da "Ilaria e Catania" di Pippo Nasca
Il "LIOTRU" emblema di Catania.
Chi l'ha messo lì? E chi lo sa?
.......Quell’elefante lì, il Liotru, ne è l’emblema. Chi l’ha messo lì? E
chi lo sa? Forse c’è sempre stato per ricordare che una volta alle
falde dell’Etna vivevano degli elefanti, anche se di dimensioni più
ridotte di quelli africani. Non è una favola! Alle falde
dell’Etna vivevano gli elefanti nani A confermarlo basta risalire al mito di
Polifemo. Gli antichi Greci inventarono la figura di questo gigante
monoculare, perché scambiarono per umani dei teschi enormi, qui
trovati, con un grosso foro al centro, da cui fuorusciva certamente la
proboscide. Inoltre, i recenti studi geologici hanno messo in evidenza
che miliardi di anni fa il mar mediterraneo era un bacino chiuso,
essendo lo stretto di Gibilterra una striscia di terra che univa
l’Europa all’Africa. L’effetto termico, nel tempo, produsse la
completa evaporazione delle sue acque, per cui l’area dell’attuale
mare altro non era che un’immensa pianura tra l’Europa, l’Africa e
l’Asia. Sì, i tre continenti, un tempo erano un tutt’uno, dove la fauna
e l’uomo potevano circolare senza il limite imposto dalle acque. È
plausibile, quindi, che degli elefanti vivessero in pianta stabile in
quest’area.
In seguito al conseguente assottigliamento della crosta terrestre
per l’eccessiva depressione, il fenomeno del cozzo delle tre placche
continentali (Europa, Africa e Asia), dette origine al corrugamento di
questa superficie, creando anche delle fratture vulcaniche lungo tutta
la linea di contatto. Ne scaturì un enorme e gigantesco movimento
orogenetico accompagnato da terremoti, che provocò il sollevamento
di molte aree di quella sconfinata pianura, dando origine alla catena
degli Appennini e a tutta una serie di vulcani.
Contemporaneamente, lo stesso movimento orogenetico provocò
una frattura della striscia di Gibilterra, consentendo all’oceano Atlan-
tico di sversarvi le sue acque. La conseguenza di questo
sconvolgimento fu l’attuale assetto del mar mediterraneo con la
penisola italiana, tutte le isole esistenti e tutti i vulcani che si
estendono nella fascia che va da Santorini in Grecia, all’Etna e a tutti
gli altri vulcani a Nord della Sicilia fino al Vesuvio.
È certo che molti animali, trovandosi imprigionati dalle acque in
Sicilia e senza un ambiente idoneo si siano estinti. Tra quest’ultimi
l’elefante, che allora doveva essere di dimensioni ridotte e che solo
in Asia e di più in Africa trovò le condizioni ottimali per svilupparsi
e crescere di volume fino all’attuale stazza.
Ritornando al nostro elefante in pietra, si sa poco del suo scultore
e della sua reale messa in opera. Ci viene in ausilio la leggenda di
Eliodoro, un uomo che agli albori del cristianesimo, non potendo
diventare vescovo di Catania, per dispetto, ricorse alle arti magiche e
al demonio, diventando la spina nel fianco della chiesa e dei catanesi.
Una volta catturato fu spedito a Costantinopoli per essere giudicato
dall’imperatore di Bisanzio. Questi compariva e scompariva a suo
piacimento cavalcando l’elefante (che dal suo nome dialettizzato
diventa: liodoro, dioru, diotru e poi liotru) prendendosi beffe di tutti
e trasformando le pietre in oro e viceversa. Alla fine Eliodoro fu arso
vivo dentro una fornace accompagnato per mano dallo stesso
vescovo che ne uscì indenne con tutti i paramenti sacri.
Dopo questi fatti leggendari, il mostruoso elefante venne posto ad
adornare il portico di un edificio ubicato nella piazza dove, sui ruderi
delle vecchie terme Achillee, era stata intanto costruita la chiesa in
onore di Sant’Agata.
Quasi dimenticato da tutti per i trascorsi leggendari di Eliodoro,
sembra che da quel posto non lo abbia mai più smosso nessuno,
nonostante i frequentissimi terremoti, le colate laviche dell’Etna e gli
straripamenti dell’Amenano, che scorreva nei pressi. Ma nel 1693 un
tremendo terremoto completò l’opera di distruzione della città,
iniziata con la colata lavica del 1669.
Questo terremoto ebbe il potere di seppellire l’elefante sotto le
macerie dell’edificio che era diventato la sua casa, spezzandogli le
gambe. Si salvò dall’oblio, grazie al Vaccarini, che lo posizionò al
centro di una fontana, alimentata dall’Amenano e ubicata nell’attuale
piazza Duomo, sopra un basamento in marmo bianco e avendo anche
recuperato un vecchio obelisco, glielo mise sul groppone, munito di
sella marmorea. In cima all’obelisco pose anche i simboli della
cristianità per attutire la cattiva fama di quel mostro di pietra, non
tanto gradito dal mondo cristiano. Ne venne fuori un simbolo che
racchiudeva storia, leggenda e vicissitudini della città. Una vera
lungimirante intuizione del Vaccarini, destinata a durare nei secoli.
Fin da allora è rimasto lì, muto osservatore della vita cittadina. In
tutto questo trascorrere del tempo ha visto distrutta la fontana che gli
stava sotto, ed è stato testimone della scomparsa dell’Amenano,
dell’abbattimento della cancellata in ferro costruita attorno a lui,
della nascita e della morte dei tram, del rifacimento del basolato della
piazza e ha sentito e visto le proteste e gli scioperi dei catanesi di
tutte le epoche davanti alla casa municipale ed è rimasto sempre lì,
imperturbabile e sornione. Diciamo che ha rischiato grosso il giorno
in cui nel 1862, come racconta il Cristadoro: l’allora sindaco, il
Marchese di Sangiuliano, mosso d’antipatia nei suoi confronti,
adducendo la necessità di consentire una migliore circolazione delle
carrozzelle e della stessa processione del fercolo di Sant’Agata, non
decise di rimuoverlo da quel posto.
Nonostante i mugugnii e i tumulti del popolo scontento, la sua
rimozione stava andando in porto. A salvarlo dallo sfratto fu il
Capitano della Guardia Nazionale, Cavaliere Don Bonaventura
Gravina che, con la spada sguainata, impose alle maestranze e al
sindaco, in nome del popolo, di non rimuovere il Liotru da lì, poiché
quello era il suo posto.
Un altro pericolo lo corse anche ai tempi di Federico De Roberto,
amico del Verga, che al Consiglio Comunale avanzò una petizione
per togliere dalla piazza quel mostro, così tanto in contrasto con la
santità e grandiosità del Duomo. Non fu ascoltato e non se ne fece
nulla, così come nulla poterono le bombe dell’ultima guerra, piovute
a tappeto su Catania.....
L'Amenano, il fiume che c'è e non c'è
e il Longane, il fiume fantasma
........Non solo la magia si sente a fìor di pelle nella piazza del Duomo,
ma anche il mistero, quello del fiume che c’è e non c’è: l’Amenano.
Aggiungo che non è il solo fiume misterioso che bagna Catania. Ve
n’è un altro, più a nord similmente sbalorditivo: il Longane, che
nessuno vede, ma che esiste!
L’Amenano è per Catania quello stesso che è il Tevere per Roma o
l’Arno per Firenze. Era usanza, ai primordi, formare agglomerati
umani sulle rive dei fiumi per usufruirne le acque e per smaltire i
rifiuti urbani a valle, cosa, quest’ultima, solo oggi non consentita.
Ebbene, Catania non sfuggì a questa tendenza. Essa sorse sulle rive
di questo fiume che scorreva libero sul territorio e sfociava a delta
nel mare Jonio. Uno dei rami, che attraversava l’attuale piazza
Duomo, dopo aver fornito le acque per le Terme Achillee, ubicate
laddove adesso sorge la cattedrale, sversava le acque nel mare
antistante all’attuale Villa Pacini, un altro ramo proseguiva a sud,
fornendo le acque per l’irrigazione degli orti che sorgevano nella
zona Za’ Lisa.
Ti chiarisco subito che le terme si chiamavano Achillee, non
perché Achille vi si facesse la toilette ma per il fatto che qui venne
trovato un graffito riferito all’eroe greco. Inoltre il termine Za Lisa
viene dal romano Latia elisia, ovvero “pianure felici”, appunto
perché erano lussureggianti. Ciò non esclude che qualcuno non abbia
aperto in quella zona qualche trattoria o fondaco con il nome “nta Za
Lisa”.
È stato dimostrato che questo fiume nasce dall’Etna nei pressi di
Randazzo. Le continue e successive colate di lava lo hanno coperto,
ma ugualmente ha continuato a scorrere sotto la lava raggiungendo
Catania. In seguito al tremendo terremoto del 1693, in fase di rico-
struzione della città, venne deciso di coprirne il percorso per evitare i
miasmi che esso emanava, essendo state le sue acque inquinate da
carogne in putrefazione. Le acque vennero incanalate in un unico
letto e prima di far loro raggiungere il mare sotto traccia, vennero
fatte comparire in piazza Duomo nella fontana detta di L’acqua a
linzolu. Proprio in questi ultimissimi tempi, un canale è stato
costruito sotto la villa Pacini, che raggiunge una fontana sorta in
piazza Borsellino (ex Alcalà). Questo fiume fantasma che compare
ormai nel momento in cui sta per raggiungere il mare, di tanto in
tanto appare anche in città.
Se tu un bel giorno tornerai a Catania e accetterai il mio invito, ti
condurrò a cena sulle rive sotterranee dell’Amenano! Ho scoperto,
proprio all’inizio del traforo ferroviario sotto piazza Federico di
Svevia, presso la chiesa della Madonna dell’Indirizzo (o ‘ntrizzu)
una trattoria la cui cantina è a contatto con il letto del fiume ed è
stata attrezzata come saletta da pranzo; pertanto offre la possibilità di
cenare non solo al lume di candela, ma anche ascoltando il gorgoglio
dell’acqua che scorre. Bello, no?!
L’altro fiume fantasma di Catania è il Longane, quest’ultimo
nasceva alla Barriera e attraversando il terreno di Leucate puntava
dritto a nord di Catania, formando un canale, detto Canalicchio, per
sversare le sue acque a estuario in una larga insenatura, detta
Lognina, che costituiva il vecchio porto di Catania. Il suo percorso
era al di fuori della cerchia muraria della vecchia Catania, ma ormai
scorre sotto il territorio della città allargatasi nel tempo.
Questo fiume, colata su colata, fu ricoperto dalla lava dell’Etna e
Leucatia, Canalicchio, l’Ognina diventarono terreno sciaroso su cui
sono sorti gli omonimi quartieri.
Il Longane cosa ha fatto? Zitto zitto, quatto quatto, ha continuato a
scorrere sotto la lava andando a sversare le sue acque sotto gli scogli
di Ognina. Anche la stessa fonte è stata coperta! In quel punto vi era
una fontana che ha finito per non sversare più acqua.
Il Canalicchio ha solo conservato il nome, poiché oggi è costruito
interamente da case e strade.
L’area del porto di Ognina, che doveva essere grande, se è vero
che riusciva a dar ricovero all’intera flotta spagnola, è stata coperta
interamente dalla lava. Del resto, nel quartiere vi è una strada, chiamata via Porto Ulisse, che ricorda il molo di questo porto, così
chiamato, che dà l’idea della sua ampiezza.
Come puoi notare, il senso di mistero e di magia, che aleggia su
Catania, è dato non solo da quell’elefante di piazza Duomo ma anche
da questi due fiumi fantasma che, quasi per miracolo, continuano a
vivere resistendo ai furori dell’Etna.
Nulla resta o pochissimo della vecchia Catania
Se tu rifletti attentamente, tutta la città di Catania ha qualcosa di
misterioso e di magico anche in tutta la sua storia, riuscendo a mostrarsi
come un fantasma redivivo di se stessa.
Nulla resta o pochissimo della vecchia Catania, quella greca,
romana, araba e bizantina. Nulla che sia anteriore alle fatidiche date
del 1669 e del 1693. Solamente qualche vestigio, qua e là.
L’ultima eruzione su Catania, quella del 1669, è stata micidiale.
Ha distrutto il laghetto di Nicito, ha ingoiato le vecchie mura di
Catania, ha sommerso tutta la spiaggia che dalla Plaja si estendeva
verso nord, ha invaso il mare, rubandogli spazio per qualche miglio.
In Piazza Federico di Svevia, dov’è situato il castello Ursino, vi
era l’acqua intorno essendo stato costruito da Federico II su una rupe
circondata dal mare, appunto per consentire la difesa della città da
eventuali attacchi marini. La lava ha inghiottito tutto, risparmiando il
castello, grazie all’esposizione del velo di Sant’Agata, come riporta-
no le cronache del tempo.
Laddove adesso c’è il porto, vi era spiaggia dorata come quella
della Plaja, la quale venne fagocitata dalla colata lavica. Ti faccio
notare che il nome Ursino, dato al castello, ricorda questa circostan-
za. Infatti, la parola ursino altro non è che l’ulteriore trasformazione
del termine dialettale “o sinu” poiché per l’appunto il maniero era
allora denominato “u casteddu ‘o sinu” (il castello del seno); cioè il
castello costruito nel seno del mare; la denominazione rimase,
nonostante il mare fosse stato invaso dalla lava dell’Etna.
Il terremoto del 1693 completò l’opera di distruzione, abbattendo
tutto ciò che il vulcano aveva risparmiato. Catania morì, insieme al
suo fiume e le sue antichità greche, romane e arabe. Su questa città
morta emerse il suo fantasma vestito di rococò con qualche piccola
traccia di un mondo perduto, annegato nell’incandescente magma del
vulcano. Molte città dell’Asia, delle Americhe e della stessa Europa,
che hanno subito l’impatto di elementi negativi, sono scomparse del
tutto, inghiottite nel nulla dal tempo, invece Catania è risorta nello
stesso posto con caparbia volontà, nonostante il pericolo incombente
del vulcano e delle catastrofiche previsioni. Queste ultime non sono
modeste e le leggende, fin dall’antichità, ricordano la loro esistenza e
la loro consistenza confermate da recenti studi geologici.
A prescindere dal pericolo di terremoto, che scaturisce dal cozzo costante della placca euroasiatica contro quella africana e la conseguente frattura che ha dato origine ai vulcani che pullulano a nord della Sicilia, esiste la possibilità che, sull’esperienza dell’isola di Santorini e della stessa valle del Bove dell’Etna, un bel giorno, anzi,un cattivo giorno, l’Etna potrebbe implodere, facendo inghiottire dal mare i territori circostanti e, gioco forza, Catania.
Un simile fenomeno si è verificato nel mar Egeo, dove un intero
vulcano è imploso creando un’immensa caldara, attorno al quale
sono rimaste emerse le isole di Santorini. Lo stesso fenomeno si è già
verificato sull’Etna milioni di anni fa, il quale ha fatto implodere un
suo fianco, creando l’immensa valle del Bove. Nel primo caso è nata
la leggenda di Atlantide, un continente, esistente in qualche parte del
mediterraneo, scomparso perché inghiottito dal mare. Nel secondo
caso invece è nata la mitica leggenda del pastorello Aci, distrutto da
Polifemo per amore di Galatea.
Aci era un fiume che nasceva dall’Etna e sversava le sue acque
ricchissime di fauna marina a delta a nord di Catania. La ninfa
Galatea si innamorò di questo fiume personificato in un pastorello
che sapeva incantarla al suono del flauto e andava a trovarlo fino alle
sue sorgenti intrattenendosi a fare l’amore con lui. Ma Polifemo, con
quel suo occhio vigile, prima che Ulisse lo accecasse, punto da una
forte gelosia, al fine di possedere la ninfa, si munì di una grossa pala
e incominciò a rovesciare la lava incandescente sul povero Aci che
infine morì e scomparve per sempre; la leggenda si concluse con lo
stupro di Polifemo su Galatea, da cui nacque Galati che, allevato
dalla madre sulle rive del mare, dette il nome a un paesetto che
ancora oggi è chiamato così.
Come non bastasse nacque pure la leggenda di Colapesce, un
mitico pescatore, mezzo uomo e mezzo pesce, che tuffatosi nel mare
non riemerse mai più perché rimase a sostenere la Sicilia, che stava
per affondare, con la forza delle sue braccia.
Piazza San Cristoforo: qualcosa è cambiato
Ho rivisto la vecchia chiesa di San Cristoforo, quella la cui entrata
si affaccia in via Plebiscito, tra gli sbocchi di via Belfiore e di via
Juvara. La facciata esterna non presenta alcuna variazione rispetto
agli anni del dopo guerra. Nemmeno l’ambiente circostante sembra
aver subito in apparenza dei cambiamenti: la stessa ressa di gente e
di bancarelle allo sbocco di via Belfiore, la stessa piazza San
Cristoforo, dove in fondo troneggia la vecchia Manifattura Tabacchi,
il vociare della gente e il traffico assordante delle auto. Ma se ci si
sofferma a guardare attentamente, ci si accorge che alcune cose sono
cambiate. Non vi sono più le rotaie dei tram né la linea elettrica
aerea, dalla quale i trolley prelevavano l’energia di propulsione.
Quest’ultima fu più longeva delle rotaie, poiché servì per un certo
periodo a far andare i filobus, i quali sostituirono i tram. Alla fine,
quando si pensò di sostituire anche i filobus con autobus di linea a
diesel, venne cambiato del tutto il basolato in lava di tutta la via
Plebiscito con il più “comodo” asfalto. La stessa sorte subirono Via
Garibaldi, via Vittorio Emanuele, via Etnea, Piazza Duomo e tutte
quelle vie o piazze che avevano ospitato le vecchie rotaie dei tram,
tra le proteste dei cosiddetti “scalpellini”, che vedevano così svanire
per il futuro una sicura fonte di lavoro, costituita dalla fornitura delle
basole di lava dell’Etna.
Oggi, forse, a fianco degli scalpellini, sotto la funcia (proboscide)
del Liotru, avremmo avuto anche gli ecologisti, pronti a difendere
tutto ciò che è naturale; è fuor di dubbio che l’asfalto non fa poi tanto
bene alla salute, anche se più comodo da mettere in opera. Ho notato,
con mio grande plauso, che via Etnea e piazza Duomo, dopo un
intermezzo di sampietrini, sono ritornati al basolato lavico con degli
effetti artistici stupendi, nonostante le critiche al vecchio sindaco,
Scapagnini, che intanto è anche passato a miglior vita.
A voler spingere lo sguardo avanti, ci si accorge che davanti alla
piazza di San Cristoforo è stato installato un rifornitore di benzina e
che la stessa piazza, al centro, ospita delle aiuole, regolarmente in
estremo abbandono, parzialmente occupate da auto in sosta e rifiuti.
Ricordo che quando non vi erano queste aiuole, costate chissà quanto
al comune, quello spazio era adibito a utile posteggio di veicoli
mimetizzando almeno in parte l’atavico abbandono dei luoghi.
A destra della facciata della chiesa, dove sbocca la chiassosa via
Belfiore, la piazzetta triangolare, da cui si accede a via Abate Ferrara
e a via Di Giacomo, è rimasta simile ad allora. Vi sono più auto di
allora in sosta e inoltre sono cambiate le insegne dei negozi; sulla via
Plebiscito vi è ancora la farmacia del fu dottor Suma, ma è
scomparso l’emporio di calia (ceci infornati), calacausi (arachidi),
castagne napoletane, mostarda e altra frutta secca “d’o Cantaturi”.
(Non so perché lo chiamassero così; forse perché “cantava” con le
forze dell’ordine o forse perché una volta faceva il cantante.).
È pure scomparsa La Portoghese, una piccola industria artigianale
di caramelle, che ha dato luogo a un negozio di elettrodomestici.
Al primo piano di un palazzo prospiciente la piazzetta troneggiava
al di sopra del balcone un enorme cartello rettangolare con la scritta
DEMOCRAZIA CRISTIANA; era la sezione della D.C. tenuta dal-
l’Onorevole Cavallaro, deputato per due legislature e trombato alla
terza. Da quel che mi ricordo la trombata fu dovuta alla sua
opposizione all’assunzione da parte del Comune degli “spazzini
abusivi”; sosteneva che, per equità e trasparenza, il Comune avrebbe
dovuto bandire dei regolari concorsi e siccome, quando una volta a
Catania le strade erano sempre pulite, provvedevano a ritirare i rifiuti
dei volontari, che dall’oggi al domani, furono definiti abusivi,
l’onorevole Cavallaro, come suol dirsi a Catania, al momento del
voto “si attaccò al tram.” Il suo elettorato, composto quasi tutto da
genterella, che raccoglieva gratuitamente i rifiuti della città e li
rivendeva ricavandone di che vivere, vedevano sfuggire non solo
l’opportunità di essere assunti dal Comune, ma anche di poter
continuare a fare quel lavoro che sarebbe diventato illegale; insomma
i suoi vecchi elettori considerarono lesivi dei loro interessi la
posizione di “equità e trasparenza” assunta dell’onorevole Cavallaro
e nelle preferenze lo sostituirono con l’onorevole Turnaturi, proclivo
a difenderli. Anche se il mio ricordo è molto appannato per il tempo
trascorso, le cose andarono proprio così o quasi.
Alla sinistra della facciata della chiesa, dove adesso fanno mostra
tre grosse palle gialle, che rivelano l’esistenza di un emporio tessile
gestito da cinesi, vi era un laboratorio a conduzione familiare di
giocattoli d’altri tempi: bamboline di tutte le misure, girandole,
carrettini siciliani con cavalli di cartapesta, pulcinella che battevano
le mani spinti da un’asta di legno, maschere di carnevale e altre
cosette d’immediata e semplice realizzazione.
A gestire la fabbrichetta, che era nello stesso tempo negozio, vi
erano due signore di mezza età e un uomo anche lui anziano, tutti e
tre fratelli. Ricordo che da ragazzo a volte mi fermavo a osservare il
loro lavoro. Quello che mi appassionava era veder nascere i cavalli di
cartapesta che poi venivano attaccati ai carrettini.
Niente di difficile: avevano degli stampi, che riproducevano le due
metà del cavallo, sui quali mettevano più strati di carta di giornale
inzuppata di colla vinilica liquida. Quando la colla si essiccava univano
le due parti e dopo procedevano alla colorazione, dipingendo
zoccoli, occhi, boccaglio e foge. Con la stessa procedura costruivano
le maschere in carta pesta. Ovviamente ogni manufatto poteva essere
pronto dopo quasi una settimana, ma loro eseguivano il loro lavoro
in serie e con ordine. Un giorno provvedevano allo stampo, un altro
all’essiccazione della carta, un altro alla colorazione del mantello,
un’altra ai vari disegni e così anche per la lavorazione degli altri
giocattoli. Seguivano un certo ordine: una specie di catena di
montaggio dai rudimenti artigianali.
Lavoravano senza l’impellenza della vendita immediata, tranne
qualche cianfrusaglia, e accumulavano il prodotto, pronto a vendere
al momento opportuno e cioè, prima della fiera dei morti, prima del
carnevale e così via.
Certamente non guazzavano nell’oro, ma riuscivano ad andare
avanti e non si stancavano mai di lavorare. Non so quando hanno
smesso la loro attività, poiché poi io mi sono allontanato da Catania,
ma sicuramente fino a quando non sono entrati in commercio altri
tipi di giocattoli più sofisticati.
Nel ricordare questo laboratorio, alcuni anni fa ho scritto questo
sonetto in vernacolo che mi piace riportare:
Giucattuli d’autri tempi
All’angulu da chiazza di li morti,
supra na lapa ammunziddati stannu
li carritteddi di na vota e fannu
lu stissu effettu d’essiri risorti.
Na vota, quannu c’era fami forti,
li picciriddi annavanu jucannu
cu carritteddi nta li strati. Tannu,
nun c’eranu giucattuli cuntorti
e simuventi. Sulu di cartuni
mudillatu, cavaddi fermi e tisi
foru impaiati a carritteddi ‘i lignu,
pi’ picca sordi. Ma ora ti n’adduni
ca sunu cari ed hannu li pritisi
d’essiri antichi, a prezzu senza signu.
Traduzione: All’angolo della piazza dei morti/ sopra una moto-ape
ammonticchiati stanno/ i carrettini di una volta e fanno/ lo stesso
effetto d’essere risorti./ Una volta quando c’era fame forte/ i bambini
andavano giocando/ con i carrettini nelle strade. Allora/ non c’erano
giocattoli complicati/ e semoventi. Solo di cartone/ modellato,
cavalli fermi e rigidi/ furono attaccati a carrettini di legno/ per pochi
soldi. Ma adesso te ne accorgi/ che sono cari e hanno le pretese
d’essere antichi senza limite di prezzo.
Per chi non lo sapesse “a chiazza de’ morti”, a Catania è la piazza
dove alcuni giorni prima della ricorrenza dei defunti, vengono
venduti dei giocattoli per i bambini, ai quali, poi, viene fatto credere,
secondo le tradizioni, di essere stati donati dai parenti morti al fine di
perpetuarne il ricordo. Il risultato è che un giorno di mestizia per gli
adulti, diventa un giorno di gioia per bambini, con un significato
molto diverso dalla ricorrenza dell’Epifania, nel quale il dono
assume una sacralità meno religiosa, ma profondamente umana e
fortemente accostata al culto dei morti.
L’interno della chiesa, almeno la parte adibita al culto e alla Santa
Messa è rimasto come allora. Quand’era parroco Padre Mannino, da
molto tempo ritornato alla casa del Padre, ebbi a frequentare l’orato-
rio di questa chiesa, per ricevere la cresima e la prima Comunione
insieme, dalle mani del Vescovo che, se non ricordo male, era
Monsignor Bentivoglio, ora sepolto nel Duomo di Catania.
In verità non erano tempi belli quelli. I postumi della guerra si
facevano sentire ed economicamente non si guazzava nell’oro. Era
tutto limitato e misurato: niente sprechi e solo desideri molte volte
non appagati.
Eppure dall’alto dei miei tre quarti di secolo, penso con nostalgia a
quel periodo di serenità affettiva e familiare che mai più ritornerà pur
nel bisogno delle cose più semplici e nell’amarezza di rinunce
talvolta dolorose, ricompensate solo dall’amore e dall’affetto dei
miei genitori.
LA PESCHERIA A CATANIA
«Vossia a ciaurassi, ca ci l’ammoghiu!» diceva il pescivendolo,
tirando fuori dalla vasca d’acqua salata, una grossa lambuca e
passandola sotto il naso dell’occasionale avventore che si aggirava
tra i banchi della pescheria.
«Friscu, friscu è... Ora-ora arrivavu co’ vapuri!»
«Bello, bello! Signora taliasssi chi bello caponi!»
Egli dall’avventore era passato a mostrare il pesce a una signora
che si era fermata a guardare.
Il pescivendolo che gli stava accanto gridava a sua volta:
«U puppu, ci haiu u puppu. Ora, ora ‘u pigghianu all’ognina… Si
movi ancora...»
E mentre con una mano teneva fuori dal secchio un bellissimo
esemplare di polipo, con l’altra gli dava degli schiaffetti sulla pelle
che reagiva corrugandosi.
«Chi fa, non ci piaci u puppu?»
«Dagliolo, dagliolo alla signora – rimbeccava l’altro – ca ci piaci
bello frisco…»
«Chi fa, signura, ci lu dugnu sanu? Comu voli ci lu dugnu …»
«Bello, bello! E chi è zammù! »
«Arrustutu si l’havi a fari oppuru ca cipuduzza e u pumaroru...»
Dall’altra parte del viottolo, altri venditori reclamizzavano i trighi
di scoghiu, i precchi, i sparacanaci, i masculini, i scazzùbuli e i pisci
palummu, non omettendo di usare qualche doppio senso allo scopo
di attirare l’attenzione degli astanti.
C’era di che comprare; vi era pesce di tutte le qualità, magari
spacciato per fresco quando fresco non era, ma bellamente mostrato
sotto la luce di una grossa lampada elettrica che esaltava i riflessi
delle squame e il colore rosso di li jargi, tirate fuori e artificialmente
tinte.
Per comprare il pesce alla pescheria di Catania bisogna essere un
poco esperti, conoscere i venditori e sapere qual è il loro ruolo nel
mercato. Infatti tra i venditori di pesce bisogna distinguere i
“riatteri”, cioè quelli che comprano la merce allo “sgabello”, dove
arriva sotto ghiaccio dal vicinissimo porto. Si tratta di pesce pescato
chissà dove e, quindi, tanto fresco poi non è, specialmente se è di
quello avanzato dalla vendita dei giorni precedenti. Talvolta il pesce,
nel tentativo di spacciare per vera la loro freschezza, viene dai
venditori sottoposto a piccoli trucchi, come la lucidatura degli occhi,
fatti sporgere mettendo sotto di essi dei piccoli cuscinetti di carta, la
tinta di rosso vivo di li jargi, capziosamente tirate fuori dal loro
naturale alloggiamento, l’esposizione in mezzo ad alghe (queste
fresche veramente!) profumatissime di mare. Basta conoscere questi
signori per tenere gli occhi ben aperti nel comprare.
Generalmente, quelli che vendono il cosiddetto pesce a fette, come
pesce spada e tonno sono rigattieri e non disdegnano di mettere in
auge tutti i trucchi per far apparire freschissimo il prodotto esposto,
che arriva sempre congelato e talvolta, quando non si riesce a
venderlo durante la giornata viene ricongelato senza tanti scrupoli e
poi scongelato e chissà quante volte. Uno dei trucchi per spacciare
per fresche trance di pesce spada, reduci di più di uno
scongelamento, è quello di mettere sul banco una sua testa con tanto
di spada ricolorata.
Oltre ai rigattieri, vi sono dei pescatori veri e propri, che cercano
di vendere il loro pescato al di fuori del circuito di mercato
controllato e magari non hanno la licenza per vendere. Fra questi si
può trovare il pesce veramente fresco e del nostro mare, ma a
comprare da loro si va incontro ad altri inconvenienti. Intanto,
bisogna capire se al pesce effettivamente fresco non ne sia stato
mischiato dell’altro di dubbia provenienza. Inoltre la garanzia della
freschezza viene fatta pagare lievitando i prezzi e … rubando sul
peso.
Di solito un chilo di pesce, regolarmente pesato, corrisponde a non
più di un ròtolo (800 grammi).
Talvolta viene anche rispettato il peso, ma si ricorre ad altri trucchi
a seconda della qualità venduta. Per esempio, per la vendita dei
calamari freschi si ricorre all’espediente di riempire i loro sacchi con
pesci di più scarso costo, quali acciughe o sarde e qualche volta
anche con pietruzze o sabbia.
Quindi per comprare alla pescheria e non andare incontro a delle
fregature, bisogna essere abbastanza istruiti in materia e, cioè, saper
distinguere a occhio l’effettiva freschezza del pesce e conoscere
colui che lo vende. Per questo motivo chi compra alla pescheria deve
essere un frequentatore del mercato; andarvi una volta tanto per
comprare qualcosa non è prudente.
Un trucchetto, o meglio una furbizia, da parte del compratore per
spendere meno e meglio è quello di comprare nella tarda mattinata.
Di buon mattino i prezzi sono più alti e verso le ore 13,00 scendono
poiché i pescivendoli cercano di vendere la merce in rimanenza per
non doverla riporre in deposito e riproporla il giorno successivo.
In ogni caso l’andare in pescheria magari solo per guardare e
ascoltare le facezie dei venditori o degli avventori che a volte si
associano alle prime con effetti talvolta comici e piacevoli, può
costituire un vero spasso e un passatempo al quale molti catanesi,
specialmente pensionati, sono adusi provare
Quella piazza incastonata tra le case antiche, che generalmente
servono di deposito della merce, a ridosso della statua dell’acqua o
linzolu dell’Amenano, è un vero spaccato della vita cittadina che si
svolge laddove il fiume versava le sue acque per incanalarsi lungo i
rivoli, ormai sepolti, diretti al mare.
Ai nostri giorni, non a caso, sempre più frequentemente, nella
ressa della pescheria è possibile notare le bandierine delle guide
turistiche alla testa di gruppi, per lo più stranieri, che sciamano tra i
banchi del pesce. Lo scopo, ovviamente, non è quello di far fare
degli acquisti, ma sicuramente quello di mostrare un aspetto
veramente caratteristico della vita cittadina catanese.
LE ORIGINI DI PIAZZA BORSELLINO (EX ALCALÀ)
Dopo la recentissima alluvione verificatasi su Catania, ho avuto
modo di vedere a confronto su Internet, una foto scattata con piazza
Borsellino (ex Alcalà) allagata e una vecchia foto degli archi alla
marina di Catania, che, a quanto pare, furono costruiti sul mare per
consentire il transito della ferrovia.
Ho così scoperto che la piazza in questione era un’insenatura
marina, dove trovavano ricovero le barche dei pescatori, chiamata il
Porticello, la quale venne coperta con i detriti e i resti degli edifici
abbattuti dai bombardamenti dell’ultima guerra. Ho letto altrove,
pure di un recente progetto, che ritengo un sogno, o forse una trovata
politica per catturare l’interesse di nostalgici e creduloni ambientali-
sti, di ripristinare l’insenatura marina per la realizzazione di un
particolare parco marino.
Non nascondo di provare una certa emozione, quando attraverso la
piazza in auto per andare verso la Plaja, al pensiero che una volta
quei posti erano solcati da barche a remi e a vela.
Catania, nel suo crescere, oltre a inerpicarsi sui pendii dell’Etna,
non ha risparmiato di rubare spazio allo stesso mare, aiutata, talvolta,
dalla lava del vulcano, non solo distruttore, ma anche amico e
benefico costruttore della città!
Dall’antro ad arco, dove trovano posto i banchi dei pescivendoli,
una volta porta marina di Catania di fronte all’ingresso dell’attuale
villa Pacini, affiancata alla piazza Borsellino, versava le sue acque a
mare un ramo dell’Amenano, mentre un altro proseguiva verso la Za
Lisa, i vecchi campi elisi di romana memoria o, forse, così chiamati
perché vi sorgeva un vecchio fondaco chiamato appunto da Za Lisa,
come qualche storico sostiene. Certamente il paesaggio d’allora era
più suggestivo di adesso ma fu cancellato dall’evoluzione del
territorio, pressato dalle eruzioni dell’Etna e stressato dal terremoto
del 1693. Inoltre non è stata indifferente l’opera dell’uomo. Si pensi
che gli archi del condotto ferroviario che adesso cingono Catania
sulla striscia di terra antistante il porto fino a immettersi in galleria al
punto chiamato dell’Indirizzo (o’ ntrizzu), furono costruiti sul mare e
che all’uscita da Catania l’Amenano, era sormontato da un ponticello, che le signore attraversavano per raggiungere il parco che fu
dedicato al musico Pacini e che i catanesi oggi chiamano A villa ‘e
varagghi (La villa degli sbadigli) perché frequentato dai pensionati.
Ai nostri giorni la zona di ritrovo dei catanesi si è spostata verso
Piazza Europa e la circonvallazione a mare dell’Ognina, ma allora,
quando la città era limitata alla Porta d’Aci (piazza Stesicoro), a quei
tempi il bel mondo catanese frequentava per le passeggiate a piedi i
locali della villa Pacini per l’aspetto romantico e suggestivo dei
locali prospicienti il mare, tanto da ospitare nelle serate estive dei
concerti musicali, che le cronache vogliono frequentatissimi.
Sì, insomma, quando la villa Bellini era ancora bosco e territorio
dei Biscari, la villa Pacini, declassata oggi a villa de’ varagghi, era il punto di ritrovo della Catania-bene d’allora, frequentatissima dalle
signore e dagli immancabili cicisbei.
Non posso non abbandonarmi a una considerazione che mi viene
spontanea. Il tempo non solo modifica gli uomini nelle loro usanze e
nei loro costumi ma esercita il suo cambiamento anche sul territorio,
attraverso le trasformazioni imposte dalla natura in continuo divenire
e dagli stessi uomini sotto la spinta impellente del bisogno e del-
l’evoluzione tecnologica.
Senza le eruzioni dell’Etna, senza il terremoto tremendo del 1693,
senza la necessità di seppellire l’Amenano, divenuto fonte d’inquina-
mento, senza l’invenzione della macchina a vapore che impose la
costruzione delle strade ferrate, senza i bombardamenti dell’ultima
guerra che imposero di rubare spazio al mare per smaltire le macerie,
oggi quest’angolo di Catania sarebbe rimasto forse identico ad allora.
Avremmo sicuramente al posto della piazza Borsellino la vecchia
insenatura marina, il vecchio “porticello”, forse unito all’adiacente
porto, ulteriormente ingrandito sotto la spinta dell’incremento dei
trasporti marini; avremmo forse un’ecologica foce dell’Amenano,
oggetto di culto degli odierni ambientalisti, uno stupendo paesaggio
marino da difendere dall’intrusione dell’opera dell’uomo e una
stupenda campagna irrigata dall’altro ramo dell’Amenano fino alla
lontana Za Lisa, con il conseguente mancato sviluppo edilizio
attuale, volto sicuramente in altra direzione.
Nonostante tale considerazione, non mi sento chiaramente di
condannare le modifiche avvenute nel territorio, tra l’altro ritenute al
momento valide e utili, poiché fanno parte del naturale evolversi
degli eventi, anche se preso dal velato rimpianto di non aver potuto
vedere quei luoghi nella loro genuinità naturale.
Tutto passa e cambia, come ebbi a dire in altre occasioni, e non
resta che accettare il cambiamento!
Il nostro mondo non è statico, ma, come per primo intuì il greco
Eraclito, esso è in continuo divenire. L’essenza del problema è
l’evoluzione del cambiamento e gli effetti da esso prodotti; non tanto
la distinzione tra staticità e movimento. Tutto diviene continuamente,
tutto passa e cambia e, quindi, ad ogni cambiamento corrisponde un
risultato, che, anch’esso è destinato a cambiare nel tempo. Se le cose
vanno in questo modo, diventa importantissimo fare delle scelte
sensate per ottenere risultati ottimi e in linea con i tempi. Ma chi è in
grado di prevenire i tempi futuri, dal momento che anch’essi variano
di generazione in generazione? Ecco, quindi, che conviene accettare
la realtà che sta sotto i nostri occhi, così com’è, senza perdersi in
congetture superflue. L’unica cosa buona da fare è osservare bene la
realtà e farla cambiare al momento, secondo il proprio punto di vista
e non disperarsi per l’eventuale mancato raggiungimento del fine
agognato, poiché altri, dopo, potranno raggiungerlo e, se del caso,
cambiarlo. Insomma, in un certo senso, bisogna accettare la filosofia
del “carpe diem” di latina memoria per trarre il maggiore godimento
dall’aspetto reale e immediato delle cose e coglierne gli aspetti
positivi.
Per questo motivo mi limito ad osservare l’attuale stato dell’ex
Porticello, diventato terra ferma, apprezzarne gli attuali vantaggi e a
pensare, magari, come poterne migliorare il suo attuale aspetto,
naturalmente senza non provare un po’ di nostalgia per ciò che non
sono riuscito a vedere prima ed era bello!
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La storia delle CIMINIERE
e della STAZIONE FERROVIARIA
......accanto alle Ciminiere, sorge quello che io
ero solito definire “il mio regno”. Parlo della stazione di Catania
Centrale. Lì venni assunto nell’ormai lontano 1 luglio del 1959 e,
dopo alterne vicissitudini, lì ho concluso la mia carriera ferroviaria il
31 Luglio 1996 come Capo Reparto dell’Area Rete FS. Tutta una
vita che ha visto la trasformazione delle FS da Azienda Autonoma ad
Ente e successivamente ad S.p.A. Voglio evitare commenti,
delusioni, aspettative e quent’altro relativamente a questi passaggi. I
risultati salienti sono evidenti e non hanno bisogno di commenti.
Essi, anche se passati sotto silenzio, hanno contribuito, e non poco,
all’attuale crisi, che identifico con la perdita di posti di lavoro e ti
posso assicurare che in ferrovia se ne son persi molti.
Quello che mi preme evidenziare è la vera storia di questi luoghi e,
cioè, delle “Ciminiere” e della stessa stazione ferroviaria di Catania,
che, in un certo senso, si intersecano tra loro.
Come ho già detto, l’antica Catania nacque e si estese lungo le
rive del fiume fantasma Amenano e verso la zona marina meridionale. Tutto il territorio a Nord, ossia Ognina e piazza Europa erano
piena campagna fino all’attuale piazza Stesicoro (a “porta di Aci”).
Successivamente, dopo i disastri del terremoto e della precedente
ultima eruzione dell’Etna, intorno al 1860, la città si estese fino a
raggiungere l’attuale piazza Iolanda. Anche il territorio di Ognina,
scaturito dall’eruzione lavica che aveva cancellato la foce del fiume
Longane era rimasto una accumulo di nera pietra lavica. Sostanzialmente, tutta questa fascia di territorio, attualmente brulicante di
automobili e di vita, dalla settentrionale Ognina fino al Castello
Ursino e oltre verso sud, era solo campagna, ovvero roccia lavica
fino a raggiungere il mare. Ciò favorì in quei luoghi un insediamento
industriale non indifferente , distante dalla città abitata, comunque a
portata di mano, che aveva la possibilità anche di smaltire le acque
reflue nel mare (allora non era recepito il bisogno di salvaguardare il
mare dall’inquinamento industriale!). Fu così che nacquero le
“Ciminiere”; un insieme di fabbriche, forni fonderie e quant’altro per
la lavorazione del ferro, dello zolfo e dei minerali affluenti
dall’entroterra catanese. Questo agglomerato industriale, dotato di
tutti i crismi tecnologici d’allora era abbastanza fiorente ed efficiente
fino al 1860 e tanto da consentire al Regno delle Due Sicilie di trarne
degli enormi vantaggi economici.
Con la caduta dei Borbone e appunto con l’avvento dell’Unità
d’Italia, fu decisa la vocazione agricola di tutto il Sud d’Italia e la
vocazione industriale del Nord, con il conseguente abbandono delle
vecchie fabbriche di Catania, che rimasero fatiscenti e pericolanti,
fino al giorno in cui (questa è storia recente) venne fuori l’idea di
recuperare i luoghi per destinarli all’attuale funzione artistica,
culturale e sociale.
Un mare di cemento invase le “Ciminiere”, distruggendo,
riattando e adattando le vecchie fabbriche alle nuove esigenze. Un
fiume di soldi cominciò a scorrere sulle balze della costa di Larmisi e
le costruzioni, ad opera dei privati, di nuove case sui territori
urbanizzati adiacenti, contribuì a far progredire tutta la zona, fatta
attraversare dall’ampio viale Africa, che prosegue con la
circonvallazione a mare fino alla piazzetta Mancini Battaglia di
Ognina.
Allo sviluppo edilizio contribuì non poco la decisione di costruire
a ridosso delle Ciminiere la stazione ferroviaria di Catania, avvenuta
subito dopo l’Unità d’Italia, dopo il 1860.
La costruzione della Stazione di Catania Centrale e la posa in
opera della ferrovia che doveva collegare Messina, Catania e
Siracusa ha tutta un’altra storia che si è evoluta in una direzione
opposta a quella delle “Ciminiere”. Queste ultime, bene o male,
hanno trovato nell’attuale contesto cittadino una funzione sociale e
culturale veramente ragguardevole, anche se non del tutto sviluppata
e completamente attuata. È fuor di dubbio che alle Ciminiere
vengono svolti molti incontri culturali e vengono intraprese delle
attività un tempo neppure immaginate...... Capisco che forse
appartengo a una generazione molto diversa, ma il concetto reale che
voglio evidenziare è la dinamicità sociale di cui il posto si è reso
promotore. Che quanto ho visto possa essere buono o cattivo, di
buon gusto o di cattivo gusto, non ha alcuna importanza. La cosa
evidente è che in quel posto si aggira tutta una fucina di idee, di
nuovi modi di sentire, di nuove tendenze che costituiscono il
substrato del futuro.....
Per quanto concerne la stazione di Catania C., non vedo uno
sbocco altrettanto lusinghiero per diversi motivi, che vanno
dall’errata posizione primigenia di tutto il tracciato ferroviario, alla
politica svolta dalle FS e alla mancanza di lungimiranza sempre
costante nell’ambito ferroviario e nell’assenza di interesse pubblico
da parte dello Stato. Quest’ultimo ha il grande torto di non badare
alla comodità e allo sviluppo di un servizio necessario e utile, ma al
solo obiettivo di spendere il meno possibile trascurandone l’effettivo
sviluppo e l’effettiva efficienza sociale...
Ma cominciamo a dire le cose con ordine.
Quando fu deciso di costruire la strada ferrata tra Messina Catania
e Siracusa con la conseguente ubicazione delle stazioni di Catania e
Siracusa, il progetto governativo prevedeva l’attuale piano, che
sottoposto all’allora Senato della città di Catania (si chiamava
proprio così!) venne regolarmente bocciato e a buona ragione. Le
autorità comunali , in alternativa, proposero di far passare il tracciato
ferroviario nell’entroterra, distante dalla costa e allora non
urbanizzato, ubicando la stazione di Catania Centrale nella piazzetta
antistante l’attuale ingresso al porto. Tale progetto avrebbe favorito
la facile congiunzione ferroviaria con il porto e l’eliminazione
dell’attuale traforo tra Catania Centrale e Acquicella, nonché la
costruzione di “l’Archi a marina” e l’accesso pianeggiante a Catania
dei treni provenienti da Acireale. Nonostante l’opposizione del
Comune la ferrovia venne costruita com'è oggi, con gli errori che
sono i seguenti: il tracciato, venendo da Acireale dovette inerpicarsi
sulla costa del Larmisi con un ragguardevole dislivello che influiva
non poco sulle prestazioni delle locomotive; la devastazione
ambientale della costa rocciosa per consentire la posa dei numerosi
binari; la costruzione della attuale bretella in forte pendenza per
raggiungere il porto con conseguente invasione di una parte dello
specchio di mare; la costruzione dell’attuale cinta degli Archi sul
“porticello” (oggi rubato al mare dando luogo all’attuale piazza
Borsellino); nonché il traforo dell’indirizzo (u ‘ntrizzu) tra Catania e
Acquicella. I costi per la costruzione di tale tracciato lievitarono
enormemente, ma il Governo centrale fu irremovibile, poiché alla
base della sua realizzazione vi era un motivo prettamente politico.
Infatti il piano imposto dal Governo era un atto dovuto di
ringraziamento al Governo francese per aver appoggiato e favorito
l’Unità d’Italia dal momento che il progetto in questione era
totalmente francese. Sostanzialmente si trattò della concessione di un
grosso affare commerciale al Governo francese, a spese del popolo
catanese, da parte del Piemonte per aver favorito l’allargamento dei
confini savoiardi su tutto il territorio italiano.
Come sempre, Catania e la Sicilia tutta subì anche in questa
occasione lo strapotere del settentrione italiano a coronamento dei
propri interessi politici e calpestando i diritti dell’aborrito Sud,
costretto intanto a un maggiore esborso fiscale imposto dalla famige-
rata tassa sul macinato di Quintino Sella, gravante maggiormente
sulla zona agricola dello Stato e cioè sui contadini del meridione,
maggior produttore di grano e farine.
Gli effetti deleteri di una siffatta determinazione ferroviaria, lungi
dall’esaurirsi, perdurano ancora provocando un’ulteriore aumento dei
costi. Infatti la successiva urbanizzazione di Ognina impose allo
Stato la necessità di eseguire un traforo sotto piazza Europa. Non
solo questo! Poiché l’aumentato traffico impose la necessità del
doppio binario da Messina a Siracusa o per lo meno da Messina a
Bicocca. Ovviamente per via dei trafori, che sono a semplice binario
sia in ingresso che in uscita a Catania, d’ambo i lati, la stazione
risulta molto limitata nei rapporti di circolazione. Per quanto sulla
carta risulti ufficialmente esistente il doppio binario tra Cannizzaro e
Acquicella, in effetti il traforo tra Cannizzaro e Catania Centrale e il
traforo tra Catania C. e Acquicella, sono entrambi a semplice binario.
Essi sono stati sottoposti al cosiddetto regime di Blocco Automatico
Reversibile: un marchingegno regolamentare che dovrebbe garantire
lo snellimento della circolazione e la sicurezza d’esercizio, legata,
comunque, al rispetto categorico dei segnali di partenza e protezione
di Catania C. da parte del personale di macchina. Il malaugurato
mancato rispetto di tali segnali da parte dei macchinisti può dar
luogo a scontri frontali in galleria; ma i grossi problemi di una
siffatta situazione si manifestano in caso di guasti ai circuiti elettrici
poiché la regolamentazione manuale per la sicurezza provoca dei
ritardi ingenti.
Bisogna aggiungere che altre spese vennero affrontate per
duplicare gli archi della marina. Ma il tutto non si esaurisce qui! La
stazione di Catania Centrale ha perduto tutto il traffico merci per via
dell’urbanizzazione intensa della città, il quale è stato acquisito dalla
stazione di Bicocca. Si potrebbe pensare che tutto finisca così e che il
futuro della ferrovia a Catania sia ormai definito, pur con le
limitazioni imposte dai tempi. Ma non è così, poiché è apparsa
all’orizzonte un’altra emergenza: l’aeroporto di Catania. Con il
regredire dei trasporti ferroviari e con le aumentate relazioni interna-
zionali si rende necessario ingrandire l’aeroporto di Catania con
l’allungamento delle piste di rullaggio degli aerei. Tale allargamento
delle piste comporta che la linea ferroviaria tra Acquicella e Bicocca
venga messa sotto traccia. Di conseguenza necessita mettere in
tunnel tutto il tracciato ferroviario dalla stazione di Cannizzaro a
Bicocca con la conseguente scomparsa della stazione di Catania C.
che diverrebbe sotterranea e alla quale accedere con ascensore e
scale, la definitiva soppressione di Acquicella, divenuta inefficiente
sia dal punto di vista del traffico merci che di quello viaggiatori e lo
spostamento della stazione di Bicocca fino all’attuale punto
coincidente con l’attuale Ipermercato IKEA.
In questo grosso problema di trasformazione di percorso ferroviario, si aggiunge il problema non indifferente della trasformazione
della Circumetnea in metropolitana, che partendo dal porto dovrebbe
raggiungere i paesetti dell’Etna in circolo per ritornare al porto.
Ovviamente il porto, ai fini dei rapporti di scambio con le ferrovie,
non è preso in alcuna considerazione; parimenti sono stati tenuti in
alcuna considerazione i rapporti di scambio tra aeroporto e ferrovie.
Ciò significa, che il progetto che era in atto di interporto da far
nascere a ridosso della stazione di Bicocca, ha perso consistenza
essendo stato superato dagli eventi.
Dalla realizzazione di questo nuovo progetto ferroviario, oltre
all’aumento dell’efficienza aeroportuale, potrebbe trarne vantaggio
tutta la città di Catania, potendosi destinare tutta l’area della scomparenda stazione di Catania all’intensificazione delle attività delle
“Ciminiere” opportunamente integrate con altre di natura sportiva.
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L’UOMO DAL PAPILLON
«....per fortuna ti resta ancora del tempo per
visitare la città»
racconto di Ilaria Ferramosca
da "Ilaria e Catania" di Pippo Nasca
Arrivare a Catania non era stata per me un’impresa facile.
Provenivo dalla Puglia e in particolare da un paese del basso Salento
poco conosciuto, nelle vicinanze della più nota città di Gallipoli;
anch’essa affacciata, o meglio, adagiata sul mar Ionio proprio come
Catania. Due città sorelle, figlie dello stesso mare dunque, eppure
così diverse e soprattutto così distanti tra loro.
Durante il viaggio, non avevo fatto che maledire ministri e società
di trasporti pubblici per il pessimo modo con cui la mia terra è
collegata al resto del mondo. Un percorso lungo dodici ore, che
partendo da Lecce faceva tappa in Calabria, passava attraverso il
mare e approdava a Messina; poi da lì, prendendo una serie di treni
locali, finalmente si arrivava alla cittadina siciliana meta del mio
sfiancante itinerario.
Giunta a destinazione ero troppo stanca e strapazzata dai continui
sballottamenti per riuscire ad ammirare sin da subito la bellezza dei
dintorni, eppure ad alcune cose era impossibile sottrarsi, non c’era
stanchezza alcuna che tenesse.
Il profumo di fiori d’arancio, per esempio, o dei pitosfori e delle
erbe aromatiche, perveniva alle mie narici in modo così intenso e
penetrante, che era impresa ardua il non percepirlo; e io, che adoro
inebriarmi delle fragranze della natura, non chiedevo di meglio se
non essere sopraffatta da quelle essenze dolci o speziate che si
impossessavano dei miei sensi in modo prepotente e al contempo
delicato.
Altrettanto impossibile era il fuggire la visione dell’imponente dio
forgiatore di metalli: l’Etna, che si stagliava sullo sfondo di quel
paesaggio. Pareva riposare, ma di un sonno quieto solo all’apparenza, i leggeri fumi e le bocche rossastre, che si notavano nelle ore
dell’imbrunire, testimoniavano infatti una sorta di fermento, intimo e
irrequieto.
Cosa ci facessi a Catania è un po’ lungo da spiegare, ma diciamo
che si trattava di un motivo legato alla mia essenza femminile e… a
quello che sto facendo in questo preciso istante: scrivere.
No, non mi trovavo lì per delle struggenti lettere, inviate a un
amore siciliano coltivato a distanza e che finalmente avevo deciso di
incontrare, se è questo ciò a cui si potrebbe pensare.
Mi ci ero recata per prender parte a un convegno sulla donna e per
la presentazione di un libro. Beh, in effetti, si poteva definire
anch’essa una questione passionale, ma di natura diversa: una
passione del tutto artistica.
Avevo solo due giorni a disposizione e poi sarei dovuta andar via,
rientrare agli impegni della quotidianità, per cui il mio intento era
quello di rubare alla breve parentesi di relax letterario, quanti
maggiori momenti possibili di conoscenza e cultura della città.
Invece mi ritrovai, alla fine della seconda giornata, ad aver seguito
numerosi dibattiti interessanti e, nel medesimo tempo, con il cruccio
di non aver visitato nulla del luogo.
Così, al termine dell’ultimo congresso, feci una rapida corsa nella
piazza del Duomo, per riuscire a visitare almeno quello, tuttavia la
Cattedrale di Sant’Agata era già chiusa.
La suggestione che ebbi da quella visione, seppure esteriore e
parziale, fu comunque forte. Il contrasto tra pietra lavica e marmo
faceva splendere quest’ultimo di un bianco lattiginoso, anche se
ormai era già sera; lo stile barocco della facciata mi sembrava così
familiare e al contempo così dissimile da quello leccese, caratterizzato invece da pietre ruvide del colore della sabbia.
Guglie, statue e colonne, rendevano quel tempio ancora più
maestoso e gli donavano un’aria di mistero e sacralità. Sconsolata
per non essere riuscita nel mio intento, mi sedetti sul bordo di una
vicina fontana, a capo chino; guardai l’orologio, il mattino dopo
sarei già dovuta ripartire.
«Su con la vita ragazza mia, non crucciarti» una voce mi destò dai
pensieri in cui ero assorta, «per fortuna ti resta ancora del tempo per
visitare la città.»
Sulle prime mi parve una sorta di presa in giro, poi quella voce
continuò: «Il segreto è concentrarsi solo su alcune cose e godere
appieno delle bellezze che ci sono concesse, se pur poche; non è
forse così anche nella vita, in genere?»
Non me ne ero avveduta, eppure un distinto signore anziano si era
seduto proprio accanto a me. Aveva uno sguardo austero se pur
cortese, dei folti baffi bianchi rivolti all’insù e indossava un elegante
abito grigio, mentre al collo recava un papillon azzurro. Forse uno
stile alquanto retrò, pensai, ma di sicuro gli donava molto.
Lo osservai attonita e lui con ogni probabilità si rese conto della
mia espressione di stupore, per cui si affrettò a presentarsi.
«Permette, signorina... mi chiamo Giovanni, Giovanni Carmelo,
per l’esattezza.»
Rimasi a guardarlo ancora così, a bocca spalancata, sia per come
era sbucato all’improvviso, silenzioso, sia per il fatto che sembrava
comprendere tutto quanto mi passasse per la mente.
«Molto... molto piacere signor Giovanni.» Gli risposi titubante.
Mi chiesi come facesse a sapere che ero dispiaciuta per non aver
potuto visitare la città e lui, sempre come leggendomi dentro, ribatté
pronto.
«È chiaro, mia cara, è chiarissimo. Lo si vede dalla tua faccia e lo
si comprende dal fatto che eri così intenta a pensare di non aver
tempo a sufficienza, che te ne stavi seduta su quest’opera d’arte
senza neppure essertene avveduta.»
Mi alzai di scatto, voltandomi indietro, e stavolta notai la fontana
per intero.
«Marmo e basalto, proprio così. Questa composizione fu eretta sul
finire del 1600, dopo un tremendo terremoto che distrusse gran parte
della città.»
Continuai a scrutarla con il naso puntato verso l’alto, mentre
ascoltavo quelle parole. Un elevato obelisco grigio, retto da un
elefante scuro, s’innalzava al centro della bianca fonte.
«Le sculture che vedi ai lati, sul piedistallo del basamento, rappresentano i fiumi Simeto e Amenano, mentre l’ornamento posato sopra
il dorso dell’elefante, riproduce gli stemmi di Sant’Agata, nostra
patrona.»
Mi accorsi solo allora di quanto fosse bella e singolare quella
fontana.
«Vorrei sapere il nome di questo monumento» chiesi quindi al
mio signorile cicerone, «è davvero molto particolare.»
«Si dice che sia magico, è chiamato Liotru» mi informò, «dal
nome di Eliodoro, infatti la leggenda vuole che fosse stato costui a
scolpire quell’elefante. Pare fosse un negromante e che si divertisse
a far muovere le sue opere d’arte.»
«Perché proprio un elefante?» Domandai incuriosita.
«Ci sono svariate teorie in merito, compresa quella secondo cui,
durante la fondazione di Catania, un pachiderma avesse messo in
fuga delle pericolose fiere.»
Quell’uomo aveva un forte fascino, nel modo elegante di
muoversi e nel suo parlare così solenne.
«La ringrazio molto signor Giovanni, con molta probabilità non
avrei mai appreso queste interessanti notizie senza di lei» gli dissi
riconoscente, poi tornammo a sederci entrambi sul bordo della vasca,
che conteneva le acque della fontana.
«E non è tutto» riprese lui, «in questo piazzale c’è molto altro da
ammirare: pregiati edifici, antiche porte. Vieni, andiamo a vedere.»
Lo seguii ancora un po’ confusa. Intanto si era fatta sera inoltrata
e la gente cominciava a defluire dalla piazza, per recarsi nei locali
notturni della vicina via Etnea.
Guardavo quelle antiche costruzioni e le altre opere
architettoniche, affascinata dalla loro fattura, ma al tempo stesso con
l’amarezza di non poter andare in altri luoghi, oppure osservare gli
interni delle chiese, dei musei. Poi all’improvviso mi ritrovai seduta
sul gradino di un palazzo.
«Mi spiace, non posso portarti fisicamente a visitare tutta la città
in poche ore, sarebbe impossibile, ma posso condurti in un giro
immaginario. Sono molto bravo a narrare, mi si dice.»
Giovanni sorrise soddisfatto e prese a raccontare: «Per esempio, lo
sai che proprio qui, sotto la pavimentazione della piazza, scorre un
fiume sotterraneo, inabissatosi per via del sisma? Neanche questo
potresti vederlo, eppure c’è, è lì sotto i tuoi piedi e tutto ciò che
rimane di lui è l’acqua di quella fonte.»
Mi mostrò un’altra elaborata costruzione in marmo, sovrastata
dalla statua di un giovane che recava una cornucopia.
Poi mi invitò a chiudere gli occhi: «Prova a concentrarti in
silenzio e forse lo sentirai scorrere.»
Feci come lui mi suggerì e… forse fu il condizionamento indotto
da quella voce così persuasiva, ma mi parve avvertire uno scrosciare
soffocato, diverso da quello che fuoriusciva dai getti della fontana.
«Ho sentito dire che voi giovani potete fare viaggi all’interno di
città simulate, grazie a nuove tecnologie. Potete visitare luoghi reali
sebbene situati nella parte opposta del mondo, oppure del tutto
immaginari e inventati, ciononostante riuscite a camminarci dentro
come se fossero veri.»
Non sembrava particolarmente entusiasta di queste alternative, a
dire il vero, comunque proseguì.
«Forse è un’opportunità in più per chi non ha la fortuna di
muoversi o viaggiare. Tuttavia mi chiedo che fine abbia fatto la
fantasia. Dov’è sparito quel soave incantesimo prodotto dal sentir
parlare di un luogo, o leggerlo e immaginare di trovarvisi dentro?»
Serrai le labbra nell’ascoltare quelle parole, sapevo che aveva
ragione e potei solo annuire in silenzio, con un cenno del capo.
Subito dopo m’invitò a fantasticare di potermi librare in volo con
lui sulla città e iniziammo a volteggiare come gabbiani, da un capo
all’altro di Catania. Il tono del suo parlare era caldo e trascinante,
variava spesso d’intensità nel descrivere le cose e io, con gli occhi
della mente, fui capace di scorgere ogni minimo dettaglio di tutto ciò
che mi mostrava.
Riuscii a visitare teatri, antiche terme, vecchie mura, strade, pozzi
legati a insolite e tristi leggende, come quella di una giovane donna
che per sfuggire alle attenzioni moleste di un suo corteggiatore,
aveva preferito gettarsi nel vuoto e lasciarsi inghiottire da quelle
fauci di tenebra.
In ognuno dei posti descritti, avevo l’impressione di potermi
avvicinare, dal basso o dall’alto, come più mi aggradava; ero in
grado di vedere dettagli, decorazioni, interni, esterni, dipinti
nascosti. Avevo quasi l’impressione di poterli toccare e mi sentivo
una visitatrice privilegiata, euforica ed ebbra da tutto quanto mi
stesse accadendo. Finché, sempre grazie alle ali della fantasia, il
nostro volo notturno cessò e atterrammo un’altra volta sul gradino di
quel palazzo, lì da dove eravamo partiti.
Nel riaprire gli occhi, mi sentii come se mi stessi risvegliando da
un profondo torpore, per cui per un attimo mi sorse il dubbio di aver
sognato ogni cosa.
Invece lui era lì, accanto a me, con il solito abito grigio elegante, il
papillon al collo, gli occhi fieri e i suoi modi fini da uomo d’altri
tempi.
«È ora di andare, ragazza mia.» Mi disse sollevandosi in piedi e
tendendomi la mano affinché mi alzassi anche io. Così iniziammo a
incamminarci lungo una via, non molto distante da lì, chiamata via
Sant' Anna.
«Ormai è proprio giunto il momento che io rincasi.» E ci
fermammo dinanzi a un antico edificio.
«Signor Giovanni» cercai di esprimergli la mia gratitudine, con
voce ancora tremula per l’emozione provata, – io non so come
ringraziarla e mi chiedo perché mai abbia fatto tutto questo per me.»
«Non saprei dire» mi rispose, «forse perché amo questa città e mi
dispiace che la gente possa andar via da qui senza aver goduto
appieno della sua bellezza, benché con attimi fuggevoli e un briciolo
di immaginazione. Magari perché vieni da una terra tutto sommato
molto affine a questa e siamo legati da un identico sentiero azzurro,
fatto di sale e acqua, o ancora perché condividiamo passioni simili,
chissà.»
Esitò un attimo prima di andarsene, poi mi parlò ancora e in quel
momento io capii ciò che in modo ottuso non avevo compreso fino a
quel momento.
«Forse l’ho fatto per ricordare alcune cose a voi, che vivete questo
secolo, affinché non smettiate di aver presente quanto è importante
la storia di chi è venuto prima; di chi vi ha condotti a quanto oggi vi
circonda. Per rammentarvi di scoprire ciò che è nascosto e al tempo
stesso di avere curiosità e meraviglia anche per quel che è sempre
sotto i vostri occhi; e soprattutto, di usare ancora la genuinità del
pensiero per sognare a occhi aperti, senza accontentarvi dei surrogati
prodotti da menti elettroniche.»
Aggiunse infine: «I giovani hanno la memoria corta, e hanno gli
occhi per guardare soltanto a levante; e a ponente non ci guardano
altro che i vecchi, quelli che hanno visto tramontare il sole tante
volte.» Poi si voltò, salutandomi con un gesto della mano.
Rimasi senza parole: «Che stupida, come avrò fatto a non
accorgermene prima» pensai, vergognandomi di me stessa.
Lo osservai entrare nel palazzo e varcare il portone, così senza
neppure aprirlo, con quella malinconica leggiadria che a volte hanno
i vecchi.
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Racconti di viaggio
Un Week End di primavera a Catania
da Zingarate.com
Autore: Patrizia
....Arriviamo all’aeroporto di Fontanarossa puntualissime, praticamente in anticipo. Ci attende un meraviglioso clima. Sfuggendo alla tentazione della vetrina de “I dolci di nonna Vincenza”, con cannoli e cassatine a dir poco invitanti, facciamo il biglietto per l’autobus (il 457) che in 20/30 minuti ci porta a Catania centro. E’ appena cominciata la mia mini vacanza ed ho già perso il senso del tempo!!
Da subito capiremo che la sede storica de “I dolci di nonna Vincenza” è proprio in piazza San Placido, dove si trova anche il nostro Bed & Breakfast. Questo è solo il primo segnale di quanto questa città sarà per noi una tentazione culinaria continua. E pensare che prima di partire stavo portando avanti, con un certo successo, una dieta dimagrante!!
Alle 15.00 l’autista del nostro autobus ci indica dove scendere ed in due minuti siamo al B&B. Dopo un attimo di confusione, generato da un gruppo in partenza (di cui però solo alcuni membri avevano alloggiato al nostro B&B), Lea e Francesco, i nostri padroni di casa, ci deliziano con tutta la loro cortesia, le loro premure e la loro ospitalità, in un ambiente solare e luminoso che risponde pienamente alle nostre aspettative.
Aspettative non tradite dopo aver visto il sito del B&B Bianca.
La nostra stanza ha ben due balconi che si affacciano sui tetti del centro storico, che scopriremo essere molto animato. Ammiriamo inoltre da qui la cupola del Duomo e scorgiamo il mare!! La finestra della cucina dà invece sulla bellissima facciata barocca della Chiesa di San Placido. Gli ambienti riflettono il gusto dei nostri ospiti, amanti dell’arte ma anche della praticità. Parquet, colori, ampi spazi, pulizia ed il calore di una casa vera. Cosa volere di più da un B&B? Vogliamo aggiungere due padroni di casa disponibili all’accoglienza e a condividere con i propri ospiti le proprie esperienze di vita? C’erano anche quelli!
E dalle esperienze di vita di Lea e Francesco abbiamo trovato ottimi spunti per la nostra corsetta mattutina e per i ristoranti da visitare. Ci mettiamo subito in “marcia”: alle 16.00 siamo già di nuovo fuori casa. Ci dirigiamo in centro con l’intenzione di farci subito un’idea della città. Il B&B è ad un passo da Piazza Duomo ma sbagliamo leggermente strada e, di vicolo in vicolo, ci ritroviamo in Piazza dell’Università.
In pieno sole, con i catanesi ed i turisti impegnati nel loro lento passeggiare e con un gruppetto di musicisti swing, l’aria di primavera dà alla piazza un ampio respiro. Passeggiata lungo la vivace via Etnea, arriviamo all’altezza di Villa Bellini. Prima di entrare nei meravigliosi giardini dell’’800, che il giorno dopo, tra alberi centenari e vialetti labirintici, ci avrebbero viste impegnate nella nostra corsetta mattutina, ci facciamo tentare da Spinella, storica rosticceria e pasticceria catanese: arancino al ragù, arancino al forno con spinaci, cartocciata e, per finire, un cannolo a testa. Gnam!!
La perlustrazione continua fino a ritornare, attraverso i bellissimi palazzi di piazza dell’Università, in Piazza Duomo. Ci accoglie O’Liotru, l’elefante in lava di epoca romana che sorregge un obelisco egizio e che è il simbolo della città. Il Duomo, a fianco a porta Uzeda, impera sulla piazza con la sua meravigliosa struttura barocca.
A colpirci, alla luce dell’imbrunire, sono i colori di questa città, così singolari, a richiamare i toni della lava dell’Etna. Ma è con la sera che ci abbandoniamo con tutti i sensi alla città. Seguiamo il consiglio dei nostri padroni di casa ed andiamo a mangiare all’Osteria De Fiore in Via Pietro Antonio Coppola, 24, nella zona di Piazza Bellini, dove si trova il bellissimo e ricchissimo Teatro Massimo.
In un locale rustico e che richiama in qualche modo l’idea di tempi antichi in cui le compagnie teatrali si ritrovavano lì al termine dei loro spettacoli, ci facciamo tentare dal menù ricco e tradizionale. Su questo, a più riprese, e soprattutto nella versione in inglese per turisti, troviamo chiarito che per alcuni piatti ci vuole tempo. Per fare le cose buone, tagliare le verdure, portare ad ebollizione, aggiustare la cottura, ci vuole tempo: abbiate pazienza!
Per la verità la nostra ordinazione arriva piuttosto velocemente o, per lo meno, secondo tempistiche che ben riflettono i nostri desideri ed il nostro stato d’animo. Caponatina per antipasto (decidiamo di non eccedere e ne dividiamo una in due), caserecce alla norma (il piatto forte della signora Rosanna. Fantastica pasta al pomodoro ricoperta da una deliziosa cupola di melanzane fritte che diventano bianche per una generosa spolverata di ricotta salata), caserecce al nero di seppia e un incredibile piatto di masculini alla brace! Mamma mia che bontà! Mai mangiate alici (qui dette masculini, appunto) così buone! Chiude il pasto una golosa mela fritta con uvetta e pinoli. Il tutto, insieme ad acqua e vino, per 34,00€… 17,00€ a testa!
Con i sensi di gusto e olfatto ben soddisfatti, girovaghiamo per soddisfare la vista. E di chiesa barocca in chiesa barocca, arriviamo al Castello Ursino in piazza Federico di Svevia. Scopriamo che un tempo il castello sorgeva su un isolotto la cui forma e natura è stata completamente trasformata dall’eruzione e dal terremoto del 1963. Difficile credere che fosse una struttura di difesa marina!! Decisamente un luogo molto suggestivo, nel bel mezzo della movida catanese alla quale decidiamo di prender parte, spostandoci di bar in bar, fino a tornare in piazza Bellini e, quindi, al nostro B&B. Si sono fatte le due…
La sveglia del sabato mattina è inclemente e d’altronde B. è più che decisa di andare a correre. Alla fine sarò felice di averla seguita. Per due motivi. Primo, perché scopro di potercela fare! Almeno 6, 7 km che mai avrei sospettato di poter sostenere. Secondo poi, perché la corsa dal B&B, in via Etnea e con 7 giri di Villa Bellini, ci danno una buona idea della vitalità mattutina dei catanesi. Sono già le dieci quando ci sediamo, dopo una bella doccia, nella “nostra” colorata cucina e ci abbandoniamo in “chiacchere da donne” con la nostra simpatica padrona di casa.
Rinunciamo alla luculliana colazione che ci avrebbero offerto volentieri (cornetti e dolci tipici del forno di piazza San placido, crostata e cappuccino) e optiamo per yoghurt e the quasi a presagio della necessità di tenersi leggere in vista dei pasti successivi… Ancora chiacchere con Lea e Francesco per i commenti sulla serata passata ed i piani della giornata incipiente. Qualche prezioso consiglio e decidiamo di dirigerci verso Aci Trezza ed Aci Castello. Prendiamo l’autobus 534 dal vicinissimo Piazzale Borsellino ma nell’attesa della partenza dello stesso, ne approfittiamo per curiosare al mercato del pesce (la Pescheria), a ridosso del Duomo (ed altrettanto vicino al piazzale della partenza del nostro autobus!).
Pesce di tutti i tipi, freschissimo, praticamente vivo, ad un prezzo imbarazzante per quanto basso! Ma non solo pesce! Tant’è che decidiamo di fare lo spuntino di mezza mattina con una bella ricottina fresca! Vabbè, è ora di mettersi sull’autobus. L’occasione è buona per spostarsi dal centro storico (via Etnea e viale XX Settembre) alla zona residenziale più chic (corso Italia) fino alla periferia più degradata per poi scendere lungo la costa più romantica con il villaggio di pescatori di Ognina. I circa 40 minuti di viaggio sono allietati dall’umanità varia che riempie tutti gli autobus del mondo.
Non starò qui a raccontarvi le vicende delle tre dodicenni che sono salite sull’autobus complottando alla ricerca della scusa migliore da presentare alla mamma di una delle tre, fino a quando la suddetta mamma ha telefonato sul telefonino della figlia Francesca (userò un nome di fantasia visto che è la fantasia la regina di questa storia); risponde però l’amichetta che, candidamente terrorizzata, dice: “Signora, Francesca è QUI a casa mia per pranzo ma ora è in bagno. La faccio richiamare non appena esce dal bagno”. In sottofondo i rumori assordanti dell’autobus, dei suoi motori, dei suoi freni e dei suoi occupanti!! Povere mamme d’Italia!
Arriviamo dunque ad Aci Trezza. Vi posso dire che, rapite dalle bellezze naturali, abbiamo dimenticato di visitare la Casa del Nespolo??!?!? Nel paese in cui Verga ha fatto vivere i suoi Malavoglia ed in cui Luchino Visconti ha ambientato il suo capolavoro verista “La terra trema”, con la partecipazione degli abitanti del luogo come attori, la cosa che più colpisce sono i famosi faraglioni che il povero Ulisse rischiò di trovarsi scaraventati addosso! Conformazioni di origine vulcanica che caratterizzano la costa ed il porticciolo di pescatori, colorato di barchette variopinte. Abbiamo dimenticato di vedere i luoghi dei Malavoglia (che d’altro canto sono solo ricostruzioni) ma non certo di degustare le delizie del posto.
Preoccupate di cadere in qualche trappola per turisti, siamo in realtà capitate in un ristorantino con vista mare a dir poco ottimo. Il nome non lo ricordo con esattezza purtroppo (forse Il Nespolo) ma ricordo con precisione la cortesia del proprietario e la bontà e la ricchezza dei nostri piatti. Per antipasto un freschissimo polpo in insalata ed alici marinate (si capisce che adoro le alici?!?!). Poi un misto di pesci alla brace (che bontà il calamaro!) e pesce spada alla brace, 2 bottiglie d’acqua, 2 caffè. Il tutto a 51,00€. Un po’ caro per i canoni catanesi ma assolutamente rispettabile per una romana e per una come me che viene da un posto turistico del basso Lazio dove a volte 51,00€ non bastano nemmeno per pagare il contro per una sola persona nei ristoranti di pesce!
Stiamo mangiando in abbondanza, non c’è che dire! …Ci sentiamo un po’ in colpa. Quindi decidiamo di raggiungere Aci Castello a piedi. Quando arriviamo, dopo una piacevole passeggiata lungo la costa, ci innamoriamo! Il Castello normanno, in lava nera, adorna una bellissima piazzetta che affaccia sul mare. La chiesetta e la facciata del municipio, entrambe molto belle, richiamano elementi della vita comune che giustificano i crocicchi di adolescenti del sabato pomeriggio, le coppiette sulle panchine, i papà che insegnano ai figlioletti come andare in bicicletta…
E’ ora di tornare a Catania. Gli ottimi autobus AMT, con i loro orari sicuri, ci offrono un passaggio alla modica cifra di 1€ per un biglietto da 90 minuti. A Catania ci ritroviamo in Piazza Duomo… ammiriamo gli interni del duomo e non perdiamo tempo: decidiamo di prenotare un tavolo per cena all’Ambasciata del Mare che è proprio all’angolo opposto al Duomo, a ridosso della Pescheria. Tavolo prenotato. Ma la serata ci porterà altrove. Quando saremo in via Santa Filomena non potremo fare a meno di disdire la prenotazione all’ambasciata a favore di uno dei locali di quella via.
Ci troviamo là perché sono curiosa di vedere “Ibridi”, lo shop corner di un giovane designer catanese, già oggetto di attenzione in diversi articoli di riviste di moda o in rubriche televisive. Il proprietario ha decisamente una personalità spiccante. Il negozio è molto stuzzicante. Peccato trovare solo pochi pezzi rimasti dall’ultimo appuntamento vintage. Giro quindi la mia attenzione su un paio di orecchini disegnati dal nostro amico e prometto di mantenere i contatti tramite Facebook (e come, se no?!?)…
Chissà che non ci sia poi qualcuno nella mia città disposto a prendere contatti per vendere gli oggetti di Ibridi. Ma è ormai ora di cena e ci fermiamo alla Polpetteria, sulla stessa strada, qualche numero civico più in là. Non saprei dire se siamo state meglio per l’ottimo cibo, la buona birra artigianale, il locale di atmosfera o il personale simpatico (e anche carino!), fatto sta che ci tornerei anche ora! Segnalo però qualcosa di quello che abbiamo preso perché si tratta di piatti originali e gustosi. Anzi, non voglio tralasciare proprio nulla! Quindi, frittatina con amareddi (verdure amare), polpette di pollo con salsa al curry e riso basmati, polpette di calamari alla Eoliana e, dulcis in fundo, cheese cake e fedora… Volete sapere cosa sia la torta fedora? E’ semplicemente il peccato di gola più peccaminoso a cui possiate pensare: strati di pan di spagna, ricotta con scaglie di cioccolata, panna e mandorle tostate a sfoglie. Devo aggiungere altro?
La serata continua nel turbinio della mondanità frivola e un po’ freak-ketona della magica Katanè. Nonostante tutto anche questa sera riusciamo a fare tardi! Fortunatamente abbiamo deciso di non andare a correre la domenica mattina. Sarà una domenica all’insegna del relax. Ci trascineremo fin da Spinella per concederci gelati e cassate ma la nostra verve si limiterà a questo. Certo non prima di aver goduto del sole di Piazza Bellini, al cospetto dell’elegante Teatro Massimo.
A metà pomeriggio siamo sufficientemente riposate per avviarci con l’autobus 457 all’aeroporto. Solo qui, quando realizziamo che il nostro volo ha due ore di ritardo, veniamo a sapere che quella mattina l’Etna ha eruttato. Evidentemente da una bocca sul versante opposto a quello che domina Catania perché noi non ci siamo accorte di nulla! E certo non avremmo potuto capirlo da altri segnali visto che questo vulcano non si è lasciato scoprire più di tanto. Lo ammetto, è colpa nostra: non abbiamo organizzato nemmeno una gitarella sull’Etna! Ed abbiamo perso l’occasione di vederci il più grande vulcano attivo d’Europa? No, tranquilli: nessun occasione persa, solo rimandata. Perché in questa città val la pena di tornare!!
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CATANIA e DINTORNI
da: callmeleuconoe.wordpress.com
di Veronica Adriani
.....Non che fosse la mia prima volta in Sicilia. La mia, più che una scoperta, era una riscoperta di cose che avevo visto con occhi da bambina. Novità: non ero più sul sedile posteriore a guardare le cose dal finestrino, ma al volante ad evitare i pazzi che si lanciavano tra le macchine senza guardare. Non più trainata dalla famiglia, ma padrona delle mie scelte: dei miei soggiorni, delle mie cene, delle mie rotte improvvisate. E, soprattutto, di nuovo sul mare, che per scelta mia o per necessità involontaria, negli ultimi anni mi è stato un po’ troppo lontano.
Catania l’ho vista, per la prima volta, con la guida di tre catanesi DOC. Ho assaggiato la sua pizza alta, morbida, condita come mai sarebbe pensabile a Roma, e quella granita spumosa, in porzioni da gigante, che ti fa rimpiangere ogni volta che hai definito “granita” quell’ammasso striminzito di ghiaccio e sciroppo che vendono nei bar della tua città. Ho giocato a slalom con gli automobilisti locali, che professano ad ogni movimento di ruota la più totale, sistematica e netta strafottenza per ogni forma di regola del codice della strada. Ho visto la pietra lavica sui muri delle case, perché Catania, la nera, è figlia dell’Etna, che mentre ti minaccia di portarti via la casa con un fiume di lava, ti regala una terra fertile che è la più verde di tutta la regione. Una sorta di compensazione, di rimborso danni di stampo naturalistico.
L’Etna, che “è cresciuta negli anni”, mi dicono, perché per i catanesi è femminile pure se è un vulcano, è una montagna che appena ci arrivi su ti pare di stare sulla Luna, tra le nuvole che ti inghiottono e un freddo che ti taglia le mani. Sali lungo le curve come se stessi cambiando pianeta, con la terra che ti diventa nera sotto i piedi. Se ti affacci dall’alto, quando c’è il sole e il cielo è limpido, domini tutto il golfo. E allora lo capisci, perché è così importante, quel mostro fumante che vorresti guardare fin dentro la bocca – se il tuo portafoglio o il giusto connubio di gambe&fiato te lo permettessero, visto che con la macchina si arriva solo a metà strada: perché è lui il padrone. Catania, che vive tra il mostro e il mare, l’ha capito, e lo rispetta: galleggia, con le sue regole e la sua vita. Galleggiano anche i paesi che sorgono ai piedi della montagna, quelli che la lava la vedono passare, e che spalano la cenere che si deposita all’entrata delle case proprio come ad Asiago spalano la neve. E il perché lo facciano è nelle parole di una signora di Zafferana: “Noi siamo aperti, solari, fatalisti. Abbiamo avuto tutte le dominazioni possibili e viviamo ai piedi dell’Etna”. Come a dire: ce l’abbiamo nel DNA, fate un po’ voi.
Vicino all’Etna scorre il fiume Alcantara, che ha scavato dei passaggi nelle montagne, lasciando delle tracce che oggi sono diventate un parco naturale. Se hai visto quelle del Vintgar in Slovenia, le Gole dell’Alcantara sembreranno poca cosa. Ma per i siciliani, più che lo spettacolo naturale della montagna che si apre, conta l’acqua gelida in cui si immergono, scendendo dall’entrata comunale gratuita per trovare un po’ di fresco nella calura estiva. Per addentrarsi nelle gole e vedere l’acqua dall’alto, c’è un percorso obbligato. Mi affaccio tra la montagna e l’acqua che scorre sotto, e il geologo del gruppo mi spiega che sto osservando dei basalti colonnari, che sembrano dei parallelepipedi lanciati in orizzontale nella parete, e incastrati lì aspettando tempi migliori. Belle, le gole, ma il pensiero è immediato: da piccola mi erano sembrate tutt’altra cosa.
Se Catania è una proletaria ribelle, Taormina è aristocratica per (pro)vocazione. Lei, il vulcano non la tocca: vive la sua storia millenaria circondandosi in egual misura dei fasti del passato e dei negozi di souvenir, totalmente disinteressata alle sorti degli onnipresenti visitatori. Assaltata da turisti incoscienti, più attratti da ceramiche e magliette stampate col volto di Don Vito Corleone che alla bellezza del Teatro Greco, sfrutta la massa e coglie il momento. Non dà più informazioni storiche di quelle indispensabili, ma è prodiga di scacciapensieri, ceramiche e calamite da frigo, alternati alle boutique e agli hotel di lusso da sempre – e per sempre – pieni di raffinati e facoltosi avventori. Si affaccia sull’Isola Bella, da cui la separa solo un lembo di terra spesso sommerso dall’alta marea. Sulla spiaggia una sequela di bar, scomodi ciottoli e barche pronte a salpare per la vicina grotta azzurra e il faraglione che ha fatto la fortuna di un locale a tema.
Dopo lo struscio forzato sul corso – nel mio caso persino privo di sole – non restano che due modi per riprendersi: il primo è affacciarsi dagli spalti verso lo squarcio sulla scena, che offre una doppia vista sul mare – con GiardiniNaxos, tanto bella da lontano quanto deludente da vicino, e sull’Etna. Il secondo è infilarsi tra i vicoli in prossimità del Teatro, alla ricerca del laboratorio di pasticceria di “Roberto, il mago del cannolo”. Chiamatemi superficiale, ricordatemi che da morta finirò nel girone dei golosi, ma io la penso così: immergersi in un lago di ricotta dolce impastata con tante gocce di cioccolato è il modo migliore per dimenticare il turismo di massa e salutare le province di Messina e Catania per partire alla volta di Palermo. Ma questa è un’altra storia.
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