Nacque il 22 agosto 1750 da Giuseppe, mercante di legna, e da Apollonia Arcidiacono. Terzo di sette figli, era stato destinato al sacerdozio e, a tale scopo, entrò nel seminario arcivescovile, che era a quel tempo la più importante scuola della città.
Ne usci all'età di 23 anni, nel 1773, e il padre, vista fallita la vocazione sacerdotale del figlio, avrebbe voluto avviarlo alla professione forense, ma anche questo tentativo falli,
perché il giovane Domenico preferì proseguire nella strada degli studi umanistici.
Tradusse alcuni classici latini (Livio, Orazio, Tacito, Virgilio), e lesse attentamente Machiavelli e Guicciardini, insieme coi maggiori poeti italiani da Dante fino ai suoi contemporanei. Ma é
da rilevare anche la particolare attenzione dedicata ad alcuni tra i più discussi rappresentanti della cultura francese, come Carlo Rollin (1661-1741), il quale da
figlio di coltellinaio era diventato rettore dell'università di Parigi, e Antonio Goguet(1716-1758), che aveva tentato di affermare uno stato di natura sulla base
dell'etnografia, dimostrando che le idee discendono sempre dai fatti. Ben presto il Tempio acquistò fama di buon poeta e fu accolto nell'Accademia dei Palladii e nel
salotto letterario del mecenate Ignazio Paternò principe di Biscari. Dopo la morte del padre (1775), fu costretto a trascurare gli studi per continuarne l'attività
commerciale, ma gli affari andarono male e contrasse debiti, senza riuscire a raddrizzare il bilancio. familiare.
Perduta anche la madre, sposò certa Francesca Longo, che morì nel dare alla luce una bambina. Allora prese una balia per la figlia, la gnura Caterina, che diventò
la sua compagna fedele e gli diede un altro figlio, Pasquale. Nel 1791 fu nominato notaio del casale di Valcorrente, ma forse non prese mai possesso di questo ufficio.
Pochi anni prima di morire ottenne una pensione sul Monte di pietà e sulla Mensa vescovile, poi anche un sussidio dal Comune di Catania. Morì il 4 febbraio 1820.
Domenico Tempio è da considerare il maggiore poeta riformatore siciliano, la cui voce si leva contemporaneamente a quella del Parini in Lombardia. Egli fu ammirato e lodato dai suoi
contemporanei, ma dopo la morte la sua opera fu quasi dimenticata, tranne alcuni componimenti di carattere licenzioso che, pubblicati alla macchia, gli diedero ingiusta fama di poeta
pornografico. Con la ripresa degli studi sul Settecento siciliano, dopo la seconda guerra mondiale, anche l'opera del Tempio è stata rivalutata e sottoposta a un serio esame critico. L'educazione
del Tempio, come s'è visto, era fondata sulla base di uno schietto illuminismo con una forte componente classicistica. La sua lingua (tranne qualche rara eccezione) è quella siciliana, e conferma
una lunga tradizione di autonomia linguistica e letteraria che, dal volgare siculo, si estende fin quasi ai nostri giorni. La poesia tempiana vuol essere libera,
denuncia i vizi e le malvagità degli uomini, e addita nell'ignoranza la prima causa di ogni male (Odi supra l'ignuranza). La sua
satira, spesso aspra e pungente, mira al rinnovamento morale della società e al riscatto degli uomini dalla miseria, ma i valori poetici emergono spesso al di sopra delle intenzioni.
Così accade nelle favole, dove il ritratto si trasforma in paesaggio umano, e nei poemetti, dove l'episodio si apre alla contemplazione della natura. Nel poemetto La Maldicenza sconfitta difende la libertà della poesia e l'indipendenza del poeta; in Lu veru Piaciri combatte ogni falsità ed esalta l'operosità dell'uomo; nella Mbrugghereidicondanna le malefatte di un prete imbroglione; nel ricco canzoniere tende a smitizzare il quadro di una Sicilia arcadica e felice per avviare un lento ma sicuro processo verso il realismo, onde anche la malinconia diventa dolore della natura. I bozzetti drammatici (La scerra di li Numi, Lu cuntrastu mauru, La paci di Marcuni, Li Pauni e li Nuzzi) degradano l'Olimpo al livello delle spicciole miserie umane.
L'opera maggiore di Domenico Tempio é il poema La Caristia (in venti canti e in quartine di settenari), dove il poeta descrive i tumulti popolari cui diede
luogo, a Catania, la carestia del 1797-98. Nella sommossa che divampa si aggirano, finalmente in funzione di protagonisti e non più di schiavi diseredati, le figure spettrali degli affamati. La
Carestia, sopra il suo carro stridente, si aggira tra una folla di disperati famelici, che ondeggia e irrompe con furia irresistibile. I brani lirici si inseriscono nella tragedia come parentesi
di pace e di abbandono, creando uno sfondo amoroso che è il mondo vagheggiato, ma non raggiunto, dal poeta. Ognuno di quei pezzenti rivoluzionari ha una sua triste storia da raccontare, ed è il
complesso di tutte queste storie umane che determina l'unità e la genuinità del poema. Se Giovanni Meli è il maggiore rappresentante dell'Arcadia siciliana, Domenico Tempio è l'interprete più
efficace di quei fermenti rinnovatori che erano penetrati ampiamente nell'Isola nel corso del sec. XVIII.
L'impulso naturalistico impresso alla cultura siciliana dal Tempio tra Sette e Ottocento attenuerà le risonanze romantiche nella Sicilia greca e determinerà, sullo stesso piano morale
e nello stesso ambiente catanese, la ripresa veristica di fine secolo.
L'edizione delle poesie tempiane fu pubblicata, vivente l'autore, a cura di Francesco Strano, col titolo Operi di Duminicu
Tempiu catanisi (Stamparia di li Regj Studi, Catania, 1814 tomo I e II, 1815 tomo III). Il poema La
Caristia fu pubblicato postumo, a cura di Vincenzo Percolla (1848-49). Altra edizione delle Poesie di Domenico Tempio poeta
siciliano, con l'aggiunta di inediti, é quella del Giannotta in 4 volumi (1874). Le poesie licenziose furono raccolte da Raffaele Corso (1926). Un'ampia
silloge è in Opere scelte, a cura di Carmelo Musumarra, con un saggio su Domenico Tempio e la poesia illuministica in
Sicilia(1969); altra edizione, della Caristia e delle Favole. Odi.
Epitalami. Ditirambi. Altro vino, a cura di Domenico Cicciò, é del 1968. Due ricchi volumi, con
saggi introduttivi e commento di Vincenzo Di Maria e Santo Calì (Domenico Tempio e la poesia del piacere) contengono Lu
veru piaciri e le poesie licenziose (1970).