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Nomignoli, pecchi, ‘n giurie nel linguaggio catanese

da: ilprismatico.it

 

Storia di “pecchi” a Catania:  Comu ti sanu sentiri?

 

 

L’hanno già ribattezzata Il muro del pianto.  Sorta al posto del Cavalcavia del Tondo Gioeni, la fontana ancora in costruzione ha già il suo bel nomignolo. 

 

Nomignolopecco, ‘n giuria, chiamiamola come vogliamo, tanto la sostanza non cambia. Il cittadino catanese, unico al mondo per liscìa, le cose Comu ‘i viri ‘i scrivi.  

 

 E così che nell’antica toponomastica registriamo siti meglio conosciuti col loro Soprannominu:  ‘L’avvulu rossu, ‘u chianu ‘a statula, ‘a Potta Jaci, ‘a Badiedda e così via. Esiste persino ‘a vanedda ‘i cacati, perfettamente accessibile, malgrado tutto,  anche a piedi.

 

E che dire allora dei monumenti? Neanche loro sfuggono alla regola. Come per l’elefante simbolo di Catania, detto  ‘U Liotru, anche altri. Da “A Tapallira ‘do Buggu (la dea Pallade o Cerere) o Re a cavallu ( Re Umberto Primo di Savoia) fino ad arrivare             ‘O panzutu ( La statua di Garibaldi, di fronte la villa Bellini) ce n’è per tutti i gusti. 

 

Succede con i luoghi, con i monumenti e non succede con gli uomini?

 

Fa parte del senso pratico-umoristico dei catanesi affibbiare i nomignoli, ovvero I pecchi.

 

Pecchi perché il destinatario il più delle volte era afflitto da una pecca fisica:  ‘U sciancatuL’ ovvu; ‘U Jetticu; ‘U stortu, ‘U Babbaleccu.  Ma è solo questo? No, è tanto altro.

 

Basta poco per diventare destinatario di un pecco; e una volta affibbiato, poi,  non solo resta a vita, ma passa alle generazioni successive di eredità ereditoria, come si diceva una volta.

 

Impossibile schedarli tutti i pecchi, ci vorrebbe un’intera biblioteca e più.

 

Il padre della demopsicologia, Giuseppe Pitre’ (Palermo 1841-1916), tenendo conto delle caratteristiche dei popoli, dettò la sua sentenza: Mangia trunza ‘i jacitani; Lazzaruni i missinisi; Spati e cutedda i palermitani; Pedi arsi i catanisi. 

 

Mia nonna mi raccomandava:  Attento a non ripetere sempre le stesse coseCammina sempre con la schiena  drittaEvita qualsiasi atteggiamento che ti faccia sembrare un po’ strano, sennò ti mettono il pecco.

 

Eppure….   In presenza di pecchi infamanti, non si sa mai quale potrebbe essere la reazione del destinatario. Dalle nostre parti, invece, si usa l’infallibile metodo dell’indifferenza: Non dari sazio a nuddu.

 

Una nota trattoria catanese che oggi ha cambiato gestione, deve gran parte delle fortune all’ostentazione della pesante  ‘Ngiuria di cui era possessore il titolare. La frequentarono politici, artisti e noti professionisti. 

 

Dalla storpiatura del cognome al mestiere praticato; dalla forma fisica, alla città ( o al Paese) di nascita, chi il pecco ce l’ha è destinato a tenerselo. Maschio o femmina, non c’era alcuna differenza.

 

Quelli che oggi chiamano pecchi sessisti, allora erano di moda soprattutto nel popolino. Al tempo delle Case chiuse, sulla scia ‘da zza Mattia (nota maitresse), tre erano le donne più…gettonate: Maria a SputaciancuAnna accupu e ‘A Bulugnisa.

 

Dal più sciocco al più geniale, il pecco è sempre  elemento distintivo. Gli artisti bollati col nomignolo ve ne furono tanti: l’incisore Antonio Zacco, noto come  ‘U scimmiuni baffutu, ne andava fiero del suo.

 

I politici? Tanti; molti dei quali dai nomignoli  impronunciabili.  Alì Babà e i sessanta ladroni andò di moda in senso più generale dagli anni ’60 in poi. Quello benevolo fu riservato all’on. Giuseppe De Felice, meglio conosciuto come Nostru Patri. Ciò perché l’era defeliciana coincise col massimo sviluppo della città di Catania. 

 

I demopsicologi che si sono occupati di questa materia, hanno sempre ritenuto che tale fenomeno origini dalla comparsa dell’uomo sulla terra. Usare il nomignolo a volte  diventa una necessità. In presenza di due individui della stessa cerchia parentale e dal nome simile, infatti, si cerca un Codice identificativo diverso. 

 

A Chioggia, nel veneziano, per esigenze demografiche il nomignolo è stato ufficialmente adottato a corredo anagrafico delle famiglie del luogo. Per ogni strato sociale c’è una tipologia di attribuzione. Nelle piccole comunità, quasi tutti i componenti vengono individuati attraverso il pecco. Alla domanda: Unni sta tiziu? Segue quasi sempre: “Comu ‘u sanu sentiri!!?? 

 

Nelle famiglie malavitose è diffusissimo. Si tratta di un retaggio atavico che segna l’appartenenza a una famiglia piuttosto che a un’altra; a un clan piuttosto che a un altro. Nella tipologia mafiosa è come possedere un nome di battaglia.

 

Con l’andar del tempo rileviamo una modernizzazione di questo fenomeno.  La sua tipologia muta col mutare delle condizioni sociali. Oggi è più facile trovare un Turi ‘u camionista piuttosto che un Turi ‘U carrittieri, proprio perché quest’ultimo mestiere è pressoché scomparso.

 

Quando i telefonini non esistevano, era impensabile incontrare un Melo l’iPhone o un Araziu on line. Meraviglie del progresso. A Catania continuano  a resistere i miti come a Peri Peri, il lenone ucciso a pistolettate negli anni ’60 dello scorso secolo, al quale le donnine eressero un altarino nel vecchio San Berillo a perenne memoria; e soprattutto “Pippo Pernacchia”, l’artista del “flatus sonorum”,  un vero mito, per il quale è stato proposto un monumento alla Catanesita’.

 

 

 

da: newsicilia.it

 

 

Quando nome e cognome non sono sufficienti:

ecco i “pecchi” catanesi

 

 

"Comu ti sanu sentiri?"

 

Nella tradizione catanese, fino a poco tempo fa (sebbene in alcune parti ancora sia ancora in uso), il cognome e il nome non erano sufficienti a identificare con esattezza un soggetto, neppure nella forma abbreviata. Niente di niente. Così sono nati i “pecchi” o “‘ngiurie” o “nciùriu” o “peccùru“, nomignoli o soprannomi derivanti o dalla storpiatura del cognome/nome, dalla forma fisica, dal lavoro svolto, da una caratteristica che spicca o ancora da un’abitudine incontrastata.

 

In un solo termine veniva racchiuso tutto, disegnando una persona, “etichettandola”: dai difetti ai pregi, rappresentava un modo per sapere con esattezza di chi si stava parlando (o sparlando). Ad ognuno, quindi, il suo, quasi come una carta d’identità o, per meglio dirla in catanese, era un modo per rispondere alla domanda: “Comu ti sanu sentiri?“. Spessosi estendeva anche al resto della famiglia e agli eredi.

 

 A titolo esemplificativo, eccone alcuni:

  • A babba (la finta tonta);
  • A badduzza (la grassa);
  • A cammisara (la camiciaia);
  • A causunara (la pantalonaia);
  • A lurdda (la sporca);
  • A ‘mbriaca (l’ubriaca);
  • A musca (la mosca);
  • A ‘nchiappata (l’impacciata);
  • A pigghia e potta (la pettegola);
  • A pilusa (la pelosa);
  • A sdisiccata (la magra);
  • Codd’i mulu (qualcuno duro come il mulo);
  • Cuttigghiaru (pettegolo);
  • Cutuletta (per le orecchie a sventola);
  • Facc’i cavaddu (faccia di cavallo);
  • Frittulicchiaro (impiccione);
  • L’ovvu (il cieco);
  • Nas’i pipa (naso a pipa);
  • Pagghiolu (uomo infantile);
  • Panzazza (pancia sporgente);
  • Peri tunni (piedi rotondi, che cade sempre);
  • Pup’i pezza (pupo di pezza, uomo che non vale niente);
  • Sdintatu (sdentato);
  • Test’i lignu (testa di legno, testardo);
  • Tinagghia (avaro);
  • U ballunaru (che racconta bugie);
  • U pagghialoru (che lavora la paglia);
  • U putiaru (che gestisce l’osteria);
  • U scemu (il ritardato);
  • U sciancatu (lo zoppo).