Uomo politico, giornalista e oratore (Catania 1859 - Acicastello[Catania] 1920). Fu il più autorevole e amato esponente delle idee socialiste a Catania nel periodo dall'unità d'Italia all'avvento del fascismo.
Dotato di un eccezionale potere, quasi carismatico, di trascinare le folle, riuscì a crearsi una popolarità immensa nella sua città e nella Sicilia tutta. Fu variamente giudicato e non restò immune da sospetti di atteggiamenti demagogici e teatrali (ogni 1° maggio, per esempio, si dice accompagnasse gli elettori sotto la casa di Mario Rapisardi, il vate del progresso civile); gli sono però universalmente riconosciuti uno sconfinato amore per la sua terra, un desiderio ardente di riscatto economico e sociale per le classi umili del popolo; una disponibilità fatta di affetto sincero e disinteressato verso la sua gente. Antonio Labriola, in una lettera a Engels del 1° luglio 1893, lo definiva quel buontempone di De Felice. E Giolitti, nelle sue Memorie, così si esprimeva su di lui: Non possedeva molta cultura, e la sua indole era piuttosto di un agitatore popolano.
Nato di umile famiglia, rimase ben presto orfano di padre, e trascorse gli anni della fanciullezza nell'ospizio di beneficenza (meglio noto a Catania come ‘u cummittu). Da giovane, per sfamare la famiglia e mantenersi negli studi, esercitò numerosi mestieri: venditore di vino, piazzista di macchine da cucire, tipografo; arrivò persino a suonare il bombardino in una banda. Laureatosi in giurisprudenza, superò gli esami per procuratore legale; ma non esercitò mai la professione forense, e preferì accettare un posto di archivista in prefettura. Da quell’incarico fu peraltro rimosso dopo poco tempo, a causa dei continui attacchi polemici da lui lanciati verso le autorità locali. Inoltre, le accuse di conservatorismo ch'egli non risparmiava al municipio gli procurarono diversi processi; e, tra l'altro, in un'occasione i rappresentanti del Comune erano riusciti a farlo condannare per falso (giacché per evitar di testimoniare contro un suo amico aveva prodotto un compiacente certificato medico); allora egli, per sottrarsi alla cattura, si era rifugiato a Malta. L'episodio procurò al De Felice numerose simpatie presso l'opinione pubblica, che considerava ingiusta la condanna, tanto che alle elezioni del novembre 1892 egli riuscì eletto deputato, unico siciliano tra i socialisti: e una strofetta popolare così commentò l'avvenimento: Di Filici è gghiutu a Marta / ppi non essiri carzaratu, / a facciazza di Carnazza / lu ficiru diputatu!. Il ritorno in Sicilia fu un vero trionfo. Il temperamento battagliero lo portò a considerare, in ogni momento della sua esistenza, l'importanza insostituibile del giornalismo.
A poco più di vent'anni, nel 1880, fondò il settimanale politico Lo staffile, il cui titolo ben rispecchia la violenza polemica del suo contenuto; e, dopo qualche anno, l'altro settimanale L'unione, sorto come organo del Circolo repubblicano, e divenuto poi organo del lavoro di Catania. Dopo essere stato collaboratore di alcuni importanti organi di stampa di interesse nazionale .(fu inviato a Parigi del Secolo di Milano e dell'Avanti di Roma nel 1894 per il processo Dreyfus), assunse, nel 1906, la direzione del Corriere di Catania.
All'anno 1892 si fa risalire la nascita ufficiale dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, dei quali De Felice è da tutti indicato come il più convinto animatore (anche se una certa tendenza
della storiografia moderna vorrebbe ridimensionarne il ruolo); a Catania, però, il Fascio era stato già costituito il 1° maggio del 1891; e prima ancora, nel 1890, era stato convocato, dallo
stesso De Felice, il primo congresso delle società operaie siciliane, con l'adesione di un paio di centinaia di associazioni; il congresso però era stato vietato dal questore di Catania, su
disposizioni del capo del governo Francesco Crispi. Il primo congresso dei Fasci siciliani si tenne a Palermo, il 21 e 22 maggio del 1893. De Felice vi rappresentò con
successo, all'interno del movimento, la tendenza autonomista, che propugnava un'organizzazione sganciata dalle direttive milanesi; e fu eletto, per acclamazione, membro
del nuovo comitato centrale, che venne per la prima volta costituito in Sicilia, aggiungendosi a quello già esistente a Milano. La costituzione dei Fasci fu seguita da una serie di lotte e di
sanguinosi disordini in quasi tutta l'isola. I morti furono un centinaio.
Il Crispi, tornato frattanto alla guida del governo (15 dicembre 1893), diede subito luogo a un intervento di repressione: il 3 gennaio 1894 un decreto reale
proclamava lo stato d'assedio in Sicilia. Venne nominato commissario straordinario, con pieni poteri, il tenente generale Roberto Morra di Lavriano e della
Montà, che in pochi mesi tradusse dinanzi ai tribunali militari i capi del movimento operaio e contadino siciliano, accusati di eccitamento all'odio tra le
classi e di rivolta armata contro le istituzioni dello stato.
Le pene furono gravose, più di tutte quella inflitta al De Felice: diciotto anni di reclusione. Carcerato nel penitenziario di Volterra, ne uscì due anni dopo, in seguito al decreto di amnistia
emanato, dopo la caduta del governo Crispi, dal nuovo presidente del Consiglio, Antonio Di Rudinì. Tornato a Catania, De Felice (che alle
consultazioni del maggio 1895 era stato rieletto deputato a furor di popolo, benché non rieleggibile in quanto recluso) fu accolto con gli onori del trionfo (come al ritorno della
salma di Bellini da Parigi, scrisse Giovanni Centorbi). Poco dopo, si arruolò volontario per andare a combattere col gruppo dei garibaldini per
l'indipendenza greca. Rieletto deputato alle elezioni politiche generali del marzo 1897, sedette ininterrottamente alla Camera dalla XVIIIalla. XXV legislatura.
Ricordo che durante le elezioni - scrive ancora Giolitti - erano stati eretti molti altarini, sui quali davanti al suo ritratto bruciavano le candele, come davanti
ai Santi.
Memorabile il suo gesto nella seduta della Camera del 30 giugno 1899.
Dinanzi ai provvedimenti liberticidi annunciati dal governo Pelloux(limitazione della libertà di stampa e riunione, configurazione di illecito penale per varie
forme di opposizione politica) i socialisti avevano fatto ricorso all'ostruzionismo parlamentare, pronunziando interminabili discorsi; e, allorché il presidente dell'assemblea, troncando
arbitrariamente la discussione, mise ai voti i decreti, De Felice, insieme a Leonida Bissolati e a Camillo Prampolini, piombò nell'emiciclo e
rovesciò le urne per le votazioni. Questo fatto provocò la chiusura del Parlamento per tre mesi, e un procedimento penale a carico dei tre: Prampolini fu addirittura
arrestato, gli altri due per sfuggire alla cattura, dovettero riparare all'estero fino a quando, nell'ottobre successivo, la magistratura li prosciolse. Della campagna di Libia, De Felice, in
contrasto con le tendenze di fondo del suo partito, fu tra i più accesi fautori, convinto che il territorio dell'Africa settentrionale costituisse uno sbocco naturale per la popolazione
eccedente; questa sua posizione gli costò il distacco dal partito socialista, in quanto egli preferì seguire il Bissolati, dopo l'espulsione di quest'ultimo dal partito,
decretata nel congresso di Reggio Emilia nel 1912.
Interventista fu anche in occasione della guerra 1915-‘18, nella quale combatté volontario, col grado di tenente. Durante il conflitto, fu posto una volta agli arresti per ordine del gen.
Cadorna, per avere, contro gli ordini di quest'ultimo, inviato una corrispondenza di guerra dalla Carnia per il giornale Il secolo.
Agli impegni politici De Felice affiancò una non meno infaticabile attività amministrativa. Fu consigliere comunale e provinciale, e nell'amministrazione municipale di Catania, ricoprì tutte le cariche possibili: sindaco, prosindaco, persino fornaio comunale. Alla sua iniziativa si debbono realizzazioni come la sistemazione della piazza dei Martiri, il prolungamento del viale Regina Margherita alle sue due estremità (rispettivamente col viale XX Settembre e col viale Mario Rapisardi), l'ospedale Garibaldi, il carcere nuovo, l'ospizio Ardizzone Gioeni. Si adoperò per la municipalizzazione dei servizi di panificazione, e organizzò il panificio comunale; cedette inoltre allo Stato il feudo di Pantano d'Arci, a condizione che vi sorgesse un campo d'aviazione. Ma fu soprattutto vicino ai bisogni della popolazione, al punto da meritarsi l'affettuoso nomignolo di nostru patri. Quando morì, possedeva solo sei lire. Al corteo che lo accompagnò all'estrema dimora si calcola abbiano preso parte circa duecentomila persone: vale a dire, tutta la Catania d'allora.