Antonino Di San Giuliano Paternó Castello (Catania 1852 - Roma 1914) era sicuramente un abile statista di statura europea, che rappresentò e tradusse in efficaci azioni diplomatiche le tendenze imperialistiche, maggioritarie in Italia nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale.
Vittorio Emanuele III, che pur non amava i diplomatici (Si occupano moltissimo di decorazioni, di precedenze, di etichetta, ma assai poco delle cose più sostanziali), affermava che soltanto il marchese di San Giuliano possedeva l'acume, la preparazione, la cultura per innalzarsi al di sopra di tutti. E Giolitti, che lo ebbe nel suo ministero proprio negli anni in cui lo statista catanese, con la sua azione politica e diplomatica, riusciva a consolidare il prestigio internazionale dell'Italia, scriveva che San Giuliano era uomo di pronto ingegno, sottile ed equilibrato e che si era fatto rapidamente, per la politica estera, una larga e sicura preparazione.
E con compiacimento aggiungeva che il marchese era particolarmente felice nelle sue esposizioni e nella redazione dei documenti diplomatici. Una chiarezza di
pensiero e di linguaggio che in lui era innata e che mantenne intatta anche sul finire della sua vita, avvelenata da lutti familiari e da una gotta che lo tormentava. Quando, dal banco del
governo si alzava a parlare, riusciva a tenere desta l'attenzione dell'uditorio e tutti lo ascoltavano in un silenzio quasi religioso, perché avevano sempre qualcosa da apprendere anche quando
erano in aperto dissenso con lui. E' lucido e preciso - annota Ernesto Rivalta – anche quando si abbandona a qualche rapida
improvvisazione: tanto é in lui la padronanza della materia e della lingua. E' stato sempre così. Anche nei suoi antichi discorsi da deputato non si trovano le sbrodolature delle divagazioni, non
reticenze furbesche e nemmeno quel procedere a enigmi per darsi il tono di conoscere i misteri più o meno eleusini della diplomazia internazionale. Egli nemmeno allora declamava: non si
sbracciava e non si compiaceva - risorta Cassandra - di fosche profezie idropiche, di cataclismi più o meno lontani. Nutrito di studi classici, dal linguaggio aristocraticamente fine, conoscitore
di arte e di artisti, sa trarre anche fuori della politica motivi di calda eloquenza.
San Giuliano (la grafia Sangiuliano, più comune, è errata) aveva cominciato a farsi le ossa per tempo con uno studio e una pratica della politica e dell'attività
pubblica. Le sue cariche e i suoi uffici si susseguirono poi in progressione aritmetica: avvocato, sindaco di Catania (27 novembre 1879 - 25 marzo 1882) ad appena 27 anni non per censo
(apparteneva a una delle più illustri famiglie siciliane) ma per riconosciute capacità amministrative, deputato ininterrottamente per sette legislature dal 1882 al 1905, senatore dal 1905,
ambasciatore (a Londra, 1906-1909, e a Parigi, 1909-1910), uomo di governo prima come sottosegretario all’Agricoltura (15 maggio 1892 - 24 ottobre 1893) nel primo governo Giolitti (ministero dal
quale fu costretto a dimettersi perché travolto dallo scandalo della Banca romana), poi come ministro delle Poste e Telegrafi (14 maggio1899 - 24 giugno 1900) nel secondo gabinetto presieduto da
Luigi Pelloux e, quindi, all'apice della sua vita politica, in quella sfera dove avrebbe dato il meglio di se stesso, perché gli era più congeniale, come ministro degli
Esteri, prima nel breve ministero Fortis (25 dicembre 1905 - 8 febbraio 1906) e poi ininterrottamente dal 31 marzo 1910 alla morte con
Luzzatti, Giolitti e Salandra.
Come capo della diplomazia italiana egli sviluppò un'azione internazionale con le già dette spiccate tendenze imperialistiche, profondendo tutto il suo ingegno ed impegno politico. La
guerra per la conquista della Libia (1911) fu suggerita (meglio: voluta) da lui. Proprio in questo periodo, attraverso la conquista della quarta sponda(mirata, secondo
le sue intenzioni, ad aprire nuove possibilità di lavoro agli emigranti del Mezzogiorno d'Italia) e l'insediamento nel Dodecanneso, poté vedere realizzate
le aspirazioni verso l'espansione italiana in Africa e in Oriente. Con questo disegno egli volle che la politica italiana fosse quella di una grande potenza,
preoccupandosi di tenere con dignità e fermezza una posizione autonoma sia di fronte alle potenze occidentali sia di fronte agl’Imperi centrali (Pietro Silva). Un atteggiamento che
consacrò con questa frase pronunziata alla Camera dei deputati un anno prima della morte: Per l'Italia i giorni della politica remissiva sono passati per sempre e non torneranno mai
più.
Era il periodo, quello, in cui si trovò a fronteggiare e a bloccare le aspirazioni della Grecia (appoggiata da Francia e Gran Bretagna) sul Dodecanneso e sull'Albania
meridionale e, quindi, sul basso Adriatico, riuscendo a imporre la formazione di uno Stato albanese indipendente. Nello stesso tempo (dicembre 1912) rinnovava con due anni di anticipo sulla
scadenza la Triplice Alleanza.
Quando il dramma di Sarajevo venne a determinare lo scoppio della crisi già da tempo maturante -scrive ancora Pietro Silva - si trovò d'accordo con Salandra
nella decisione della neutralità. Nel successivo breve periodo di vita, per quanto straziato dai dolori dell'artrite, gettò le basi della duplice azione che poi doveva riprendere e
sviluppare il suo successore Sonnino: l'azione per rivendicare in base all'articolo VII della Triplice i compensi dall'Austria, che attaccando la Serbia aveva spostato
la situazione balcanica, e l'azione per la preparazione dell'intervento dell'Italia a fianco dell'Intesa contro gl'Imperi centrali. Ma, a questo punto, lo colse la morte. Spirò al tavolo di
lavoro, nel palazzo della Consulta, il 16 ottobre 1914, mentre nell'anticamera del suo gabinetto, ambasciatori e ministri attendevano di essere ricevuti. Qualche giorno prima, uno di loro gli
aveva detto preoccupato: Eccellenza, la Romania vorrebbe muoversi... . E lui di rimando: " si vede che sta meglio di me, io non posso nemmeno alzare una gamba. Sapeva trovare la battuta giusta
per sdrammatizzare gli eventi e non suscitare allarmismi, così come per smorzare gli eccessivi entusiasmi. Era un uomo malinconico e instancabile, nonostante le atroci sofferenze: Colpito dalla
gotta - dice un suo biografo, - addolorato per la morte della moglie, avvenuta nel 1896, e più tardi di quella del suo unico figliolo, Benedetto, cercò nelle cure delle sue missioni di appagare
il suo spirito operoso e consumò le già logore forze in un lavoro intenso e febbrile. Ed ecco un quadro da lui stesso dipinto, sul suo carattere, in alcune righe di una lettera: La mia vita
incominciò fra i sorrisi e purtroppo fra le illusioni bugiarde; mi credevo ricco e contrassi molti bisogni; non mi mancava l'intelligenza, la coltivai, e intelligenza e cultura produssero
l'effetto necessario e inevitabile di ingenerare aspirazioni che mi resero e mi rendono insopportabil la vita in quel guscio d'ostriche senza luce d'intelletto che è
l'isola nostra.
La sua salma, con grandi onori, venne portata a Catania ed esposta nel palazzo avito, in piazza dell'Università, di fronte al Siculorum Gymnasium, che
aveva ospitato sovrani e principi di tante Nazioni e che pertanto era considerata la piccola reggia della città. San Giuliano, collare della Santissima Annunziata e quindi cugino del
re, venne sepolto nella cappella della nobile arciconfraternita dei Bianchi. Al suo illustre figlio Catania ha dedicato un busto al giardino Bellini e una delle più belle vie del
centro cittadino.
San Giuliano fu anche uno scrittore di notevole ingegno. Di lui restano (come testimonianza della vigile cura dimostrata verso i problemi orientali) le Lettere sull'Albania
pubblicate prima sul Giornale d'Italia e poi raccolte in volume (furono redatte durante uno dei suoi frequentissimi viaggi che lo portarono nelle capitali di mezzo
mondo), e, come documento della scottante realtà dell'isola natia, due studi: Le tristi condizioni dell'economia in Sicilia e Le condizioni presenti della
Sicilia (era il periodo in cui l'isola era sconvolta da fermenti sociali che avevano portato alla costituzione dei fasci siciliani).