luigi Petralia, Nunzio Romano, Vincenzo Russo, Michelangelo Sangiorgio, Francesco Tempera, Zappalà) che dimostrano come in un comune delle dimensioni della Biancavilla di allora, l’attività artistica riscontrasse un così grande interesse da consentire l’esistenza di una scuola privata di disegno.
Veduta con lago,1920 c.
In sostanza, dopo i primi lavori, ad un certo punto si mise in proprio, sia come “maestro” sia lavorando insieme al fratello Salvatore in un laboratorio di opere in cartapesta. C’è da spendere qualche parola su questo argomento. Sebbene fosse padrone di molte tecniche diverse, i lavori in cartapesta restarono tra le sue principali attività e ricordo di aver visto da bambino, a casa, parecchie di queste opere, tra cui molte bambole e forme per la cartapesta. Vi è un accenno di mia nonna (nella supplica al re di cui dirò) che sostiene che il marito sia stato il primo ad usare in Sicilia questa tecnica; mi permetto di dubitarne perché era comunemente adoperata per statue di culto e per i pupi siciliani e perché, se fosse così, si dovrebbe capire dove l’imparò. In una minuta (s. d., ma del 1921) indirizzata alla Giunta per il collocamento (che, evidentemente, gli aveva fatto delle contestazioni) Giovambattista dice di averla acquisita a Parigi. Anche questa notizia prenderei con le pinze sia per il motivo per la quale è scritta (evitare sanzioni) sia perché se questo viaggio a Parigi fosse veramente avvenuto ne sarebbe rimasto ricordo in famiglia.
A questo proposito, c’è da rammaricarsi che la sua attività si sia svolta tutta in Sicilia, anzi solo nelle province di Catania e Messina. L’ipotesi che mi sento di avanzare è che il suo precoce successo - il fatto che lavorasse in maniera continuativa - lo abbia, in sostanza, danneggiato; non sentì lo stimolo ad andare fuori, a confrontarsi con gli sviluppi della pittura - che in quegli anni erano tumultuosi - come fecero invece altri artisti (da Modigliani a Picasso, tanto per citare due suoi coetanei) che a Parigi ci andarono davvero. Chissà se fosse andato fuori, dove sarebbe potuto arrivare con la sua capacità tecnica e la facilità ad applicarsi alle più diverse discipline.
Nel laboratorio si realizzavano anche opere in legno e, a questo proposito, si ricordano ancora alcuni nomi dei suoi collaboratori: Placido Salomone (poi autore del fercolo di S. Placido), Teddu Manata (forse il peccu, più che il cognome) e Nello Sangiorgio, tutti e tre ottimi ebanisti (testimonianza di Dino Sangiorgio, 28/1/2020).
Il lavoro andava bene e in quegli anni cominciò a lavorare anche nei paesi vicini (Adrano, S. M. di Licodia, Motta S. Anastasia) sia presso privati che nelle chiese. A questo proposito andrebbe meglio indagato il suo rapporto con l’Ordine francescano perché in seguito lavorò molto per essi, soprattutto per i Frati minori.
Nel frattempo lavorò anche per sé: In quel periodo [prima metà degli anni Dieci secondo la ricostruzione di mia madre] mio padre realizzò per la sua stanza da letto, una consolle, una scrivania e due librerie, tutti scolpiti e dipinti color bronzo. Per comodino teneva una statua raffigurante uno scugnizzo napoletano... Aveva dipinto inoltre un quadro raffigurante un pastorello con in mano uno zufolo [1913, firmato e datato, pagina seguente] tanto naturale che sembra volgere lo sguardo da qualsiasi parte lo si guardi, e un quadro raffigurante Gesù bambino [1920 c.] (CSM, 10). Si veda la foto di Giovambattista seduto alla scrivania, col fratello Salvatore, dove sono visibili anche la consolle e i due quadri citati.
Di questi mobili oggi restano la consolle e due colonne in legno, originariamente dipinte color bronzo. La scrivania fu data a restaurare negli anni Sessanta ad un suo allievo ma non fu mai ritirata. Le due librerie furono regalate e se ne sono perse le tracce.
Pastorello, 1913 (Foto originale AGBS)
2. COMINCIA A FARSI CONOSCERE (1910-1919)
Le prime opere documentate risalgono agli anni dieci. A Messina vi era molto lavoro per via della ricostruzione dopo il terremoto del dicembre 1908. Giovambattista lavorò per tutto il 1910 nella villa Colantoni: evidentemente si era già fatto un nome se venne chiamato per un’attività così impegnativa.
Diverse opere a Villa Colantoni a Messina (1910).
Il 14 giugno del 1911 Domenico Cavalieri Colantoni (era un fotografo, abbiamo anche, a pag. 2, un ritratto del nonno con la sua sigla) vergò e firmò, con svolazzante scrittura, a richiesta dell’interessato, una dichiarazione (AGBS, Attestato 14/5/1911) in cui affermava che il Signor Giovambattista Sangiorgio da Biancavilla… ha lavorato in casa mia per lo intero anno 1910 eseguendo, con piena soddisfazione dello Ingegnere direttore dei lavori e mia i seguenti lavori. Seguiva un elenco di lavori di diverso genere (decorazioni alle soffitte - originali e benissimo condotte); lavori di ebanisteria complessi; lavori di intaglio ed a figure in legno e smaltato e pitturato - tra i quali vanno notati in special modo - una giardiniera [forse un portavasi] ed un poggia grammofono che sono due gioielli dell’arte e del genio; lavori in cemento per la villetta come ninfe, puttini e mascheroni. In questa categoria di lavori vanno compresi tre mezzi busti [sottolineatura nell’originale] al naturale eseguiti su fotografia, riuscitissimi e somigliantissimi da superare quelli in marmo fatti da abilissimo scultore.
Ho voluto citare lungamente questo documento - non solo per il gusto di replicare quel linguaggio che si potrebbe dire liberty, dal momento che sospetto che in quello stile fossero i dipinti nella villa - ma soprattutto perché dimostra la versatilità dell’artista nell’operare con tecniche così diverse, compreso il cemento (conserviamo ancora un suo vaso e un mezzo busto in cemento). E non mancò di fare la pitturazione di imposte ed altro a conferma di quanto fossero labili all’epoca i confini fra artigiano e artista, come dimostra anche il fatto che abbia costruito mobili per sé.
Giovambattista rimase in rapporti cordiali col committente e le due famiglie si tennero in contatto. Ancora dieci anni dopo il Colantoni invitandolo alle nozze della figlia, gli scriveva: sono contento eziandio che ti sei stabilito per dimora a Catania, vasto campo dove la tua intelligenza e la tua attitudine potrai maggiormente applicare che non a Biancavilla, e dove i tuoi lavori potranno vieppiù essere considerati ed apprezzati (AGBS, lettera del 12/3/1921).
La villa Colantoni, a Tremestieri di Messina, sebbene vincolata con D. A. n. 5544 del 7/4/1998 (di cui non abbiamo ancora potuto reperire copia perché sembra introvabile sia nell’archivio della locale Soprintendenza che in quello dell’Assessorato regionale) fu distrutta alla fine del secolo scorso: con la demolizione della villa scompare una interessante abitazione padronale del secolo scorso caratterizzata non soltanto dalla doppia rampa d’accesso, ma anche dalle pitture a tempera dei soffitti (settimanale Centonove, 21 agosto 1998).
Nello stesso anno a Messina lavorò anche presso la Chiesa di S. Maria degli Angeli. All’inizio del 1911 padre Francesco Parisi, OFM, gli scriveva: Sento il dovere di ringraziarla dell’impegno avutosi nella costruzione della bellissima grotta e nella rinnovazione del simulacro di S. Maria SS. di Lourdes d’ottima riuscita. La ringrazio perciò di gran cuore e a suo tempo l’attendo a compiere qui gli altri lavori a maggior gloria di Dio. Fra poco tempo è probabile che venga costà il R. P. Gaetano ed allora egli, piacendo a Dio, liquiderà con lei il conto (AGBS, lettera del 26/2/1911).
Ma: non avendo potuto venire costà il R. P. Gaetano, come Le avevo scritto, le accludo nella presente un altro piccolo fiore di lire cento, pregandola di compatirmi sia per la pochezza che pel ritardo. E aggiungeva: Ella quando ritornerà in queste parti, speriamo presto, vi sono diverse cose che l’attendono con una certa impazienza e penso ne fanno domanda (AGBS, lettera del 10/4/1911). Il termine fiore (o il suo equivalente bacio) per indicare un piccolo acconto lo troveremo ancora, adoperato da altri frati francescani.
Effettivamente in seguito vi furono altri lavori dal momento che quattro anni dopo lo stesso padre Parisi scrisse: ho provato la sua perizia nella bell’arte della Pittura. Ella infatti ha saputo, con grande ammirazione dei fedeli, da vero artista, rifare, per questa Chiesa di S. M. degli Angeli la bella statua di M. SS. di Lourdes [il lavoro del 1910] e quella del nostro patriarca S. Francesco d’Assisi, già malconce dal terremoto; ha saputo molto bene ritoccare il S. Antonio da Padova,
Bozzetto per Angeli su un soffitto, 1920 (AGBS)
ed in ultimo ci ha allietati con la molto preziosa statua del SS. Cuore di Gesù. Io rendo grazia al sommo datore d’ogni bene che le ha dato questo bel genio artistico (AGBS, lettera del 28/2/1915 nella quale adesso si firma come Comm. Prov.le ed ha il timbro della Frater. S. Franc. Provincia Siciliae S. Agathae).
Dei lavori citati esistono ancora nella chiesa le statue dei due santi, oggetto nel tempo di ulteriori interventi di restauro, mentre la statua della Madonna è stata spostata nella sacrestia e, nella chiesa, è stata sostituita da una statua in legno realizzata a Ortisei, così come la statua del Cuore di Gesù oggi presente; quella realizzata dal nonno, di quest’ultimo soggetto, non esiste più (notizie del Rettore della Chiesa, padre Domenico, 2/9/2020).
Tabernacolo e tronetto
Chiesa di S. Antonio a Castel di Lucio (1911)
Ho notizia anche di lavori a Milazzo e a Castel di Lucio dove progettò il prospetto della Matrice disegnò un altare e realizzò un tabernacolo e un tronetto per la chiesa di S. Antonio (CSM, 9).
Il tronetto per l’esposizione eucaristica è una sorta d’edicola, generalmente di legno e sormontata da baldacchino, che viene posta sull’altare. L’ostensorio è messo al centro del tronetto che a sua volta va posto sul tabernacolo o sul gradino più alto dell’altare (da Cathopedia.org. - Cfr. Appendice, pag. 77).
Il tabernacolo e il tronetto furono realizzati nella prima metà del 1911 dal momento che nell’agosto di quell’anno padre Francesco M. Franco gli scrisse: Il tabernacolo è arrivato in questa sano e salvo [...] Non appena mi giungerà il tronetto ti rimetterò il rimanente del tuo avere accompagnato da un regalino che può fare un povero figlio di S. Francesco (AGBS, lettera del 22/8/1911).
Altare e progetto del prospetto della chiesa madre
di Castel di Lucio (1913)
Dell’altare sappiamo da un biglietto di buon anno (AGBS, s. d. ma, probabilmente, dicembre 1912) di padre Francesco Glorioso, OFM, che gli chiedeva il preventivo.
Per il prospetto la fonte è lo stesso padre (AGBS, lettera del 5/6/1913). In ambedue i casi non si trattava di una chiesa francescana ma della Matrice, retta dall’arciprete Giambattista Stimolo, per conto del quale il padre Glorioso scriveva, precisando che: L’arciprete però desidera una relazione dettagliata, minuziosa, in modo che si possa vedere il costo non (abblocco) [sottolineato nell’originale] come dice lui, ma per ogni singola cosa. Aggiungeva che Il disegno in generale è piaciuto, solo non si vorrebbe l’orologio dove è posto, ma collocato in modo che si possa vedere dalla parte larga della piazza per come si trova adesso [...] Concludeva: Ecco servito dalla parte mia e, per tirarsi fuori da ulteriori incombenze, inviava l’indirizzo dell’arciprete in modo che l’artista tenesse i contatti direttamente. Dal tono della lettera e dallo sberleffo [abblocco, come dice lui] si intuisce che non avesse grande stima dell’arciprete e lo conferma in una successiva missiva (AGBS, lettera del 8/8/1913): perché dall’arciprete chiuso com’è non la si sa mai [non si capisce mai cosa pensa]. In quest’ultima lettera chiedeva anche qualche foto del progetto dell’altare (evidentemente Giovanbattista vi aveva apportato delle modifiche). Non abbiamo questa foto ma conserviamo quella del disegno del prospetto della chiesa. Oggi, da Google maps, si vede che il prospetto della Matrice è diverso dal disegno e quindi il lavoro non fu eseguito. L’altare fu invece realizzato dal momento che più avanti vi sono solleciti per il pagamento.
In sostanza, già dai primi anni del secolo operò fuori dalla provincia di Catania ma, mentre di alcuni di questi lavori vi sono documenti, dei primi lavori nella città di Catania non esiste nulla. Sappiamo per certo che vi lavorò sia da accenni in lettere della seconda metà degli anni dieci, sia dallo scritto di mia madre sulle circostanze in cui conobbe la futura moglie nel 1920: … ed è stato questo zio che gli parlò, quando mio padre veniva a Catania per lavori ( CSM, 10).
È probabile che risalga a questo periodo (1905-1910) un lavoro realizzato a Catania, oggi non più esistente, ma per il quale abbiamo una precisa descrizione: Nella cappella del Collegio di S. Vincenzo dipinse nell’abside l’affresco con la medaglia miracolosa e realizzò il quadro delle quattro suore martiri prendendo come modello tre suore e la madre superiora (CSM, 18).
Entrambe le opere riguardavano le suore Figlie della carità di S. Vincenzo de Paoli. La medaglia miracolosa è quella coniata a Parigi nel 1830 a seguito di un’apparizione mariana a Santa Caterina Lebouré, mentre le quattro suore martiri furono ghigliottinate ad Arras nel 1794 e negli anni di cui parliamo era in corso - da parte di Benedetto XV - la causa di beatificazione. Tra le carte dell’AGBS vi è una stampa sul martirio delle suore: non sappiamo se il quadro la riprendesse o avesse altra impostazione.
La descrizione di mia madre è dettagliata perché lei conosceva quel collegio sin da bambina e, successivamente, vi lavorò come maestra dopo il diploma: mia madre si diede da fare per trovarmi un lavoro. Si rivolse alla madre superiora del collegio S. Vincenzo che mi voleva un gran bene, era venuta perfino a casa mia quando ero nata e mi aveva portato una collanina e una copertina di lino ricamata che conservo tuttora. Poi ero stata ospite in collegio per quasi un anno quando i miei genitori si erano recati a Roma [per la malattia del padre, 1926-27]. La superiora accolse di buon grado la richiesta di mia madre e mi assegnò una quarta classe (CS, 60).
Lavori di decorazione del Casino dei civili
di Adernò (1912)
Un altro dei gioielli di Giovambattista fu emesso dal Circolo dei civili di Adernò. In esso la Commissione del Circolo, premettendo che aveva concesso in appalto al sig. Sangiorgio Giovambattista di Placido tutti i lavori di riattamento dei locali di questo Casino, consistenti in bronzatura di mobili (specchi) quanto di indoratura di tutte le volte e le pareti ed in generale decorazioni di tutte le volte ed altri lavori [...] dichiara per onore del vero che il signor Sangiorgio eseguì i predetti lavori con abilità e coscienza e che gli stessi hanno riportato l’unanime approvazione dei soci di questo Casino e della sottoscritta Commissione (AGBS, Attestato del 22/6/1912)
Il Circolo ha cambiato denominazione più volte, oggi si chiama Circolo Democratico (nessuna attinenza col PD) ed è ubicato in piazza Barone Guzzardi. Titta realizzò gli stucchi del grande salone e di una stanza attigua nonché la decorazione di due grandi specchiere che ricordano la consolle che aveva fatto per il suo studio. L’attestato citato è l’unico documento rimasto del Circolo dal momento che l’archivio fu distrutto durante il fascismo quando i locali furono requisiti ed adibiti a Dopolavoro (notizie dell’arch. Nicola Neri, socio del Circolo, 6/10/2017).
Quadro del pastorello che suona lo zufolo (1913)
Aveva dipinto inoltre un quadro raffigurante un pastorello con in mano uno zufolo, tanto naturale che sembra volgere lo sguardo da qualsiasi parte lo si guardi... (CSM, 10). Questo quadro (pag. 24) che tanto mi incuriosiva da bambino (andavo nel salotto per vedergli volgere lo sguardo) è tra i pochi lavori firmati e datati ed è una delle sue più belle opere.
Nel 1913 eseguì il restauro della statua di Maria SS della Provvidenza nella chiesa del Convento di San Papino (OFM) a Milazzo che lo Stato aveva appena restituito all’ordine francescano (AGBS, Attestato del 13/6/1913).
Nel 1915 realizzò per il cav. Ardizzone Sotera di S. M. di Licodia due arazzi (o, più probabilmente, pitture su seta). Lo sappiamo da due biglietti del cavaliere: Un arazzo, cioè una copia di un lavoro di Crosio [Luigi Crosio, 1834-1915] il quale è su tela di seta da me accettato con piacere (AGBS, 28/2/1915). Ed un altro era in lavorazione; il cavaliere, due giorni prima, con un garbato biglietto aveva rifiutato di esporre - non sappiamo dove - quello accettato con piacere mentre relativamente a quello che state lavorando vi do facoltà esporlo prima di consegnarmelo (AGBS, 26/2/1915). Purtroppo, non avendo alcuna altra notizia sul soggetto delle pitture vi sono poche possibilità di rintracciarli, anche perché la famiglia (una delle più cospicue del paese) si è da anni trasferita a Catania, vendendo il palazzo al Comune (oggi è sede di attività culturali) ma portando via mobili e suppellettili.
Nel 1915-6 realizzò, per la chiesa dell’Annunziata di Biancavilla, la statua di S. Giuseppe con Gesù bambino. Il can. Placido Bucolo attestò (AGBS, 20/1/1917) tutta la soddisfazione che la statua e per la posizione, e per l’atteggiamento e per l’espressione estetica e pel colorito corrisponde ad una vera opera d’arte. Questa statua, attorno il 2010, fu portata per un paio d’anni presso l’Accademia di Belle Arti di Catania per essere copiata dagli studenti ed è stata oggetto di una tesi di laurea (D. Sangiorgio, intervista nel video A Paci; M. T. Sangiorgio, testimonianza del 25/7/2019).
Che in quegli anni abbia lavorato intensamente non lo dicono solo gli attestati ma anche la documentazione che dimostra una certa disponibilità di denaro. Nel 1912 acquistò cartelle del debito pubblico e intrattenne rapporti col Banco cambi e commissioni. Negli stessi anni vi è una corrispondenza con la ditta Crudo, che pubblicava libri d’arte, dalla quale risulta che ne comprasse abitualmente (se ne trovano diversi tra il materiale della scuola di disegno) come ricordava mia madre: Ad un certo punto abbandonò la scuola e si mise a lavorare nelle chiese dedicandosi all’arte sacra. Con i soldi ricavati cominciò a comprare libri di storia dell’arte per conoscere lo stile dei grandi artisti e approfondì lo studio del corpo umano. Ricordo molti schizzi con studi d’anatomia (CSM, 7).
Scoppiata la guerra, il fratello Salvatore fu richiamato tra i primi e destinato a Tolmezzo. Nel maggio 1916 fu la volta di Giovambattista, incorporato come soldato semplice nel 6° Reggimento di fanteria, a Palermo, dove giunse a luglio. Pare sia stato assegnato come attendente al colonnello (Campisi) che dirigeva il deposito del Reggimento, col quale rimase in rapporti anche dopo la fine della guerra: Io e gli ufficiali sentiamo la tua mancanza [...] Segnatamente poi manchi tu, artista enciclopedico e pieno di risorse (AGBS, lettera del Col. Campisi, 7/4/1919). Durante la guerra continuò la sua formazione, come attesta la lettera di un ufficiale che lo indirizzava al prof. E. Gabrini, Direttore del Museo nazionale di Palermo, definendo il soldato Sangiorgio della mia compagnia un ingegno versatile.
Fu smobilitato nel primo trimestre del 1919 (nel dicembre precedente risulta ancora a Palermo) ma nel Foglio di congedo (AGBS, 19 agosto 1919) adesso i capelli sono neri! Questo foglio era indirizzato all’abitazione di via Innessa ma nel frattempo egli si era trasferito, infatti vi è aggiunto a matita “via Bosco... <illeg.> ”. Potrebbe essere in questa casa di via Bosco che vissero i nonni da sposini: Dopo alcuni giorni i miei genitori andarono a Biancavilla dove mio padre possedeva una bella casetta: quattro stanze con le finestre che davano sul giardinetto... Per una quindicina di giorni furono felici, ma all’improvviso videro arrivare mia nonna che era gelosa di mio padre perché le aveva portato via la figlia. Così gli sposini dovettero ritornare a Catania. D’allora in poi abitarono tutti insieme a Picanello (CSM, 13). Nei primi tempi Giovambattista ebbe qualche frizione con la suocera perché aveva un carattere forte e sebbene - come ricorda mia madre e come confermano le carte - fosse benvoluto da tutti, quando qualcosa non andava non esitava ad imporsi come quando fece smantellare l’altare della chiesa del Convento di Biancavilla e rifarlo da capo perché gli operai non avevano seguito le sue direttive (testimonianza di Rosetta Sangiorgio, 3/2/2018).
Come gli artisti rinascimentali la sua attività non si limitava alla pittura e alla scultura. Pur non avendone il titolo, lavorò anche come “architetto” progettando i prospetti della chiesa del convento di Biancavilla e della chiesa madre di Castel di Lucio (quest’ultimo non realizzato) e nel suo archivio vi sono parecchi schizzi di architettura. Vedremo più avanti (pag. 63) che aveva progettato la propria abitazione a Catania, una villetta nel terreno che aveva comprato con la moglie al Rotolo, con un grande laboratorio artistico nel piano inferiore.
Sappiamo, da varie fonti, che si dilettava di teatro (come organizzatore e “regista” ma anche recitando egli stesso: vi è una sua foto in costume da scena) di fotografia, di canto e di musica: per gli esami di canto suonò e cantò la “Mattinata” di Leoncavallo (CSM, 10: cfr. pag. 37).
Aveva, inoltre, un gran senso dell’humor di cui rimangono alcuni aneddoti. Ricordo che un giorno, da bambino, mentre passavo con mia nonna davanti la garitta del dazio di via Nuovalucello (allora già chiusa) lei mi raccontò di uno scherzo che il nonno aveva fatto alle guardie. Una sera col buio passò intabarrato e con fare furtivo tenendo le braccia larghe, con le mani intrecciate sotto la mantella come se portasse un grosso cesto. Gli agenti del dazio gli intimarono di fermarsi ma lui accelerò il passo. Lo raggiunsero e lo riconobbero:
- Professore cosa porta?
Lui aprì le braccia facendo vedere che non aveva nulla e al loro stupore rispose:
- E che c’è? Un galantuomo non può andare in giro con le braccia larghe?
Nella corrispondenza di questi anni si nota una sicurezza che, probabilmente, oltre al carattere, derivava dall’essere ormai un artista affermato. Che continuasse a studiare, come ricorda mia madre, lo dimostra il fatto che nelle prime lettere vi sono errori di ortografia che poi scompaiono, mentre la calligrafia è sempre molto bella.
Fino al 1920 non si conoscono altri lavori.
Vaso con ritratto di M. Teresa. 1921
3. LA MATURITA’ (1920-26)
Dal 1920 fino al 1926 i lavori si succedono ininterrottamente: Prima della mia nascita [1921] aveva pensato di fare una culla a forma di conchiglia [vedi il bozzetto a pag. 5] ma non arrivò a realizzarla perché troppo elaborata e lui non aveva molto tempo libero (CSM, 13-14). Anche dalla documentazione questo risulta il periodo più intenso, in cui realizzò le opere più importanti, su alcune delle quali ci soffermeremo.
Tornando, dopo il congedo, a Biancavilla, si iscrisse al Partito Popolare, si impegnò, in qualità di segretario, nell’attività della Confraternita Sant’Antonino e realizzò lavori per alcune chiese. Sappiamo, da accenni in diverse lettere, che in quel periodo lavorò parecchio a Catania.
Mio padre aveva uno zio materno, Giuseppe Grasso parroco nella chiesa di Santa Chiara a Catania, ed è stato questo zio che gli parlò, quando mio padre veniva a Catania per lavori, di una signorina timorata di Dio e di buona famiglia e fece in modo di farli incontrare.
Così mio padre conobbe mia madre e si presentò come pittore, scultore e decoratore. Però mia nonna, che apparteneva ad una famiglia di ceto più elevato, desiderava per la figlia un diplomato e fu allora che mio padre ricominciò a studiare e da esterno in pochi mesi conseguì il diploma magistrale con il massimo dei voti. Agli esami fece un disegno che strabiliò i professori e per gli esami di canto suonò e cantò la “Mattinata” di Leoncavallo (CSM, 10).
Sostenne gli esami magistrali forse ad Adrano (AGBS, lettera allo zio sac. Grasso, 13/1/1920) nel 1920 visto che nel gennaio del 1921 il Colantoni gli faceva i complimenti per il conseguimento del diploma di maestro.
Nell’aprile del 1920 fu stipulata la Convenzione antenuziale con la quale si sceglieva il regime dotale e la madre della sposa, Giuseppina Pistorio, si impegnava a dare allo sposo dotatario L. 20.000 ed alla figlia, mia nonna Sara, un corredo del valore di L. 4000. La nonna Sara ebbe poi anche una proprietà alla Piana, che fu poi venduta per comprare un terreno a Catania, zona Rotolo.
Dopo un periodo di fidanzamento durato alcuni mesi, i miei genitori si sposarono nella stessa casa di Picanello e il corteo nuziale si snodò nella grande e bella terrazza (CSM, 12). Il matrimonio ebbe luogo il 28 aprile 1920. Il nonno organizzò la scenografia e disegnò il vestito da paggio per il nipote che portava gli anelli. La sera, per il ricevimento, mia madre indossava un vestito di tulle nero, che conservo ancora, dipinto da mio padre passandovi con un pennellino della resina e spruzzandovi dopo la polvere d’oro (CSM, 13). Nell’aprile 2017 abbiamo donato questo vestito, insieme ad altre cose, al Museo del costume di Mirto.
Quando gli sposini furono costretti dalla suocera a lasciare Biancavilla andarono ad abitare con lei a Catania, in una villa in via Nuovalucello (oggi non più esistente, allora al n. 35, poi 39 - com’era ancora negli anni 50 - e, oggi, 25) dove allestì il laboratorio.
A casa nostra vi era una stanza adibita a laboratorio. Questa aveva il banco da falegname, perché la base delle statue era di legno e quindi vi erano dei giovani che sistemavano le tavole, le stringevano con una morsa, le tagliavano e le piallavano, facendo cadere a terra dei trucioli che a me sembravano riccioli. Ricordo che una volta in casa vi era un altare di legno che occupava una parte della stanza da lavoro. A me sembrava altissimo, e certe volte mi nascondevo là dietro e mi coricavo sopra i trucioli. Anzi una volta mi sono pure addormentata, mentre la mamma mi cercava affannosamente (CSM, 21). L’altare di cui parla mia madre è certamente quello della chiesa del convento di Barcellona PG di cui, tra breve, conosceremo la travagliata storia.
In questo periodo realizzò altri pezzi di arredamento per la casa.
Camera da letto matrimoniale e culla (1920)
Prima del matrimonio mio padre aveva realizzato la camera da letto matrimoniale in stile Luigi XV con fregi in oro e degli ovali con sfondo azzurro dove aveva dipinto dei puttini che volavano fra le nuvole. Prima della mia nascita aveva pensato di fare una culla a forma di conchiglia ma non arrivò a realizzarla perché troppo elaborata e lui non aveva molto tempo libero. Allora ripiegò su una culla più semplice dello stesso stile della camera da letto: in alto vi pose un angelo in cartapesta che teneva avvolto nelle mani il velo che ricadeva poi sulla culla. In seguito fece per me un lettino dipingendo sulle spalliere dei rami di pesco con sopra degli uccellini e qualche farfalla, seguendo i miei desideri. In questo stesso lettino hanno poi dormito tutti i miei figli ed alcuni dei miei nipoti (CSM, 13-14)
La culla fu venduta dalla nonna negli anni trenta a causa delle difficoltà economiche seguite alla morte del marito.
Il quadro di Gesù bambino fu realizzato, come detto, negli anni dieci come pezzo a sé e infatti nella foto dei due fratelli lo si vede appeso alla parete dello studio. Quando realizzò la camera da letto gli mise una cornice dello stesso stile e lo inserì in essa. Questi mobili si aggiunsero a quelli dello studio che aveva realizzato precedentemente (vedi pag 23).
Due quadri a soggetto campestre
Conservo ancora due quadri di mio padre a soggetto campestre in cui gli alberelli, veri ramoscelli d’ulivo, sono a rilievo incollati e dipinti al fondo del quadro con una tecnica per quei tempi innovativa (CSM, 14).
Coperta ricamata con dipinta l’Aurora di Guido Reni (1920-21 c.)
Mia madre da giovinetta aveva ricamato il suo corredo ma durante il fidanzamento si accingeva a ricamare la coperta “buona”. Saputolo, mio padre disse a mia nonna di comprare del maurè [moirè è un tessuto con “effetto venatura”] e lui vi avrebbe dipinto “quattro fiori”. Ideò invece una coperta che riuscì a finire solo dopo la mia nascita perché troppo elaborata. Al centro vi dipinse l’Aurora di Guido Reni e attorno una bordura, larga quasi 50 centimetri, di rose bellissime e tutta diverse l’una dall’altra. Questa coperta mia madre l’ha messa sul letto quando mi sono sposata e tutt’ora la conservo gelosamente (CSM, 11-12).
Due grandi vasi (1921 c.).
Fra l’altro mio padre realizzò una coppia di grandi vasi in gesso che poi decorò ad imitazione della maiolica raffigurando dei draghi e dei motivi floreali risparmiati nel colore giallo del rivestimento e aggiungendo un fondo blu scuro. Al centro del vaso dipinse un medaglione con il ritratto di Maria Teresa d’Austria (foto a pag. 36), nell’altro vi era Leopoldo di Lorena. Questo secondo vaso sarebbe poi andato completamente distrutto durante la guerra (CSM, 14).
Noi ci sentivamo sicuri perché eravamo in periferia ma una notte del gennaio ‘42 fu lanciata una bomba sulla grande villa Elford, già residenza del console inglese [la casa dove vivevano mia madre e la nonna era di fronte] … Abbiamo subito molti danni … una finestra è caduta rompendo uno dei grandi vasi dipinti da mio padre, quello che raffigurava il re, e danneggiando il quadro del pastorello che abbiamo trovato con un pezzo di vetro confitto nel petto (CS, 62).
Tra le maggiori opere realizzate su commissione risalgono a questo periodo:
La statua del Cristo risorto (1921)
La statua, in cartapesta e tempera trattata, alta oltre due metri, fu commissionata dall’allora parroco, can. Vito Piccione, per la Chiesa madre di S.M. dell’Elemosina a Biancavilla e fu realizzata con la collaborazione del fratello Salvatore. Fece da modello un pastore che si accontentava come remunerazione di una fiasca di buon vino. La statua fu realizzata a Catania (dove nel 1921, già sposato, si era trasferito). All’arrivo a Biancavilla fu accolta alla stazione da una gran folla e dal clero e fu accompagnata con la banda nella Chiesa Madre (Dino Sangiorgio, nel video Il Cristo risorto di Biancavilla). La statua è protagonista di una delle più importanti cerimonie religiose: nella rappresentazione chiamata A paci, a Pasqua, viene portata in giro per il paese, mentre le statue della Madonna e dell’arcangelo Gabriele seguono altri percorsi; infine nella piazza centrale vi è l’incontro e il bacio tra la madre e il figlio.
Cristo risorto, Biancavilla, 1921
Questa scoperta, [l’autore dell’opera] se fa luce su alcuni aspetti, ci pone ulteriori interrogativi, sul ruolo del biancavillese Sangiorgio e sul perché l’autore del Risorto non abbia realizzato anche il simulacro della Madonna. Tutto attesta, in ogni caso, il contributo che maestranze e artigiani locali hanno dato in passato alla crescita della comunità locale (http://www.santamariaelemosina.it/blog/2017/04/78194: Giuseppe Marchese, A paci ieri e oggi).
Presso il convento dei Frati minori della stessa città dipinse la statua di San Pasquale, sistemò l’altare maggiore e fece il disegno del prospetto della chiesa. Queste ultime due opere non esistono più in quanto l’altare odierno è stato rifatto da pochi anni in legno scolpito, ed il prospetto fu rimodellato negli anni sessanta del secolo scorso (Antonio, frate guardiano, testimonianza del 5/12/2017). Nella sagrestia della chiesa vi è un’altra sua opera, la statua Cum silentio operantes: un angelo che fa il segno del silenzio, un invito ad operare con umiltà.
A San G. La Punta realizzò una statua in cemento armato da sistemare sotto il pergolato nella Casa di villeggiatura del Seminario di Catania (CSM, 17). Un appunto manoscritto, di mano dell’artista, chiama la statua Madonna del pergolato e dice che fu inaugurata la sera di sabato 5 agosto 1922.
Nel 1923 restaurò un quadro di Sant’Anastasia nell’oratorio dell’omonima cittadina. La Commissione dell’oratorio Ammirata l’opera di restaurazione della sacra immagine... Certifica di tributare con vive compiacenze e piena soddisfazione un voto di plauso... (AGBS, Attestato del 25/8/1923).
Nella seconda metà del 1923 stava completando, a Catania, un lavoro per i Salesiani di cui non conosciamo la natura; lo apprendiamo dalla lettera al Convento di Barcellona P. G. (AGBS, 9/11/1923) citata a pag. 46.
Nel febbraio del 1924 firmò il contratto (vedi pag. 51) per la realizzazione della prospettiva artistica (la Cantoria) dell’organo di S. Francesco all’Immacolata di Catania ed in quel periodo si iscrisse alla “Famiglia artistica catanese” (ormai si era trasferito in città) con la qualifica di decoratore.
Nel 1925 fece il Disegno per la tovaglia d’altare con effige del santo per la chiesa di Sant’Antonio a Biancavilla (AGBS, lettera del 20/3/1925).
Nell’ottobre del 1925 il Commissario del Comune di Biancavilla lo convocò con tono perentorio: Venga subito con progetto et preventivo spesa fercolo S. Placido (AGBS, telegramma del 19/10/1925). Non realizzò l’ opera dal momento che l’attuale fercolo fu costruito nel 1929 da Placido Salomone ed è alquanto diverso dal disegno presentato dal nonno e che Dino Sangiorgio conserva. Probabilmente Giovambattista aveva inviato in precedenza il disegno ma poi, una volta convocato, non poté accettare la commessa perché oberato di lavoro dal momento che era impegnato a Catania - e contemporaneamente - negli organi della Cattedrale (aveva iniziato l’attività di smontaggio del vecchio organo quattro giorni prima del telegramma) e di S. Francesco all’Immacolata, lavori di contratti già firmati che aveva dovuto onorare nonostante il mese precedente fosse morto il figlioletto Dino.
La “macchinetta” per l’altare del convento
di Barcellona P. G.
Su quest’opera (l’altare, di cui la “macchinetta” è la parte superiore) è utile soffermasi perché ho raccolto una copiosa documentazione che ci permette di ricostruire le lunghe e travagliate fasi della realizzazione (una prima, 1923-26, ed una seconda 1929-30), il rapporto coi frati e il significato che quell’altare ebbe per la gente di Barcellona.
Quando cominciai a studiare le carte del nonno pensai di contattare i preti di alcune chiese dove ci sono suoi lavori. Ovviamente si stupivano dell’interesse per opere di molti decenni prima. Quando telefonai al Convento di Barcellona mi sentii invece rispondere: Lei è il nipote di Sangiorgio? Ma sa che noi stiamo cercando i suoi discendenti? Abbiamo anche scritto in via Nuovalucello ma non abbiamo avuto alcuna risposta. In quegli anni un gruppo di laici stava facendo delle ricerche per un volume che avrebbero dovuto pubblicare nel 2013, quattrocentesimo anniversario della fondazione della prima chiesetta dedicata a S. Antonio, volume che poi - per il cambio dei frati e per motivi economici - non fu realizzato ma che, a breve, vedrà la luce.
Mi mandarono la documentazione dell’altare (foto ed un filmino) e le fotocopie delle lettere del nonno. Io inviai le copie di quelle del Convento: abbiamo così l’epistolario quasi completo. Mi fecero avere anche il racconto della storia dell’altare che oggi non esiste più perché fu smontato nel 1985 a seguito delle modifiche liturgiche del Concilio Vaticano II. Lo smontaggio fu fatto di notte dal momento che gli abitanti si opponevano: gl i erano affezionati perché durante la guerra vi mettevano le foto degli uomini al fronte. Vi furono forti polemiche che si ricordano ancora oggi (vedi pag. 71-72).
La storia dell’altare comincia nell’ottobre del 1923 con la richiesta da parte di padre Serafino Tata dei Frati Minori. Dal testo è chiaro che ne avevano già parlato e che tra il nonno e i frati vi fosse un rapporto consolidato e di amicizia visto che si danno del tu. Padre Serafino gli chiede non solo le indicazioni per la realizzazione dell’altare maggiore ma anche suggerimenti per la completa ristrutturazione della chiesa: Il lavoro dovrà essere fatto perché S. Antonio lo vuole. In merito al primo lavoro da effettuare aggiunge: tutti desideriamo che sia un tabernacolo molto allusivo e in tutto bello e perfetto... (AGBS, lettera del 24/10/1923). Non è conservata la risposta del nonno che evidentemente accetta l’incarico dal momento che nella successiva missiva (AGBS, lettera del 1/11/1923) padre Tata precisa che Pel tabernacolo puoi iniziare il lavoro e sono certo ci lascerai contenti. Aggiunge poi che c’erano problemi col marmista, comunica le misure per l’altare e per la Macchinetta ed il preventivo per l’altare (3500 lire) e per la Cappella (1800 lire). La lettera si chiude con la simpatica certezza di non mangiari pisci fitusi: che il lavoro sarà fatto a regola d’arte.
Il nonno risponde (AGBS, lettera del 9/11/1923) sui particolari tecnici e, di fronte al rifiuto del marmista, dichiara che sono disposto io a farti il disegno dell’altare gratis et amore Dei e chiede le misure precise della cornice: Dunque manda presto le misure e subito ti mando il disegno dell’altare prima, così cominciate a lavorare, il disegno della macchinetta dopo.[...] se lo vuoi per Pasqua da parte mia potrò eseguire tabernacolo e macchinetta, purché non si perda tempo - aggiungendo che avrebbe cominciato entro una quindicina di giorni non appena avrebbe completato un lavoro per i Salesiani, di conseguenza oggi stesso ho già fatto tagliare la legname pel tabernacolo.
Giovambattista conclude la lettera con imbarazzo perché - avendo fatto un’ordinazione di oro zecchino e colori per 4300 lire, che doveva ritirare subito presso la dogana, gliene mancavano 5/600 - chiede di inviargliegli e sono deciso a restituirteli fra 15 giorni […] e ti prego di scusarmi per questa strana ed insolita richiesta. Insieme ai saluti c’è la rassicurazione che sarai sicuro di non mangiare pisci fitusi.
I frati rispondono (AGBS, lettera del 29/12/1923) di aver ricevuto il disegno (dell’altare) ottimo in tutto, non tralasciammo di bearci in ammirarlo ma, per quanto riguarda i costi: Qui cominciano le dolenti note. S. Antonino è grande ma... tanto denaro ove si capita? […] Desideriamo che ti accontenti di quanto possiamo […] non possiamo darti più di L. 3000 per il Padre, mille per il figlio e 100 per lo S. S. non come equo compenso ma come fiore (in altri tempi la monetizzazione e la diversa quantificazione delle persone della Trinità avrebbero potuto portare padre Serafino sul rogo...).
A metà febbraio dell’anno successivo (AGBS, lettera del 16/2/1924) padre Alessandro Leotta risponde a delle lettere del nonno (non conservate) chiarendo questo ritardo da parte mia e il silenzio da parte di p. Serafino son dovuti a diverse ragioni, non ultima quella suggerita dalla più elementare prudenza. Comprenderai facilmente che intendo parlare della somma necessaria all’opera da te egregiamente ed artisticamente concepita. […] D’altra parte poiché il tempo passa e una decisone è da prendersi faccio a te due semplici domande. Dalle tue risposte […] dipende l’inizio o il differimento dell’opera. Le due domande riguardavano il costo complessivo del lavoro, materiali compresi, e quello degli operai di Barcellona che avrebbero dovuto provvedere al montaggio. Saputo l’importo cumulativo noi misureremo le nostre forze [… ] è la prudenza che ci suggerisce questo linguaggio. Noi siamo frati, e da un giorno all’altro passibili di trasferimento, e non vorremmo lasciare penose appendici.
C’era certamente la difficoltà economica e la prudenza dei frati ma c’era anche - lo testimonia mia madre - il pensare in grande del nonno: mia madre mi raccontava che era andata qualche volta a Barcellona assieme al marito ed erano stati ospitati eccezionalmente al Convento. Diceva che i monaci [rectius: frati] si rammaricavano perché dovevano frenare mio padre che quando aveva la matita in mano si lasciava trascinare dalla sua vena artistica e si sbizzarriva facendo dei disegni belli e complicati la cui realizzazione richiedeva un costo eccessivo (CSM, 17).
Le cose si sbloccarono perché Giovambattista ebbe pagate (AGBS, ricevuta dell’11/3/1924) 1500 lire (500 pel tabernacolo, 1000 per la macchinetta) restando così a dare altri 5700 di cui 500 pel tabernacolo.
Da una bolla di consegna delle ferrovie (AGBS, 23/5/1924) si evince che nella stessa data fu consegnata al Convento una cassa di legno lavorato (il tabernacolo).
Ad agosto (AGBS, lettera del 16/8/1924) padre Serafino (sebbene la grafia non sembri la sua) scrive da Milazzo (vi era stato trasferito?) di aver parlato con padre Alessandro (Leotta: evidentemente era lui adesso a reggere il convento) e mi disse che nella sua lettera già ti faceva capire che a termine di lavoro non ti avrebbe lasciato scontento... e se ti chiedeva la ricevuta per lire 1700... era solo per esigere il resto dalla persona benefattrice.
La successiva missiva che si conserva è di oltre un anno successiva (AGBS, lettera del 24/11/1925) nella quale p. Alessandro chiede il perché del silenzio. Aggiunge che appena metterà in opera la macchinetta sarai soddisfatto subito. Ma i lavori si interruppero, forse per difficoltà economiche dei frati o forse perché quello fu l’anno di più intensa attività del nonno.
La decorazione dell’organo
di S. Franceso all’Immacolata (1923-1926)
A Catania nella chiesa di S. Francesco all’Immacolata vi è un grande organo, dove si esercitava da ragazzo Vincenzo Bellini, la cui parte esterna è riccamente decorata in stile rococò. Dirimpetto era stato poi costruito un secondo organo, chiamato espressivo, che effondeva suoni dolcissimi, ma richiedeva una veste scolpita e dorata come il suo dirimpettaio. Furono invitati diversi artisti per eseguire il lavoro e presentarono i loro progetti. Fra tutti fu scelto quello di mio padre e l’opera di scultura e doratura fu realizzata nel suo laboratorio come era avvenuto per l’organo della Cattedrale. Papà, con la sua sensibilità artistica, riprodusse perfettamente l’organo in stile rococò raccogliendo consensi e plausi dai monaci [frati] come testimonia un quotidiano del tempo [GdI, 24 giugno 1926] (CSM, 19-20).
La chiesa di S. Francesco pubblicava in quegli anni un periodico, L’Immacolata, che (anno XIX, n. 12, dic. 1923) scrive: Il lavoro dell’intaglio e doratura pari a quella ricca, artistica e bellissima del grande organo... è stato affidato al valoroso artista prof. G. B. Sangiorgio di Biancavilla, residente in Catania.
Anche sul concorso i ricordi di mia madre sono confermati: a completare tale opera si fece appello a parecchi artisti decoratori i quali presentarono i loro progetti. Fra tutti venne scelto quello del valoroso artista Prof. Giovanni Sangiorgio da Biancavilla, residente in Catania, quegli stesso che ha eseguito tanto brillantemente i lavori decorativi, di scultura e doratura, dell’organo monumentale della Cattedrale (L’Immacolata, anno XXI, n. 19, luglio 1926).
Organo Chiesa S. Francesco all'Immacolata, Catania, 1926
A seguito dei risultati del concorso: Padre Pona nel 1923 contattava il prof. Giambattista Sangiorgio di Biancavilla, residente a Catania... l’arte raffinata del Sangiorgio non deluse padre Pona... (Francesco Costa, OFM Conv., San Francesco all’Immacolata, guida storico-artistica, Palermo, 2007, 150-151).
Nel febbraio 1924 fu firmato tra P. Pona e Giovambattista il contratto col quale si stabilì il compenso di lire 10.000, le modalità di esecuzione (per tutto simile all’altro che gli sta di fronte) il legname da impiegare (sarà costruito in legno di abete la parte architettonica e la parte decorativa di noce satin) e sarà decorato in argento in foglio dorato (AGBS, Contratto del 16/2/1924).
A giugno 1926 il lavoro era pronto: L’Organo espressivo collocato di fronte al Grande Organo è già vestito di una veste che è veramente un prezioso ricamo, una accurata esecuzione di scultura e doratura fatta dal caro genialissimo prof. Giovanni Sangiorgio il quale quasi nel medesimo giorno ha consegnato il lavoro artistico della prospettiva dell’organo della Cattedrale e quello di S. Francesco che da tanto tempo lavora (L’Immacolata, anno XXI, n. 18, giugno 1926). Come detto la Cantoria veniva allora definita prospettiva artistica o, in un altro documento, parte prospettica in legno (AGBS s. d., ma del 1925).
Sembra chiaro che, mentre lavorava all’organo di S. Francesco, Giovambattista sia stato incaricato anche per quello della Cattedrale e che abbia lavorato in parallelo. Nel lavoro fu collaborato dal fratello Salvatore, di cui il figlio Dino sottolinea la perizia come indoratore (testimonianza del 12/1/2016). Forse anche per questo carico di lavoro l’inaugurazione dell’organo di S. Francesco, prevista ad aprile, slittò a giugno. L’inaugurazione dell’organo espressivo sarebbe avvenuta nell’ambito delle manifestazioni per il settimo centenario della morte di S. Francesco e, per questo motivo, da mesi si organizzava un fitto calendario di eventi che già a gennaio era pronto, arruolando anche S. Francesco nel clima politico del tempo: Noi che nell’amore passionato alla Patria nostra … abbiamo in San Francesco d’Assisi, simboleggiata la Patria che riceve da Dio la missione romana di civilizzare il mondo (GdI, 16/1/1926).
L’organo fu inaugurato il 14 giugno, a quanto pare in tono minore per l’assenza del Maestro Perosi che inaspettatamente lasciò Catania … fu costretto ad improvvisare il bravo ed instancabile Rettore della Chiesa, Padre Pona Luigi, con canti classici del Maestro Matteo Adernò (GdI, 8/6/1926).
Sempre sul Giornale dell’Isola alcuni giorni dopo troviamo un articolo La prospettiva artistica dell’organo di San Francesco all’Immacolata che parla diffusamente dell’evento sottolineando che Rimaneva uno stridente contrasto tra l’Organo espressivo ed il grand’Organo: l’uno era nudo e reclamava la veste dorata e ricamata pari a quella … del … grand’Organo e quel contrasto era stato colmato da GB Sangiorgio quegli stesso che ha eseguito tanto brillantemente i lavori decorativi, di scultura e decoratura, dell’organo monumentale della Cattedrale. Il Sangiorgio riprodusse perfettamente con arte squisita tutta l’antica prospettiva con particolareggiato disegno in scala, compì nel suo studio i lavori di scultura e doratura [l’opera di scultura e doratura fu realizzata nel suo laboratorio scrive mia madre: ulteriore conferma della precisione del suo scritto] e riportandosi allo stile dell’epoca e dell’opera, conservò perfettamente lo stile rococò. Creatore di opere geniali ed artistiche, ha dovuto vincere un po’ se stesso e raffrenare la propria fantasia per eseguire un lavoro a rime obbligate, come suol dirsi, ma che pure è riuscitissimo (GdI, 24/6/1926). È importante sottolineare che queste frasi non sono di un anonimo giornalista ma dello steso padre Pona. L’articolo sul quotidiano è infatti identico (una anticipazione e per una platea di lettori più ampia) a quello, a firma di p. Pona, che uscirà il mese dopo su L’Immacolata (anno XXI, n. 19, luglio 1926) e rappresenta pertanto il giudizio dei committenti.
La decorazione dell’organo della Cattedrale di Catania (1924-26)
Ma il lavoro più importante di mio padre resta l’organo della Cattedrale. Era a quel tempo arcivescovo di Catania il cardinale Francica Nava, appartenente ad una famiglia principesca e molto ricca, che pensò di fare realizzare [in realtà fece spostare] a proprie spese un organo per la Cattedrale e bandì un concorso. Mio padre fece un modellino della chiesa, che a me sembrava la casetta delle bambole, e dentro vi era l’organo in miniatura tutto in legno scolpito … e l’organo fu realizzato in casa nostra. Fra le altre sculture della cantoria, mio padre fece due cappelli da vescovo [galeri] con cordoni che pendono dove aveva messo un uguale numero di fiocchi [nappe]. L’arcivescovo, però, gli chiese di rifarli poiché un cappello rappresentava la carica di vescovo e l’altro il titolo di cardinale e doveva avere più fiocchi.
I vari elementi, poi, furono trasportati e montati in Cattedrale sopra il portale centrale dove si doveva procedere alla doratura. Per questo delicato lavoro mio padre portò con sé lavoranti specializzati ed altri ne assunse e inoltre fece venire il fratello Salvatore da Biancavilla. Le lamine di oro zecchino, sottilissime, venivano poggiate con un po’ di cotone e con mano ferma e bisognava trattenere il respiro perché la lamella non si accartocciasse e diventasse inservibile.
Organo Cattedrale Catania, 1926
L’organo fu inaugurato il 31 maggio del 1926 con una dotta conferenza del benedettino padre De Nove e con un grande risalto nella città e nella stampa dell’epoca (CSM, 18-19).
Non vi è nell’Archivio diocesano, né presso l’Archivio Sciuto Patti copia del contratto di questo lavoro né del concorso di cui parla mia madre, mentre abbondanti sono le notizie sulle forti polemiche che accompagnarono lo spostamento dell’organo.
Agli inizi del Novecento l’organo non rispondeva più adeguatamente alle esigenze liturgiche e il Card. Giuseppe Francica Nava (episc. 1895-1928) manifestò il suo interesse per lo strumento [...]
Il 19 Maggio 1924 … l’Arcivescovo inoltra una richiesta alla Sopraintendenza ai monumenti, nella quale scrive: “Urge che venga stipulato il contratto con il fabbricante d’organi per il trasporto dell’organo di questo Duomo dall’abside alla porta maggiore”. Il nuovo posto designato per lo strumento si ritiene conforme in tutto alle regole liturgiche diocesane. Nella stessa scrittura si stabilisce, altresì, un termine di quindici giorni entro i quali sarebbe stato stipulato il contratto. Tale collocazione dello strumento aprì una vera e propria diatriba tra uomini di chiesa e non, ma lo strumento, originariamente situato dietro all’altare maggiore, nell’abside, fu trasferito sopra la porta principale di ingresso su spaziosa cantoria, ricca di stucchi dorati [...]
Il prospetto è interamente intagliato e indorato con elementi floreali; l’ampliamento della cassa e l’elegante tribuna è ad opera dell’artista Giambattista Sangiorgio su progetto dell’architetto Sciuto Patti [in realtà ing. Salvatore; il padre, architetto Carmelo, era intervenuto quarant’anni prima per il restauro voluto dal Card. Dusmet] (Carmelo Scandura, 2015; e, con piccole modifiche, in Il grand’Organo…, 2014, 69-73).
Sulla base del progetto dell’ing. Sciuto Patti l’impresa Cantone & C. provvide a realizzare il basamento in cemento armato e Un così delicato intervento all’interno della maggior chiesa di Catania richiese la realizzazione di un modello ligneo in grado di rappresentare senza alcun dubbio il risultato finale del progetto. Il plastico in scala 1:20 verrà eseguito da Giovanbattista Sangiorgio nel 1924 come riportano le iscrizioni poste nel basamento del modello (A. D’Arrigo, Ampliamento dell’organo e nuova cantoria nella cattedrale. Catania (1924-1928) in F. Caffo, 2005, 290). Nello stesso volume il prof. Eugenio Magnano di San Lio (Aspetti dell’architettura a Catania nel tempo degli Sciuto Patti in F. Caffo, 2005, 89) definisce il modello un raffinato plastico colorato.
Vi sono due documenti (AGBS, s. d. ma, presumibilmente, 1924-5) per un Bozzetto per il preventivo per l’organo della Cattedrale di Catania giusto disegno del Cav. Ing. Salvatore Sciuto Patti. Parte prospettica in legno. Il primo è più scarno mentre il secondo, più completo, ci fornisce un’idea del costo dell’opera (L. 53.460 più 2.000 per gli imprevisti) fermo restando che il costo reale si può desumere solo dal contratto che sino ad oggi non è stato possibile reperire.
La rimozione dell’organo vecchio prevedeva una spesa di lire 2.500.
La realizzazione della parte prospettica in legno (mt. 22,6 di lunghezza pel parapetto con mt. 1,70 quasi di altezza) sarebbe venuta a costare lire 11.050 (di cui 4.550 per materiali e 6.500 per manodopera).
Per Scultura, manodopera si prevedevano lire 9.310. Erano m. 20x40[cm] di scultura traforata per la transenna con lo spessore di cm. 5; scudi con cappello e armi [gli emblemi dei cardinali] stemma di S. Agata, vari angeli e numerose altre sculture.
La spesa maggiore (lire 31.600) era prevista per la doratura a zecchino che richiedeva oro in foglia speciale di spessore doppio, per mq. 65 circa, calcolando 15 libri a mq, oltre lo sfrido, circa a L. 12 il libro: L. 11.700. [Il libro era la confezione in cui si presentavano i vari foglietti d’oro]. Per la manodopera, che doveva essere particolarmente qualificata (vedi pag. 53) erano previste L. 16.000 (in quanto bisognava anche sanare le screpolature a quello [l’organo] vecchio). 5.000 lire erano inoltre previste Per oro e manodopera alle cornici, capitelli e mensole sotto la tribuna.
Nel 1926 la ditta palermitana Alfio Laudani e Giovanni Giudici esegue le opere di movimentazione e ampliamento dell’organo... (A. D’Arrigo, Ampliamento dell’organo, cit.). La notizia riguarda esclusivamente lo smontaggio della parte musicale perché allo smontaggio della parte in legno dell’organo provvide egli stesso con la collaborazione di alcuni operai (AGBS, Polizza collettiva obbligatoria della Cassa nazionale d’assicurazione per gli infortuni sul lavoro stipulata da Giovambattista il 14/10/1925, per lire 65). La polizza attesta che il lavoro sarebbe cominciato il giorno successivo e che sarebbe stato completato nel giro di una settimana. I lavori della nuova cantoria penso saranno cominciati subito dopo e andati avanti speditamente visto che si conclusero in sette mesi.
L’ing. Salvatore Sciuto Patti morì nel corso dei lavori (febbraio 1926) e, man mano che venivano pagati a Giovambattista gli stati di avanzamento, egli versava l’importo degli oneri di progettazione alla vedova.
La vicenda del numero delle nappe nei due galeri, a cui accennava mia madre, fu risolta scegliendo di inserire non i due emblemi del Nava (come arcivescovo e come cardinale) ma gli stemmi di chi in quel momento lo faceva trasferire e restaurare (lo stesso Nava) e di colui (Dusmet) che lo aveva fatto restaurare a fine Ottocento. Lo afferma, proprio in quei giorni, Mons. Giuseppe Scalia il quale, dopo aver esaltato il grandioso parapetto in legno, tutto artisticamente scolpito, [che] spicca pel contrasto col biancore della decorazione e delle dorature ad oro zecchino che orlano le cornici e ne intarsiano la ricca ornamentazione aggiunge che Nei due specchi laterali, a destra e a sinistra, si osservano i due stemmi del cardinale Dusmet di s. m. [santa memoria] e del nostro Em. Cardinale Nava (GdI, 18 maggio 1926). Non chiarisce, però, perché l’emblema del Nava (a sinistra) è quello di cardinale con trenta nappe mentre, nel galero di destra, l’emblema del Dusmet è quello di arcivescovo con venti. Probabilmente non lo spiega perché, per i contemporanei, non ce n’era bisogno: sembra infatti che l’emblema del Dusmet sia quello che c’era nel vecchio organo (o, se rifatto, lo ricalchi fedelmente). L’unica fotografia dell’organo ottocentesco è sfocata e non permette di vedere chiaramente il galero ma nel disegno dell’arch. Carmelo Sciuto Patti (ASPAZ, Inv. C037.2 riportato in D’Arrigo, Organo del Duomo di Catania (1877-1879), in F. Caffo, 2005, 205) lo stemma del Dusmet ha le venti nappe di arcivescovo di Catania - qual era nel momento in cui fece restaurare l’organo - visto che fu creato cardinale un decennio dopo.
Mons. Scalia completava il suo scritto con la certezza che le ossa di Vincenzo Bellini, che riposano vicino all’organo monumentale, sussulteranno di gioia quando il meraviglioso strumento sprigionerà dai suoi seni profondi le mille voci sonore, ora soavi, ora squillanti… (GdI, 18 maggio 1926).
Nell’appressarsi della data dell’inaugurazione i due giornali cittadini dedicarono diversi articoli a rintuzzare le polemiche sullo spostamento dell’organo, polemiche sostenute anche da un esperto organologo, il Can. Carmelo Sangiorgio (1878 - 1964) anch’egli originario di Biancavilla, col quale vi doveva essere qualche rapporto di parentela visto che Dino Sangiorgio (testimonianza del 28/1/2020) ricorda che con suo padre Salvatore si chiamavano cugino.
Il Can. Sangiorgio aveva pubblicato un volumetto Il posto dell’organo in chiesa (Bronte, 1925) in cui sosteneva che l’organo dovesse restare accanto al coro. Il libretto ebbe una violentissima stroncatura dalle autorità religiose che lo accusarono di aver posto il problema dopo che decisione era stata presa e di averlo fatto in forma pubblica. Queste modalità furono viste come una pubblica disapprovazione della decisione dell’autorità Ecclesiastica Diocesana, e che quindi avrebbe ad essa recato grave offesa. Nel merito del problema ribattevano che egli metteva in primo piano l’aspetto musicale con detrimento delle ragioni del culto, del decoro delle funzioni… (Bollettino Ecclesiastico, Anno XXIX, n. 7, Luglio 1925, 62-64). In calce all’articolo è pubblicata una lettera del Can. Sangiorgio al Cardinale in cui egli si scusava per quelle espressioni che hanno potuto affliggere l’E. V.
In quel periodo i giornali sottolineavano che la Cattedrale assumeva un altro aspetto: l’organo della nostra Cattedrale già giganteggia sotto le maestose volte del tempio e appare, quale esso è in verità, un grandioso monumento d’arte, che arricchisce il nostro duomo e dona ad esso grande splendore. Si dilungavano in lodi per il cardinale Nava che si era assunto l’onere dei restauri: plaudendo ai nobili propositi del nostro E.mo Card. Nava, il quale con animo romanamente munifico deliberava la rimozione dell’organo in fondo alla chiesa e i restauri alla antica abside (GdI, 18/5/1926).
E ancora: di fronte si erge maestoso come un gioiello il re degli strumenti musicali, sopra una elegante spaziosa tribuna ricca di stucchi e sorretta da agili colonne di bellissimo effetto (GdI, 30/5/1926).
Il 31 maggio vi fu l’inaugurazione con il concerto diretto da don Marziano Perosi (fratello del più celebre Alessandro) che nella prima parte eseguì musica di vari autori e nella seconda un “preconio” di sua composizione imperniato sulla vicenda del ritorno delle reliquie di S. Agata a Catania, dalla partenza da Costantinopoli all’arrivo ad Acicastello e l’ingresso in città.
La conferenza inaugurale fu tenuta da padre De Nove che dal pulpito del nostro duomo farà scendere la sua parola di fede e di patriottismo (CdS, 27/5/1926) e tutte le cerimonie ebbero maggiore risalto perché proprio quel giorno si concludevano le manifestazioni per l’ottavo centenario del ritorno del corpo di S. Agata a Catania. Si noti che il clima del tempo imponeva che la munificenza fosse esercitata romanamente e che le omelie fosse pregne di patriottismo.
Durante la celebrazione sacra molti giravano il capo all’indietro, pur stando seduti, per guardare la ricca tribuna, ricolma di cantori, dell’organo fatto più grande. Però molti fecero ritorno a casa, pagando il prezzo della curiosità, con i dolori di torcicollo. Quando però le bollenti acque dell’entusiasmo si furono raffreddate non mancarono le note critiche … per il trasbordo dell’organo …. contro coloro che avevano scelto per il pregiato strumento un sito molto distante dal Coro dei Canonici officianti, a oltre 90 metri (Can. Domenico Reale, Gli ultimi scavi del Duomo di Catania, Milano, 1983, 109-110).
Infine il verbale di collaudo di don M. Perosi confermerà le ragioni dello spostamento: nella ristrettezza di spazio nel quale le canne erano addossate le une sulle altre, l’Organo antico non poteva far udire la sua voce se non nelle adiacenze dell’altare … Mentre, al contrario, nell’attuale posto l’Organo anche nei registri più delicati si fa perfettamente udire in tutti i punti del tempio (CdS, 12/6/1926).
Ma, a quanto pare, la polemica non scemò se ancora quarant’anni dopo lo stesso Canonico Reale lamentava che, al tempo, non si era potuto contraddire lo Sciuto Patti perché parente del Cardinale e che furono consultati solo i circostanti (le persone vicine al Cardinale) … a cui interessava più la stima del Superiore porporato che la trasposizione dell’organo (D. Reale, Gli ultimi scavi…, 108).
Mostra d’arte industriale
Nel 1925 si tenne a Catania la “Prima mostra d’arte applicata industriale dell’Italia meridionale e insulare” manifestazione che in città ebbe allora un grandissimo rilievo con i giornali che ne parlarono per mesi interi. L’inaugurazione si tenne il 30 agosto alla presenza di Angelo Musco che fece gli onori di casa. […] Alla mostra aderirono centinaia di espositori … ma anche artisti. Mio padre ebbe uno stand [Sono conservate la tessera di riconoscimento quale espositore e la ricevuta del pagamento di uno spazio espositivo di nove metri quadrati] dove espose alcune statue, due bambole, di cui una era la mia e che mia madre sistemò davanti un cestino da lavoro con in mano un fazzolettino al tombolo che lei stessa aveva eseguito. Inoltre vi erano alcuni bambolotti in cartapesta che in seguito la nonna vendette nel suo negozio. Alle pareti mio padre sistemò due coperte dipinte: quella di mia madre ed un’altra che aveva eseguito per una baronessa. Al centro della stanza mise il sepolcro dorato che aveva realizzato per la chiesa della Madonna della Guardia e sul pavimento fece un tappeto con la sabbia colorata, come faceva in chiesa ogni anno per il giovedì santo. [...] In questa mostra mio padre ebbe due diplomi uno per la pittura ed uno per i lavori in cartapesta, però gli consegnarono una sola medaglia d’oro perché il regolamento non permetteva di dare due medaglie d’oro alla stessa persona (CS, 20-21).
Nei giornali dell’epoca non ho trovato alcun accenno alla presenza del nonno; se ne rammaricava anche il cognato Tino (AGBS, lettera del 16/9/1925) a cui egli aveva inviato un articolo di giornale sulla mostra ma, più avanti, lo stesso Tino scrive (AGBS, lettera del 21/10/1925) di aver mostrato a tutti il giornale e la foto. È quindi possibile che vi sia altra pubblicazione dove egli è citato.
***
L’attività di Giovambattista raggiunse l’apice nel triennio 1924-26 ma, nello stesso periodo, la situazione della famiglia precipitò.
Nell’agosto 1925 morì il cognato Arturo, fratello della moglie, che era rimasto ferito nella Grande guerra. Nella seconda metà di settembre 1925 morì il figlioletto Dino (Placido, come il nonno paterno): Dopo cinque anni di matrimonio nacque il mio fratellino Dino ed era così bello che mio padre lo paragonò ad un cherubino. Il bambino, però, a soli quattro mesi morì per enterocolite e mio padre col cuore straziato dal dolore, vedendolo portare via cadde per terra svenuto (CSM, 22).
Un anno dopo cominciò il calvario dello stesso artista.
4. LA MALATTIA E LA MORTE (1926 - 1930)
Vedendo che il lavoro aumentava i miei genitori comprarono, [febbraio 1925] con i soldi ricavati dalla vendita di un terreno alla Piana di Catania che mia madre aveva avuto in dote, mille metri quadrati di terreno al Rotolo. Mio padre aveva progettato per questo terreno una villa e aveva previsto sotto la casa un grande laboratorio. Ma mentre andava da un ingegnere per fare firmare il progetto accusò improvvisamente un forte dolore agli occhi. La sera disse a cena a mia nonna: “sa che non la vedo?” (CSM, 22).
Ancora più dettagliato il racconto di mia nonna Sara in una supplica al re. Dopo aver elencato alcune opere del marito e sottolineato che aveva avuto la medaglia d’oro alla Mostra d’arte applicata, aggiungeva: Aveva aperta una scuola che sarebbe diventata una nuova sorgente di onesto vivere in questa città.
Fregio (AGBS)
Ma il fato avverso [lo colpì con] una formidabile sventura e precisamente un mese dopo aver eseguito le due prospettive [la decorazione degli organi] nel 22 settembre dell’anno ‘26 mentre rincasava fu colpito da istantaneo dolor di testa e subito cominciò a mancargli la vista da ambo gli occhi.
Bozzetto per Altare Barcellona, prospetto e profilo, 1923 (AGBS)
Si affrettava a giungere a casa e in meno di due ore fu completamente cieco. Compreso dallo spavento furono consultati i migliori oculisti ma nessuno sapeva dare un barlume di speranza … Fu sottoposto alla difficile operazione della craniotomia ma nulla valse, fu condotto da Cirincione [Giuseppe, direttore della Clinica oculistica dell’Università di Roma, a quel tempo il maggiore luminare del settore] a Roma, poi al Policlinico ed infine fu dichiarato inguaribile. Intanto la malattia a Roma stessa si propagava in tutto il corpo paralizzandone le gambe e braccia atrofizzando lo stomaco e la vescica e fu costretto a restare a Roma per nove mesi [maggio 1927- gennaio1928]. Ingenti somme furono consumate riducendosi al punto di dover essere sovvenuto da codesto istituto Catelli con lire 500 perché lo riconobbe artista in necessità, così per mezzo di altri amici fu ritornato in treno letto a Catania ove da due anni e due mesi giace a letto fra atroci dolori.
La supplica (AGBS, minuta del 6/3/1930) non era finalizzata ad un aiuto economico ma chiedeva di condonare ingenti spese giudiziarie per una causa in cui erano stati soccombenti. Avevano prestato, anni prima, 21.000 lire ai coniugi Valenti che erano poi falliti. In un primo tempo il loro credito fu riconosciuto privilegiato mentre la sentenza di appello (gennaio 1930) ne riconobbe tale solo seimilalire (c’erano altri creditori privilegiati) e le altre 15.000 furono collocate chirograficamente e probabilmente perse.
Pioveva sul bagnato: oltre le spese e i disagi per la malattia gran parte dei risparmi erano perduti e dovevano pagare anche le spese processuali.
La descrizione di mia madre continua:
Dopo la convalescenza i miei genitori partirono per Roma [maggio 1927] dove consultarono i migliori specialisti che consigliarono il ricovero al Policlinico. […] dissero che il liquido del midollo spinale era travasato investendo il nervo ottico, infatti dall’esterno non si notava nulla; papà aveva ancora gli occhi neri perfetti. […] tutte queste cure non fecero altro che paralizzarlo e la mamma, dopo nove mesi di sacrifici, di freddo e di preoccupazioni, tornò a Catania trasportando il marito in barella. Da allora visse altri tre anni a letto paralitico (CSM, 23).
A causa della malattia tra il 1927 e il 1930, a parte l’altare di Barcellona, non risultano altri lavori. La moglie (lo sappiamo da ricordi familiari) concentrò le forze nel cercare di far completare dai suoi collaboratori i lavori in itinere e nel farsi saldare pagamenti arretrati dal momento che la situazione economica precipitava. In questo ebbero un grande aiuto dai religiosi amici come padre Franco (prima a Castel di Lucio, adesso era a Biancavilla): io insieme a suo fratello Salvatore ci siamo interessati di sbrigare ogni cosa perché lei venga compensato dei suoi lavori. Io, poi, ho parlato caldamente a suo favore col farmacista Scandurra, col padre Galizia, col padre Di Stefano perché con urgenza lei venga rimunerato: dicono che stanno raccogliendo perché denari non ne hanno in cassa (tanto sono sfasolati) [sottolineatura nell’originale] ed appena raggranelleranno una sommetta le sarà inviata subito. Io ho fatto e farò, caro Titta, le umane e le divine cose perché lei sia pagato: Faccia coraggio e mi auguro che la sua salute migliori (AGBS, biglietto del 13/9/1928).
L’ultimo lavoro fu:
L’altare del convento dei frati minori
di Barcellona P. G. (1929-30)
Dopo alcuni anni di silenzio dovuti, a quanto risulta dalle carte, ai mancati pagamenti del lavoro e forse anche alla malattia del nonno, si tentò di portare a compimento l’altare che era quasi pronto ma fermo in laboratorio e il nonno scrisse o meglio - considerate le sue condizioni - dettò una lettera per il nuovo Reverendo padre Guardiano (Leopoldo Intelisano) dandogli del lei in quanto evidentemente non era in confidenza come con i predecessori. Riferisce di aver saputo da padre S. Puglisi, che era andato a trovarlo, che lei abbia deciso, sia per l’onor suo, del convento, come dell’Ordine di portare a compimento tale lavoro. Aggiunge di aver saputo per bocca della buon’anima di padre Serafino come da padre Alessandro che la somma necessaria era stata raccolta e che mancavano solo mille lire (AGBS, lettera del 9/4/1929).
Si potrebbe dedurre che il blocco dei lavori sia stato conseguenza non solo delle difficoltà economiche ma del trasferimenti di frati e, forse, anche di loro polemiche interne su problemi economici. Infatti il nonno riferisce di aver contattato padre Alessandro, che adesso stava in Calabria ed era uscito dall’Ordine, il quale rispose che mi passò l’ordinazione nelle sue qualità di P. guardiano di codesto convento sicché il guardiano successivo segue gli incarichi dati. Aggiunge che p. Alessandro gli riferì che le somme che lui rimase a dare a codesto convento li deve tra due anni per stabilito contratto tra voialtri. L’altare è assolutamente lesto, non manca che la sola pittura. […] non appena lei mi manda lo stabene e un duemila lire per la continuazione dell’opera giacché ora lei avrà saputo la mia sventurata condizione ragione per cui non posso più anticipare le spese. (Ivi).
Queste sottolineature (che i soldi erano stati quasi tutti raccolti, che padre Alessandro gli aveva dato l’incarico “nella qualità”, che le somme che lo stesso doveva al convento erano un problema tra le due parti e non c’entravano nulla col suo credito) fanno supporre che, precedentemente, il nuovo guardiano avesse disconosciuto l’incarico o avesse chiesto a Giovambattista di farsi pagare da padre Alessandro. Pure l’accenno all’onor suo, del convento come dell’ordine induce a questa considerazione.
Questa lettera è un piccolo capolavoro: il tono è cortese ma fa intravedere determinazione nel difendere i propri diritti; illustra, senza parere, la rete di sostegno che all’interno dello stesso Ordine premeva in suo favore: dice che anche il padre provinciale, Luigi Salvo, era venuto a trovarlo, quattro giorni prima, insieme a padre Davide e ha visto il lavoro n’è rimasto contento e si disse ben lieto di parlarne nella prossima riunione e portare a fine tale opera. Non mi erano note queste doti “diplomatiche” in mio nonno che fino ad ora mi era apparso un uomo abbastanza irruento, che si esprimeva senza tanti giri di parole.
A questo punto aggiunge l’unico brano noto in cui parla della sua salute: La mia salute continua sempre quella [è sempre la stessa] anzi nello scorso agosto lasciò molto a desiderare, adesso sono un po’ migliorato però gli occhi e le gambe sono sempre gli stessi. Pregola pertanto di pregare e far pregare il buon Gesù e S. Antonio che mi affrettino la grazia giacché son tre anni che soffro terribilmente.
Dal tono della lettera si arguisce che, migliorate provvisoriamente le sue condizioni, si sia adoperato per spingere il nuovo guardiano al completamento dell’opera tramite i buoni uffici dei frati con cui era in amichevoli rapporti, innanzi tutto Luigi Salvo, il provinciale della Sicilia, padre Puglisi che andò a perorare la sua causa a Barcellona e padre Davide Grisafi che troveremo più avanti impegnato a seguire il trasporto dell’altare a Barcellona.
Si giunse così alla decisione di completare i lavori e sicuramente fu inviato anche l’anticipo richiesto. Lo testimonia anche una fattura superstite (da bambino ricordo di averne viste molte uguali) della ditta GIUSTO MANETTI, fabbrica d’oro e d’argento in fogli, (AGBS, fattura del dicembre 1929) per 40 libri di oro fino giallo e kg. 1 di bronzo fino pallido, materiale per decorare l’altare: che è assolutamente lesto, non manca che la sola pittura aveva scritto Giovambattista nella lettera di cui stiamo parlando.
E, tuttavia, dovette passare quasi un anno perché la moglie Sara e padre Leopoldo Intelisano firmassero l’accordo per il completamento dell’opera. Dal documento si evince che il nonno aveva già ricevuto 3000 lire, che l’altare si deve rifinire secondo le norme stabilite, che egli si trovava nella impossibilità di firmare per malattia. Quindi la moglie si assumeva l’onere di fare allestire detto altare [dai collaboratori] e consegnarlo nella di lei abitazione qui in Catania via Nuovalucello 35 entro tre mesi da oggi. Padre Intelisano versò alla nonna 1500 lire e si impegnò a versare il resto (2500) alla consegna dell’opera (AGBS, Accordo del 31/3/1930).
Padre Davide (Grisafi, che a pag. 6 vediamo in una foto con Giambattista) scrive a padre Intelisano per informarlo che: Torno stanco dalla Stazione per finire di assistere alla spedizione dell’altare. I sette colli (non quelli di Roma) sono caricati pel carro 174839 (AGBS, cartolina postale del 17/7/1930). Dava istruzioni per lo scarico, suggerendo di trasportarlo manualmente, se vuole che l’altare arrivi sano e salvo.
Giovambattista scrisse per ringraziare il padre guardiano della sua lettera certificato [certamente un’attestazione della bontà del lavoro, ma non è conservata] che mi piacque tanto e la ringrazio infinitamente, essa aumenta il patrimonio dei miei gioielli ad ella ben noti per cui son geloso come Cornelia. Si rammarica che padre Davide non abbia potuto assistere allo scarico dell’altare presso la stazione di Barcellona e si dimostra preoccupato per codesti facchini, carri e strade non c’è da fidarsi, sarei stato più contento se fosse stato trasportato a spalla dalla stazione a S. Antonio. Fornisce suggerimenti per la sua conservazione e assicura che invierà le istruzioni per il montaggio (AGBS, lettera del 18/7/1930).
L’ultimo documento è un conteggio manoscritto del Convento (AGBS, s. d.) con l’elenco riassuntivo delle Spese fatte per la cappella di S. Antonio che ammontarono in totale a lire 7.389,60. Di esse 7000 andarono all’artista (comprese le spese per i materiali) il resto servì per il trasporto ed altre piccole cose.
Ed ecco come, mezzo secolo dopo, si concluse la storia dell’altare.
L’altare, realizzato da suo nonno, fu montato in chiesa dal Sig. Mariano Mazzeo, un ebanista locale. Per questo motivo iniziò a diffondersi tra la gente la credenza che fosse stato il detto Sig. Mazzeo a realizzarlo e l’esatta paternità dell’opera a poco a poco venne rimossa, tantoché, di tutti gli anziani che abbiamo intervistato al riguardo, nessuno ci ha fornito altro nome se non quello del Sig. Mazzeo, per cui anche noi eravamo convinti, fino alla scoperta della corrispondenza epistolare, che quella fosse la verità. Purtroppo, il Sig. Mazzeo è morto già da diversi anni e non abbiamo avuto la possibilità di conoscerlo; i discendenti, a cui ci siamo rivolti, non hanno trovato in casa altro materiale documentario.
Nel 1985 vennero realizzati in Chiesa degli sciagurati interventi di “restauro” (se di restauro si può parlare), per cui si distrussero secoli di storia, come un altare seicentesco dedicato al SS. Crocifisso, tutte le lapidi marmoree del pavimento, le decorazioni e gli stucchi settecenteschi degli altari laterali e anche l’altare maggiore realizzato da suo nonno (tabernacolo compreso) non sfuggì a tanta devastazione perpetrata in nome di un insensato modernismo.
I fedeli erano (e lo sono tuttora quelli che hanno avuto la possibilità di ammirarlo) innamoratissimi dell’altare dedicato a Sant’Antonio. Nella mente di tutti è vivissimo il ricordo dei due angeli in alto e delle quattro colonne fra le quali troneggiava il Santo e per giunta alcuni ricordano anche la scritta centrale, il celebre “SI QUAERIS MIRACULA”, che, non conoscendo il latino, storpiano in “Sigueru i miracula”(= sono seguiti i miracoli). Durante il secondo conflitto mondiale l’altare era gremito delle foto dei militari che i propri cari affidavano alla protezione di Sant’Antonio.
Nei primi anni ’40, a causa dei violenti dissidi insorti con la novella parrocchia di San Francesco di Paola, nella cui giurisdizione rientrava anche la chiesa conventuale di S. Antonino, l’autorità ecclesiastica lanciò l’interdetto su tutto il territorio della borgata, sancendo di fatto la chiusura della chiesa dei frati. Il popolo, tuttavia, si oppose strenuamente a questa risoluzione: nessuno li avrebbe allontanati dal loro “Sant’ Antuninu” e per un giorno e una notte occuparono la chiesa, dormendo al suo interno, per evitare che fosse chiusa. Il vescovo, viste la buone intenzioni dei fedeli, a distanza di appena un giorno, ritirò l’interdetto e la chiesa tornò nuovamente aperta al pubblico culto.
Nel corso degli anni ’80 furono avviati diversi cantieri lavoro per la ristrutturazione del convento, che fu adibito a casa di chiericato. In particolare, nel 1985 anche la chiesa venne restaurata. Purtroppo nel cuore di una notte infelice di quell’anno si perpetrò il misfatto: fu smantellato l’altare all’insaputa di tutti, per fare posto all’attuale opera moderna, biasimata da tutti i fedeli, ancora oggi affezionatissimi al loro “vecchio” altare.
La reazione dei fedeli fu di indignazione assoluta. L’ebanista Mazzeo, di cui sopra si è detto, si mise a piangere a dirotto e da allora non volle più entrare in chiesa fino alla morte. La gente prese a disgustare il nuovo altare, chiamato con disprezzo “a pizzeria” per la vaga somiglianza ad un forno di mattoni (per quanto cerchi in quartiere, non troverà nessuno che preferisca il nuovo altare al precedente), per cui è frequentissimo sentire, ancora a distanza di oltre venti anni, frasi del tipo ”Virgogna! Nnì spasciaru u beddu altari pi nni fari na pizzeria e a Sant’Antuninu u misuru ‘nta na‘ngonia (= un angolo)!”.
Per quietare i cuori in tumulto, si disse allora che l’altare sarebbe stato rimontato in altro sito del Convento, invece tutto fu lasciato in abbandono o trafugato. Nonostante le nostre incessanti ricerche, siamo riusciti a ritrovare solo le 4 colonne che erano accantonate senza cura, la testina d’angelo visibile nelle foto alla base della nicchia del santo e il tabernacolo, lasciato in abbandono. Fortunatamente è ancora in perfette condizioni. Non solo, grazie alla lettura del libro che ci ha fornito, [il libro di mia madre] siamo riusciti a ricongiungerlo al tronetto che, esposto in una vetrina, sembrava un pezzo a se stante e che, invece, si incastra perfettamente all’interno del tabernacolo, per cui quasi con certezza il riferimento del libro scritto da sua madre è da intendersi non relativo alla chiesa Madre ma alla nostra chiesa conventuale [come confermano i documenti AGBS].
A conclusione, fra qualche giorno, le invieremo:
- il video in cui potrà ammirare l’altare;
- le foto delle colonne, del tabernacolo con il tronetto e della testina d’angelo, che sono gli unici elementi superstiti che abbiamo ritrovato;
- le foto del nuovo altare.
Mario Barresi, Mario Barresi e Tindaro Natoli
(gli altri due nomi sono i miei amici con cui stiamo realizzando questo lavoro)
(mail del 10/1/2008, con integrazioni del 29/1/2020 e del 8/9/2020).
Recentemente il sig. Barresi mi ha informato che è in via di completamento il libro sul convento e che Abbiamo in progetto la realizzazione di un piccolo museo del santuario, nel quale ricollocheremo i pezzi dell’altare scampati alla dispersione dei decenni precedenti insieme ad una foto ed alla biografia del nonno (mail 11/12/2019).
Il completamento e la spedizione dell’altare avvennero appena in tempo perché due mesi dopo, a quattro anni esatti dall’inizio della malattia, Giovambattista morì.
Il 23 settembre 1930 all’età di 46 anni e nove mesi mio padre morì quando ormai erano esaurite anche le finanze: per le sofferenze patite quaggiù penso che egli sarà andato direttamente in paradiso.
Mia madre dopo aver affrontato quattro anni di sacrifici e il dolore per la perdita del marito, distrutta moralmente e fisicamente si trovò sola, senza risorse finanziarie, e con me bambina. Per mandarmi a scuola fu costretta a vendere tutto il materiale che era rimasto, parte della collezione e tante statue, alcune anche incomplete. La nonna volle che restassimo con lei a Picanello nella casa che mi aveva visto nascere (CSM, 24).
Sedia sac. Giliberto, 1922 (AGBS)
BIBLIOGRAFIA SU
GIOVAMBATTISTA SANGIORGIO
FONTI COEVE (riguardano tutte l’Organo di S. Francesco all’Immacolata. Particolare interesse ha L’Immacolata, periodico mensile francescano - edito dalla chiesa di S. F. all’Immacolata di Catania - con notizie di prima mano negli articoli di P. Pona)
L’Immacolata, anno XIX, n. 12 (dic. 1923), pag. 2
L’Immacolata, anno XXI, n. 18 (giugno 1926), pag. 16
L’Immacolata, anno XXI, n. 19 (luglio 1926), pagg. 6-7.
Giornale dell’Isola, 26 giugno 1926
STUDI RECENTI
1. Di carattere generale
Carmelina Sangiorgio, I miei ricordi, 2002 (abbrev.: CS)
Carmelina Sangiorgio Maniscalco, Cenni sulla vita e le opere di Giovambattista Sangiorgio artista biancavillese, 2002 (abbrev.: CSM). Consultabile presso la Biblioteca Zelantea di Acireale.
https://it.wikipedia.org/wiki/Giambattista_Sangiorgio (URL consultato il 19/7/2019)
2. Sull’organo di S. Francesco all’Immacolata
Francesco Costa, OFM Conv., San Francesco all’Immacolata, guida storico-artistica, Palermo 2007, pagg. 150-151.
Mariagrazia Patti et al., Organo della Basilica Cattedrale di Catania. Archivio catalografico della Soprintendenza di Catania, Scheda di catalogazione OA, 2010
3. Sull’organo della Cattedrale di Catania
AA.VV., Il grand’Organo della Cattedrale di Catania, EAC (Edizioni Arcidiocesi Catania), 2014
Albarosa D’Arrigo, Ampliamento dell’organo e nuova cantoria nella cattedrale. Catania (1924-1928) in Fulvia Caffo (a cura di) Carmelo e Salvatore Sciuto Patti - Archivi di architettura tra ‘800 e ‘900, Palermo 2015.
Carmelo Scandura, Excursus sugli organi della Cattedrale di Catania e il Grand’Organo “Jaquot–Laudani e Giudici
(https://carmeloscandura.wordpress.com/2015/03/27/excursus-sugli-organi-della-cattedrale-di-catania-e-il-grandorgano-jaquot-laudani-e-giudici/). (URL consultato il 25/7/2019)
4. Sulla statua del Cristo risorto di Biancavilla:
“A paci” https://www.youtube.com/watch?v=5D1Xip4CGt0&feature=youtu.be di Antonio Alessandro Marino Zappalà (URL consultato il 26/7/2019)
https://www.youtube.com/watch?v=bypZ1KvFrfo di Antonio Alessandro Marino Zappalà (URL consultato il 19/2/2020)
http://www.basilicacollegiatabiancavilla.it/le-confraternite-associazioni-e-circoli/arciconfraternita-del-ss-sacramento.html (URL consultato il 26/7/2019)
http://www.santamariaelemosina.it/blog/2017/04/78194 “A paci” ieri e oggi (URL consultato il 16/4/2017)
http://www.basilicacollegiatabiancavilla.it/le-confraternite-associazioni-e-circoli/arciconfraternita-del-ss-sacramento.html (URL consultato il 16/4/2017)
5. Sull’altare della chiesa del Convento di Barcellona P. G.
Volume sulla storia del Convento (di prossima pubblicazione)
ELENCO DELLE OPERE DI GIOVAMBATTISTA SANGIORGIO
1897 Statua di uno scugnizzo napoletano Coll. privata - foto
1910 Lavori vari (decoraz. stanze, lavori in legno, Villa Colantoni, Messina. La villa è stata demolita nel 1998 - statue giardino, ecc.)
1911 Realizz. Grotta; restauro statua Mad. Lourdes Chiesa S. M. degli Angeli, Messina SI Lett. di fra F Parisi (26/2/1911) - Perduta la prima opera, esistente la seconda - foto
1911 Tabernacolo e tronetto Convento F. M. S. Maria del soccorso Castel di Lucio
1913 Disegno prospetto Chiesa e realizzazione altare Matrice, Castel di Lucio - foto
*1912 Lavori decorazione del Casino dei civili Adrano SI Oggi "Circolo Democratico", p. Barone Guzzardi
1913 Lavoro dai Salesiani Ignota Lettera del 9/11/1923 a padre Serafino Tata
1913 Quadro del pastorello che suona lo zufolo Coll. privata SI Firmato e datato
1913 Restauro statua Maria SS. della Provvidenza Chiesa del Convento di S. Papino OFM, Milazzo - foto
*1915 Restauro delle statue di S. Francesco e S. Antonio Chiesa S. M. degli Angeli, Messina SI Lettera di fra F. Parisi (28/2/1915)
Realizzazione della statua del Sacro Cuore Opera perduta
1915 Due arazzi per il cav. G. Ardizzone Sotera Ignota Precedentemente a S. M. di Licodia
1917 Statua S. Giuseppe con il bambino per mano Chiesa dell'Annunziata, Biancavilla Attestato del Can. Placido Bucolo (20/1/1917)
*1920 Stola di seta ricamata Chiesa di san Filippo, Adrano Opera perduta
*1920 Statua di S. Pasquale Chiesa del Convento dei Frati Minori, Biancavilla - foto
*1920 Sistemazione Altare Maggiore e disegno prospetto Chiesa del Convento dei Frati Minori, Biancavilla Opere perdute
*1920 Quadro di Gesù bambino Coll. privata SI Firmato; poi inserito nella camera da letto
*1920 Camera da letto matrimoniale e culla Coll. privata - foto
*1920 Coperta ricamata con l'Aurora di Guido Reni Coll. privata - foto
1920* Lettino Coll. privata
1920* Veduta con alberi Coll. privata - foto
1920* Veduta con lago Coll. privata . foto
1921 Due grandi vasi in gesso dipinti Coll. privata - foto
1921 Statua del Cristo risorto Chiesa Madre S. M. dell'Elemosina, Biancavilla - foto
1922 Statua Madonna del pergolato Casa di villeggiatura Semin. Arciv. San Giovanni La Punta
1923 Restauro del quadro di S. Anastasia Oratorio di S. Anastasia, Motta Santa Anastasia
1925* Realizzazione Macchinetta Chiesa del Convento S. Antonio OFM, Barcellona
*1925 Disegno per il Fercolo S. Placido Biancavilla
1925 Disegno tovaglia d'altare con effige del santo Chiesa di S. Antonio, Biancavilla
1926 Decorazione del Grand'Organo della Cattedrale Catania - foto
1926 Decorazione dell' Organo "espressivo" Chiesa S. Francesco d'Assisi, Catania - foto
1926* Completamento lavori vari….
29-30 Altare centrale (con tabernacolo) Chiesa del Convento S. Antonio OFM, Barcellona - Foto
La collocazione dell'asterisco (*) ipotizza che l'opera sia stata realizzata poco prima o poco dopo la data indicata
OPERE DI DATA SCONOSCIUTA
Progettazione tabernacolo e tronetto Chiesa di S. Antonio, Biancavilla
Decorazione dei soffitti in varie case Biancavilla
Restauro statua Madonna Assunta Messina
Studio e soggiorno Coll. privata - foto
Statua di S. Nicola Chiesa del Borgo, Catania
Angeli sorreggenti statue di S. Giuseppe e S. Antonio Chiesa Madonna della salute, Catania
Pulpito e sepolcro in legno dorato Chiesa Madonna della Guardia, Catania
Restauro statua della Madonna Chiesa di Monserrato, Catania - foto
Affresco abside e quadro delle suore martiri Cappella del Collegio S.Vincenzo, Catania
Statua in cartapesta di San Giovanni Battista Chiesa di S. Giovanni Galermo
Statua "cum silentio operantes" Sacrestia del Convento, Biancavilla - foto
Dipinto su tavola "Lezioni di piano" Coll. privata
Busto in gesso (o è DI CEMENTO?) Coll. privata - foto
Vaso in cemento
Lavori vari (statue, bambole) in cartapesta
DISEGNI PRESENTI NELL'ARCHIVIO
1913 Foto Progetto prospetto Chiesa Madre Castel di Lucio 13x19
1920 Cartoncino. Recto, ricevuta. Verso, bozzetto per soffitto con angeli 50x39
1922 Carta. Schizzo sedia per Sacerdote D. Giliberto, con prezzo. 22x29,5 - Scala1:10, datato e firmato
1923 Lucido. Altare di Barcellona (prospetto) 28X50, Scala1:10, firmato
1923 Cartoncino. Altare di Barcellona (profilo) 29X50, Scala 1:10, datato e firmato
s.d. Disegno a spolvero. Figure vestite come antichi romani 100x60
s.d. Lucido a spolvero. Scena pastorale 52x37
s.d. Cartone. Impronta bucherellata della scena pastorale precedente 49x32
s.d. Cartoncino. Recto, piedistallo a gradini con bandiera (?) e prospetto villa 44x32. Verso, abbozzo di prospetto architettonico e schizzi di volto
s.d. Cartoncino. Bozzetto di vara 22x16,5
s.d. Cartoncino. Bozzetto di vara con preventivo di spesa per i materiali 30x26
s.d. Cartoncino. Recto, Gesù Bambino benedicente e prospetti architettonici 44x32. Verso, planimetria giardino
s.d. Cartoncino a spolvero. Fregio 102x80
s.d. Cartoncino. Fregio architettonico 28x38
s.d. Carta. Recto, schizzi architettonici. Verso, schizzi architettonici 43x27,5
s.d. Lucido. Disegno di sedia moderna 13x25
s.d. Carta. Schizzi architettonici (portali) 30x15
s.d. Cartoncino. Bozzetto culla con angeli 21x32
s.d. Carta. Schizzo di carro o vara 40x30
s.d. Cartoncino. Recto, due schizzi architettonici. Verso, prospetto edificio e lampad. 54x13,5
s.d. Lucido. Due gruppi di angeli 50x37 (molto rovinato)
s.d. Lucido. Fregi floreali (forse per l'Orologeria Amoroso di Messina) 22x17
s.d. Carta. Recto, quattro figure in livrea. Verso, bozzetto carro funebre 40x30
s.d. Cartoncino. Recto, fregio. Verso, preventivo dipinti murari abitazione. 22x32