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Vitaliano Brancati

 

(Pachino, 1907-Torino, 1954)

 

Laureato in lettere, insegnò all'Istituto magistrale di Catania, per trasferirsi in seguito a Roma.
Nel dopoguerra collaborò come soggettista e sceneggiatore a numerosi film italiani. Le sue prime esperienze di scrittore sono rappresentate da una serie di opere teatrali di carattere eroico, di romanzi politico-avventurosi e di racconti quasi mondani che vanno da
Piave(Milano, 1932) a L’amico del vincitore(Milano, 1932), primo tentativo di rappresentazione satirica del mondo della borghesia siciliana in cui già é presente quello spunto politico che diventerà uno dei temi costanti della sua narrativa, a Singolare avventura di viaggio(Milano, 1934), e a In cerca di un sì(Catania, 1939), che rivelano l'acuta osservazione di costumi che é il fondamento della sua esperienza di scrittore. Nel 1941 Brancati  ripudiava tutta la sua opera precedente, pubblicando Gli anni perduti (Firenze, 1941) e Don Giovanni in Sicilia (Milano, 1941). Nasce così, quasi di colpo, il cupo, amaro, disperato moralismo di Brancati, indagatore dell'eterno vizio di pigrizia, di incapacità di azione, di debolezza morale della società borghese meridionale, che a un certo punto si riverbera sull'intera situazione della borghesia italiana, descrivendone l'immagine di vizio, inganno, morte.


Gli anni perduti é il romanzo dell'immobilità angosciosa, perché inconscia, della società cittadina di un grande centro della Sicilia, in cui è riconoscibile Catania: una gioventù fra fragili avventure, aspirazioni incerte, miti, desideri sempre delusi (per incapacità di autentica liberazione e di slancio di azione) di evasione verso il continente e Roma, concepiti come i centri della vita vera, e un ricadere ogni volta più cupo nella noia provinciale, nell'inutile rovello, nei vuoti discorsi, sempre uguali come ritornelli di un'esistenza che trapassa insensibilmente dalla giovinezza alla maturità senza che nulla muti, né vengano la coscienza del vivere, un impegno, uno scatto sincero. Don Giovanni in Sicilia ha lo stesso intento acremente corrosivo: qui, é il siciliano emigrato, l'uomo che ha fatto il gran passo, che ha trovato la forza di liberarsi dalle costrizioni dell'ambiente siciliano, dai complessi insulari, che é andato al Nord, a costituire il termine dell'indagine dello scrittore, che lo indica nel punto del suo fallimento, nel suo ricadere, non appena le vicende dell'esistenza gliene offrono l'occasione, nei vizi antichi, in quell'abissale pigrizia e incapacità di seria volontà morale, in cui, secondo lo scrittore, sta il vizio profondo della borghesia meridionale. Si inserisce a questo punto la scoperta da parte di Brancatidelle ragioni politiche di questa disgregazione morale, o, meglio, l'espressione politica di questa condizione diminuita e perduta, nell'enorme, grottesco inganno e oppressione che fu il fascismo (che gli dà la chiave, altresì, per cercare di allargare all'intera borghesia italiana il senso della sua analisi): e ne nascono i testi più significativi della sua narrativa, da Il vecchio con gli stivali (Milano, 1945) a Il bell'Antonio (ivi, 1949)

 

La vicenda del povero impiegato che, per migliorare le proprie condizioni economiche, riesce, entrando nella trama delle piccole truffe, nei compromessi, negli inganni meschini del sistema fascista, a farsi passare per antemarciaottenendo il sussidio e facendo una modestissima carriera, così che, alla liberazione, finisce unico epurato, e proprio dai suoi superiori di ieri, più abili di lui a farsi meriti per dopo, non é l'elegia del povero diavolo che, nei rivolgimenti, finisce per andare sempre di mezzo: é la rappresentazione acremente ironica, impietosa, del vecchio che si mette gli stivali, che sostiene il sistema grottesco del fascismo, perché non ha fede che nell'astuzia, non ha altra etica che la famiglia, il piccolo guadagno; e la satira cade violenta, su di lui come sui più impotenti profittatori del regime che lo proseguono al di là della caduta perpetuandone i metodi. Sono le stesse ragioni che sostengono la grandiosa, forte e colorita, acre e ridente irrisione contenuta ne Il bell'Antonio: da un lato, la rappresentazione più matura del mondo catanese, quello degli Anni perduti, con i suoi miti, le sue vane tensioni, le sue attese a vuoto, i pettegolezzi, resi più sapidi dall’atmosfera della dittatura; dall'altro, la rappresentazione corrosiva del fascismo nei suoi miti di sesso, possesso, conquista, infantilismo; in mezzo, la vena disperata e funebre di Brancati, che spunta fuori della sua violenza irridente e beffarda, e usa ora la metafora del bell'Antonio, il giovane bellissimo e impotente che rappresenta a tratti come il limite grottescamente incarnato proprio nel supremo ideale del fascismo e della società borghese e meridionale, il sesso, dell'impotenza morale, militare, politica del regime, del suo fallimento, della disfatta italiana, ora interviene con la diretta dizione della coscienza desolata dell'inutilità degli sforzi di mutare il mondo, secondo una posizione in cui l’odio per la dittatura e il senso del ridicolo si uniscono con la consapevolezza ancestrale che non ci sarà nulla da fare, che la società italiana è guasta fino in fondo, e altri "mostri" sorgeranno dal cadavere del fascismo.

 

Nasce di qui l'ultima opera, Paolo il caldo (Milano 1955), incompiuto romanzo della disperazione, dello scetticismo radicale, dell'annullamento, perseguito attraverso l’analisi atroce della dissoluzione fisica e mentale del protagonista nel sesso, come l’unico contatto che gli é possibile con una realtà che gli sfugge, in cui non crede più, entro una società che é ormai ricaduta nei vizi morali di sempre, nella corruzione, nell'inganno, nella menzogna, nell'erotismo come al tempo più oscuro del fascismo. Il protagonista di Brancati precipita verso l'autodistruzione, con disperazione e con ironia sempre più desolata e triste, sempre più scettica e al tempo stesso piena di rovello per il rinnovamento che non c’è stato.