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Eruzione dell'Etna del 1669

Affresco dell'eruzione del 1669 conservato nella sacrestia della Cattedrale

Realizzato intorno al 1687 da autore ignoto 

 

 

L' ERUZIONE DEL 1669 

 

(Testo di Giuseppe Pagnano da "Il disegno delle difese, l'eruzione del 1669 e il riassetto delle fortificazioni di Catania)

 

 

Nel 1669, la regione etnea viene colpita dal primo dei due grandi cataclismi che nell'arco di un trentennio muteranno totalmente il suo volto. Nella primavera, una grande eruzione dell'Etna, tra le più rovinose della sua storia moderna, sconvolge l'assetto del versante meridionale del vulcano; nel 1693, il terremoto, che scuote tutto il val di Noto, raderà al suolo i residui casali di quella zona e con essi la città di Catania. 

 

Numerose le testimonianze contemporanee all'eruzione del 1669, che consentono di censire i guasti apportati alle campagne, ai casali etnei ed alla città e di valutare l'insieme delle provvidenze prese dal potere vicereale e dal senato cittadino per l'opera di ricostruzione.............[ ....]

 

L' inizio delle attività vulcaniche del 1669 si ha, con tremori e boati, il giorno 8 marzo, primo venerdì di quaresima, come sottolineano i cronisti per mettere in luce il carattere di penitenza inflitta dall'ira divina agli abitanti dell'Etna. Per due giorni il casale di NICOLOSI è scosso da terremoti che, nella notte del giorno 10, atterrano 70 case e l'indomani distruggono quasi per intero il paese, lasciando in piedi la sola Chiesa Madre. 

 

Nella sera dello stesso giorno, 11 marzo, in rapida successione si aprono le bocche eruttive nella piana che univa il monte della Fusara alla collina di Vomitello. Dalla base della lunga fessura, l'emissione della lava si divide in più rami, scendendo a valle. In rapida successione, in due giorni, sono sommersi i casali di GUARDIA, MALPASSO, NICOLOSI, MOMPILIERI, TORRE DI GRIFO, FALLICHI.

 

Mentre le varie colate minacciano i casali di SAN PIETRO, di CAMPOROTONDO e di MASCALUCIA, giungono in città i primi profughi, che sono accolti e ricoverati in edifici pubblici e privati. 

 

Contro i <<tartarei fuochi>> viene invocata Sant'Agata, <<antica dominatrice dei furori di Moncibello >>, ed una solenne processione recante il Velo della Santa raggiunge i casali minacciato di rovina.

 

Il 19 marzo, i casali di CAMPOROTONDO e di SAN PIETRO sono sommersi e la principale corrente si divide in due rami: uno punta su VALCORRENTE, in direzione di Paternò, l'altro verso MISTERBIANCO. 

Quest'ultimo ramo, a sua volta, si dirige su Catania ed il 20 marzo giunge alla <<GURNA DI NICITO>>, piccolo lago di acqua stagnante formato dai torrenti invernali, che si trovava a nord-ovest della città. 

 

Contrariamente alle previsioni dei catanesi, il lago non riesce a bloccare l'avanzata della lava per 15 o 20 giorni, come essi avevano sperato, ma è colmato in appena sei ore.

L' eruzione minaccia direttamente la città, suscitando panico e fervore di pratiche religiose. Ad istanza del popolo, il senato, con il consenso del vescovo, decide di portare in processione il corpo del Sant'Agata lungo una parte del percorso extra moenia, che da secoli si compiva ogni 4 febbraio a solenne benedizione della città. Il 1°aprile, dalla Cattedrale la processione raggiunge la porta di Aci e da qui, percorrendo per l'ultima volta le antiche strade che contenevano dall'esterno le porte urbiche, si snoda lungo i bastioni degli Infetti, del Tindaro, di San Giovanni, di Sant'Euplio, per rientrare attraverso la porta della Decima.

 

Si attendeva che Agata <<fracassasse le superbe corna dell'infernal nemico>>,ma esso, per nulla domato, il 16 aprile, tracima dal lago di Nicito e giunge di fronte al bastione degli Infetti. La fine della città sembra prossima, ma il patrocinio della martire concittadina e la solidità delle mura medievali, il cui circuito tante preoccupazioni aveva dato agli ingegneri militari del passato, riescono a deviare la corrente del magma che seguita a scorrere ad ovest della città, lungo il recinto delle fortificazioni. 

 

Nell'avanzata, la lava ha travolto tutte le strutture edilizie che erano fuori le mura, tra cui i grandi monumenti della classicità - parte dell'acquedotto di Marcello, il Circo Massimo, la Naumachia - e gli orti prossimi alla città <<ch'erano le delitie de' Catanesi >>. Molta gente, per paura e scarsa fede, già abbandona la città, mentre la lava, minacciando da presso le mura che dal bastione di San Giovanni si univano alla porta della Decima, preme contro la cortina cinquecentesca contigua al bastione di San Giorgio. Accerchiato il bastione, penetra all'interno del recinto attraverso la porta del Sale,riversandosi nei fossati del Castello Ursino. Una parte più ampia del fronte lavico dilaga sulla spiaggia, <<trasformando le belle riviere della marina, in orride, e ferrigne pendici >>.

 

Il 18 aprile giunge in città don Stefano Reggio, principe di Campofranco, quale vicario generale del vicerè, scortato da soldati a cavallo e provvisto di denaro messo a disposizione dal vicerè don Francisco Fernandez de la Cueva, duca di Albuquerque, per sopperire alle urgenti necessità di Catania. Egli ordina l'immediata costruzione, nel piccolo borgo marinaro di Ognina, di baracche di legno e di alcune case con i muri a secco per trasferirvi l'artiglieria del castello e degli altri bastioni, le campane, le reliquie di Sant'Agata e per alloggiarvi il vescovo, i canonici, i senatori e tutti quei <<cittadini nobili e plebei >>che non avessero voluto lasciare indifese le reliquie. Ad Ognina vengono costruiti anche alcuni forni da pane e vi si trasportano grandi quantità di farina e di altri viveri.

Il problema dei viveri per il resto della popolazione rimasta in città si fa però drammatico, poiché la lava ha bloccato a sud gli accessi alla città, impedendo i rifornimenti dalla campagna. Il vicario dispone, allora, di costruire sulla spiaggia detta Plaja, a sud della colata, una baracca ed un pontile di legno: la prima per scaricarvi i viveri portati dai mulattieri e per custodirveli, il secondo per caricarli sulle barche e trasportarli allo <<Scaricatore >>del porto della città. 

 

Il problema dell'approvvigionamento della città sarà, però, risolto brillantemente da un catanese, don Carlo Caetano, barone di Villallegra, procuratore e consigliere regio, incaricato dal vicario di soprintendere al trasporto per mare dei viveri. Non appena il maltempo rende inagibile il pontile della Plaja, egli fa aprire con mazze e picconi un sentiero sulla crosta raffreddata della lava, che all'interno ancora si manteneva fluida, affinché dalla piana, al di là della colata, potessero giungere i viveri in città. Il sentiero fu aperto sul tratto più stretto della colata e venne rivolto verso la porta della Consolazione, aperta l'anno precedente in prossimità del bastione di San Giovanni. La porta della Decima, antico ingresso per le derrate provenienti dalle campagne, non potè essere utilizzata, perché quasi ostruita dalle lave e perché veniva a trovarsi dietro un ramo della colata molto più ampio. L'operazione, per quanto temeraria, ebbe successo e attraverso la nuova strada poterono passare i muli con 150 carichi di farina, liberando la popolazione dal bisogno. 

 

Riconosciuta la buona riuscita dei lavori, si continuò a migliorare il sentiero per renderlo adatto al passaggio delle carrozze e, malgrado le lave lo disfacessero continuamente, si tornò ogni volta a riaprirlo poiché era di vitale importanza come unica bretella che univa la città a tutti i territori posti ad ovest e a sud. La strada in seguito si consoliderà come segno viario, verrà utilizzata nei lavori di fortificazione del 1676, sopravviverà al terremoto del 1693 e si mantiene tuttora con il nome di via del FORTINO VECCHIO. 

 

Il 23 aprile la colata raggiunge il mare e genera nei catanesi <<qualche speranza di potersi fare il desiderato porto, con cui si sarebbe risarcito in gran parte il grandissimo danno che finora aveva fatto alla Città >>. Il desiderio secolare di dotare Catania di un molo efficiente, per sopperire alla mancanza di un porto naturale, viene ancora una volta deluso. Sempre vivo era il ricordo delle ingenti spese e dei grandi lavori iniziati nel 1601, ai piedi del bastione di San Salvatore, per realizzare quel molo che una mareggiata aveva subito travolto e di cui non restava che la lapide a commemorare la solenne posa della prima pietra, apposta sul bastione. 

Prima di raggiungere il mare, la colata si era allargata a ventaglio per circa due miglia ed era quindi penetrata in acqua con un fronte larghissimo che, invece di formare lo sperato sottile pennello di sciare in guisa di molo, sottraeva un'enorme superficie al già angusto porto.

Il fianco nord della colata, scorrendo lungo le mura, nei pressi del castello, si accumula e si innalza fino a superare del tutto il bastione di San Giorgio e parzialmente la piattaforma di Santa Croce, invade poi il tratto meridionale della via Lanaria, lungo la marina, e distrugge il canale del Duca, che si staccava dalla cortina di Gammazita, e la fonte dei 36 Canali, posta ai piedi dell'ultimo tratto di cortina che si legava alla porta dei Canali. Minaccia di entrare, attraverso essa, in città, costringendo ad ostruirla del tutto con pietrame, per evitare qui quanto già era successo alla porta del Sale.

Ma le giornate più drammatiche devono ancora venire. 

 

Le mura hanno costituito fino a quel momento un argine al fiume di lava, lo hanno contenuto e deviato, salvando la città, ma le parti più antiche e fragili del recinto - quelle mura medievali che si conservavano intatte nella zona occidentale - cedono il 30 aprile alla spinta di nuove stratificazioni del magma. Nel tratto tra il bastione degli Infetti e quello del Tindaro si apre una breccia da cui la lava dilaga all'interno, investendo il giardino del monastero di San Nicolò l'Arena e circondando l'edificio con due bracci a tenaglia. Uno, da ovest a sud, distrugge i magazzini e le stalle del monastero e, raggiunta la strada, atterra le chiese di Santa Maria Maggiore e di San Geronimo; l'altro, da nord, copre il piano davanti la chiesa di San Nicolò e poi sommerge le chiese di San Barnaba e di San Crispino, avanzando verso la contrada del Corso. Anche se le poderose strutture del monastero e della chiesa dei benedettini, tranne poche lesioni dovute alla spinta orizzontale, avevano resistito, la rovina era immensa ed ancor più grande sarebbe stata se la lava, da questa contrada che era la più elevata della città, fosse scesa a valle.

 

Ad evitare la distruzione finale di Catania, il vicario prende immediati provvedimenti per sbarrare la strada alla lava. La celerità delle scelte, la chiarezza operativa e l'efficienza dell'organizzazione destano ammirazione se si considerano i mezzi del tempo e la scala dei problemi da affrontare, tali da rappresentare difficoltà enormi anche per uno Stato moderno di fronte ad analoghe calamità. 

Il vicario dimostra di essere all'altezza della fiducia accordatagli dal vicerè. Dispone le seguenti <<diligenze >>: demolizione delle case prossime al fronte lavico; asportazione di tutti i materiali infiammabili e delle regole delle case meno prossime; chiusura delle strade che scendevano verso le contrade più basse della città;mcostruzione di un terrapieno, dalla strada del Corso al piano di San Nicolò, <<fabbricato di pietra a secco, il quale come si è osservato coll'esperienza, regge via più all'impeto di questo fuoco che qualunque altro fabbricato con calce>>.

Gli impedimenti opposti alla lava riescono a contenerla e, dopo il raffreddamento, ad arrestarla. Un altro argine di pietrame fu opposto con successo all'esiguo ramo lavico penetrato attraverso una breccia nelle mura a sud del bastione di San Giovanni, nei pressi della chiesa della Madonna della Palma. 

 

I successi riportati incoraggiano esperimenti più arditi e la tecnica dei terrapieni a pietrame suggerisce al barone di Villallegra l'idea nuovissima di bloccare il magma, non già all'estremità della colata, dove la pressione è più forte, ma a monte, dove sotto la crosta raffreddata la lava scorre come un fiume sotterraneo.

 

Il tentativo fu fatto con successo direttamente alle bocche eruttive ad iniziativa di don Diego Pappalardo di Pedara, ma, scemando la portata del flusso lavico, non fu necessario ripeterlo.

Quando il pericolo appariva ormai scongiurato, nei primi di giugno, una corrente sotterranea scaturisce verso Misterbianco e si dirige a sud, aggirando da est la collina su cui sorgeva l'antichissima abbazia di Nuova Luce.

Una digitazione raggiunge il Castello Ursino, ove per tre lati sono colmati i fossati, mentre un rivolo, diretto verso la piattaforma di Santa Croce, scavalca la cortina di Gammazita e giunge al piano del convento dell'Indirizzo, dove un argine di pietrame riesce a bloccarlo. Infine, poiché si teme per la porta dei Canali, si rompe il fianco della colata della marina per far defluire il magma direttamente in mare.

 

L'11 luglio l'eruzione cessa del tutto, liberando la città dalla paura che per quattro mesi l'aveva oppressa.

 

 

 

Eruzione dell'Etna del 1669